Napoli, 23/02/1835 - 21/09/1920
Trattò particolarmente quadri di genere e scene militari. Esordì nel
1855 alla mostra di Napoli, nel R. Museo Borbonico, con I crociati
che abbattono degli alberi in un bosco per costruire macchine da guerra;
a questo fece seguire I massacri d'Altamura; Episodio del terremoto a
Torre del Greco; Il 2 novembre a Napoli e Ozio e lavoro, che
esposto a Napoli nel 1863, venne acquistato da Vittorio Emanuele Il e
attualmente è collocato nella Galleria di Capodimonte. Il quadro Una
carica di bersaglieri alle mura di Roma, esposto a Milano nel 1872,
gli procurò grande notorietà e plauso. In seguito dipinse, sempre con
maggior progresso, La battaglia di San Martino, opera di grande
movimento e di audace composizione che venne esposta a Roma nel 1883.
Prese parte alle mostre del Salone di Parigi e alle principali nazionali
e regionali, fra le quali quella di Napoli del 1877, dove inviò Covo
di Briganti; di Torino del 1887 con Innamorati; Nel Pistoiese
e Compagno d'armi, e a Venezia, nel 1887, con Partita a
briscola. Nel grande quadro di composizione La battaglia di
Dogali, eseguito sul posto fece risaltare la possente costruzione,
con risoluto e armonico impasto di colore, usato con signorilità e
dovizia. Con la tela Un cacciatore si rivelò anche ottimo
paesista.
Altre opere: I martiri della patria; Una strega; Un banchetto;
Studente d'anatomia; Un debito di giuoco; Triste ritorno; Un primo
fallo; Piazza San Marco (quest'ultima viene considerata fra le sue
opere più spontanee per i toni spiccati di lacca nera in forte contrasto
coi toni bianchi e avorio) nella Galleria d'Arte Moderna di Roma; Le
corse alle Capannelle, proprietà del sen. Luigi Della Torre di
Milano; La minestra del Convento, nella raccolta del comm. Enrico
T. Allievi di Milano; I pifferai, nella collezione del dott.
Pietro Ruffini di Milano; La scuola di pittura napoletana; L'uscita
dalla chiesa (Roma, Galleria d'Arte Moderna). Eseguì vari ritratti
notevoli per la somiglianza e la leggiadria. Successe a Filippo Palizzi
nell'insegnamento all'Istituto di Belle Arti di Napoli.
(A. M. Comanducci)
Nacque a Napoli il 23 febbraio 1835 da Salvatore di Giuseppe, il quale
aggiungeva alla sua principale attività di autore drammatico e di
librettista di opere liriche quella di pittore di vedute locali, e da
Angelica Cammarano. Il giovane Cammarano ebbe così occasione di crescere
in un ambiente familiare propizio a secondarne la vocazione artistica
(oltre che dal padre e dal nonno fu indirizzato, infatti, verso la
pittura di paesaggio dal fratello di quest'ultimo, Antonio); un
ambiente, peraltro, ove anche i rapporti con il mondo del teatro
favorivano l'accesso a una cultura ben più vivace di quella che
ristagnava nel clima provinciale della Napoli degli ultimi tempi
borbonici, permeata di fermenti patriottici.
Il 14 marzo 1853 si iscrisse all'Accademia di Belle Arti di Napoli,
frequentando assiduamente la scuola di paesaggio dello Smargiassi e
quella di nudo retta dal Mancinelli: ma la sua formazione si basò
soprattutto sugli esempi di Giuseppe e Filippo Palizzi, attraverso i
quali risaliva tanto alla tradizione lirica di G. Gigante e della scuola
di Posillipo quanto alle più moderne disposizioni in senso naturalista
che appunto Giuseppe Palizzi aveva ricavato in Francia dal contatto con
Courbet e con la scuola di Barbizon. Di queste disposizioni verso una
presa diretta dal vero il Cammarano dette già prova significativa con i
dipinti che espose nel 1855 alla mostra nel R. Museo borbonico, come
quello rappresentante i Crociati che tagliano un bosco (Napoli,
Museo di S. Martino) - quadro preparato attraverso una fitta serie di
studi fatti tra i monti del Molise -, e poi ancor meglio nel
Paesaggio invernale del 1857 (Napoli, Galleria dell'Accademia) in
cui il basilare influsso palizziano si colora di austera trepidazione
romantica. Qualche anno dopo, nel 1859, partecipò al concorso per il
"pensionato"; dovendo in tale occasione eseguire un quadro a soggetto
obbligato (un Paesaggio con un eremita in una grotta), dettato
dal De Vivo, espresse la sua insofferenza per siffatte esercitazioni
scolastiche che definì, in una lettera a B. Celentano, come "ciò che
pazzamente vien fatto nell'Accademia": ne riuscì invero un'operina
modesta (Napoli, Galleria dell'Accademia) invano toccata di tratti
palizziani.
Già allora a si convinta vena naturalista era sottinteso un sentimento
di civile partecipazione agli eventi contemporanei, che si ampliò e si
precisò dopo il 1860 e dopo le esperienze compiute militando nella
guardia nazionale, in cui s'era arruolato volontario in quell'anno
stesso. Nel 1861 si recò brevemente a Firenze, intendendo partecipare
all'Esposizione nazionale per la quale aveva ideato un quadro, poi
perduto, di argomento garibaldino: ebbe allora i primi contatti con i
macchiaioli. Ma l'ispirazione a temi di attualità si manifesta meglio in
opere come il Terremoto di Torre del Greco (Napoli, Museo di S.
Martino) che è pure del 1861 e, due anni dopo, in Ozio e lavoro
(Napoli, Museo di Capodimonte) improntato a motivi di polemica sociale,
sia pure di carattere genericamente umanitario. Proprio in Ozio e
lavoro, però, è anche un più controllato dettato formale, che quasi
s'accosta a quello d'un Marco De Gregorio e che comunque segna il
distacco dalle matrici palizziane. Tale distacco si farà più netto dal
1865 - anno in cui il Cammarano si trasferisce a Roma - in poi: a Roma
infatti, grazie anche al rapporto con il Fracassini, riaffiorano i pur
mediati influssi del realismo di Courbet, e l'artista riesce ad
esprimere, al di là dell'aneddotica di tante sue opere di quel momento,
una sincera emozione per il mondo popolare.
Tra le opere migliori di questo periodo sono Chiacchiere in piazza in
Piscinula (1865) e La Porta santa (1868), entrambi nella GNAM
a Roma, il Ghetto (1868: Napoli, coll. Apuzzo) e quell'Incoraggiamento
al vizio (1868: Roma, coll. Cerciello) che l'artista portò con sé a
Venezia, nel 1869, e che fece grande impressione sui pittori veneziani,
dal Ciardi al Favretto al Zandomeneghi. Nei mesi trascorsi a Venezia il
Cammarano dipinse alcuni paesaggi e vedute della laguna, di ferma
struttura luministica, e uno dei suoi veri capolavori: Piazza S.
Marco (1869: Roma, GNAM), episodio di virtuosismo per la brillante
resa degli effetti notturni, ma anche autentica tranche de vie della
società borghese del tempo. Tornato a Roma, il Cammarano ne riparte il 2
marzo 1870 per recarsi a Parigi, ove ha finalmente modo di conoscere
personalmente Courbet, ma è attratto soprattutto da Géricault, del cui
Radeau de la Méduse esalterà, nelle sue Memorie, la
"straordinaria potenza, ... l'intonazione e disegno ardito, palpitante
d'espressione della figura" (Biancale, p. XIV). Non s'interessa invece
delle coeve esperienze degli impressionisti.
Di nuovo a Roma, giusto in tempo per essere testimone della liberazione
della città, ne celebrerà l'evento con quella Carica dei bersaglieri
a Porta Pia (1871: Napoli, Museo di Capodimonte) che è il primo dei
suoi grandi quadri ispirati all'epos risorgimentale e di certo il più
popolare: una composizione "in grande", complessa e corale, memore
dell'esperienza compiuta proprio dieci anni prima con il Terremoto di
Torre del Greco ma anche, e sia pure in accezione semplificata,
della lezione di Géricault. Giustamente è stato osservato che qui "ciò
che ha interessato l'artista non è il fatto di cronaca con le sue
determinazioni di luogo e di tempo, ma la sua drammaticità; non la
storicità letterale 'panoramica' del fatto, ma la sua immediata
violenza, la sua imminenza di 'primo piano'" (Maltese, 1960, p. 218).
Negli anni successivi, sempre a Roma, il Cammarano è ancora talvolta
impegnato in grandi composizioni "storiche", come Il 24 giugno a San
Martino (1883: Roma, GNAM), che accentua ulteriormente la coralità
della Carica dei bersaglieri e mostra un ancor più sicuro dominio
dell'impaginazione scenica. Ma la sua attività è allora prevalentemente
dedita all'approfondimento di un tematica popolare e sociale di più
cruda evidenza, non scevra di polemiche nei confronti della società
ufficiale dell'Italia unita.
Già I boscaioli (dipinto a Subiaco nel 1878: Napoli, coll. del
Banco di Napoli, in deposito al Museo di Capodimonte) e il Covo dei
briganti (Roma, coll. C. Bruno) scantonano il folclore per indagare
dimesse condizioni umane: nella Partita a briscola, nota anche
come Rissa a Trastevere (1887: Napoli, Gall. dell'Accademia),
infine, erompe un'emozione quasi sgomenta e il discorso pittorico si fa
serrato, fulmineo, dimostrando come certi episodici recuperi dalla
tradizione del naturalismo secentesco - già comparsi ad esempio nel
Terremoto di Torre del Greco o nel Ghetto del 1868 - qui,
resi ancora più espliciti per puntuali riferimenti alla Deposizione
del Caravaggio, sappiano finalmente realizzarsi in rivivificato
linguaggio espressivo. Ricevuto l'incarico di dipingere un quadro
rappresentante la Battaglia di Dogali, per lo scrupolo di
documentarsi dal vero sul paesaggio africano e sui costumi locali, il
Cammarano si trasferisce a Massaua, ove resta per oltre quattro anni,
dal 1888 al 1893: l'enorme quadro che risulta da sì accanito esercizio
veristico (Roma, Gall. nazionale d'arte moderna) è, ad onta dell'assunto
celebrativo, "una composizione per niente retorica, ma l'immagine di una
battaglia vera, disperata, dove bianchi e neri, vincitori e perdenti
condividono imparzialmente terrore e coraggio, esaltazione e
abbrutimento" (Maltese, 1967, p. 21). Fu questa la sua ultima impresa di
grande respiro compositivo; dopo il ritorno in patria attese quasi solo
a paesaggi di taglio minuto, come se volesse tornare a un'indagine
particolareggiata di singoli brani di natura, e a qualche ritratto o
studio di figura.
Il 15 genn. 1900 fu nominato a succedere a Filippo Palizzi sulla
cattedra di "pittura di paese e di animali" nell'Istituto di Belle Arti
di Napoli, incarico che accolse volentieri anche per alleviare le sue
dissestate condizioni economiche. Tornò così, dopo trentacinque anni,
nella città natia, e si dedicò con impegno all'insegnamento, cercò anzi
di rinnovarne alquanto i metodi tradizionali, portando i suoi allievi a
esercitarsi dal vero com'egli stesso aveva fatto in gioventù: "devi
cercare di rendere l'albero così come se dipingessi un nudo",
raccomandava loro, come racconta E. Pansini. Divenne allora amico di
Salvatore Di Giacomo, al quale lo legavano affini attitudini di
interesse per la vita popolare. Fece qualche viaggio in Sicilia
riportandone impressioni di paesaggi per lui inconsueti. Ma tornato
ormai a risiedere stabilmente in un ambiente che era quanto meno restio
ad aprirsi alle correnti di nuova e più viva cultura figurativa,
incapace egli stesso a scuotersi dalla pigra routine in cui s'era
adagiato, trascorse gli ultimi anni della sua vita senza più produrre
nulla in cui si riconoscesse l'antico suo talento. Quando morì, a
Napoli, il 21 settembre 1920, era ormai considerato un sopravvissuto.
La rivalutazione critica della personalità del Cammarano è giunta solo
in tempi recenti, dopo aver scontato le generiche, enfatiche
commemorazioni di tendenza tradizionalista, e invece sul filo d'una
spregiudicata e globale riconsiderazione e del movimento verista e dei
propositi etico-sociali della "pittura di storia" ottocentesca. Così, se
per la conoscenza dei dati biografici resta fondamentale la monografia
sul pittore di M. Biancale (in larga parte basata su quelle Memorie che
il Cammarano aveva redatto negli ultimi anni di vita e il cui
manoscritto, consegnato al Di Giacomo, è rimasto quasi tutto inedito ed
è ora introvabile), per una più consistente indagine critica bisognerà
attendere le pagine di C. Lorenzetti nella sua storia dell'Accademia di
Belle Arti di Napoli (1952), il saggio introduttivo di P. Ricci al
catalogo della mostra dedicata all'artista nel 1959 - nel quale però
vengono amplificati oltre misura i rapporti con la tradizione del
naturalismo secentesco napoletano e vengono peraltro svalutati altri
aspetti della civiltà artistica dell'Ottocento, come il movimento dei
macchiaioli, che pur parteciparono di istanze civili e sociali simili a
quelle del Cammarano -, e infine gli scritti del Maltese (1960 e 1967).
Sono questi proprio che finalmente riequilibrano la valutazione
dell'apporto del Cammarano a quello che fu, sostanzialmente, un momento
unitario dell'arte italiana, riconoscendo in lui "il solo pittore
dell'Italia unita che seppe quasi dovunque evitare la retorica e tenere
alta la propria dignità di artista nonostante l'ufficialità dei temi e
l'impeto delle proprie convinzioni politico-sociali".
Oreste Ferrari - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 1974
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treccani.it
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