Possagno, 01/11/1757 - Venezia, 13/10/1822
«L'Europa, anzi il mondo non ha che un Canova», scriveva
Byron nel 1818 a capo del quarto canto del Childe
Harold.
Foscolo aveva dedicato al Canova Le Grazie. Bonaparte gli aveva
dichiarato in faccia che «ai genii non si prescrivono leggi».
Giurava Stendhal che Antonio Canova, senza copiare i greci aveva come i
greci inventato una sua bellezza.
E Pietro Giordani, nel Panegirico di lui vivo, lo chiamava «sovrano
delle più nobili arti che non è minore ai dominanti perché non è tenuto
e non teme, quest'uomo singolare e verissimamente divino che diresti
collocato sul doppio confine della memoria e dell'immaginazione umana a
congiungere due spazi infiniti, richiamano a noi i passati secoli e de'
nostri tempi facendo ritratto all'avvenire».
Fu l'ultimo artista italiano che restasse nella tradizione italiana, non
per capriccio o per teoria, ma per istinto e per coscienza; e dove
un'opera sua appariva, a Londra o a Pietroburgo, a Parigi o a Vienna,
prima di sapere che fosse sua, chi la guardava diceva: Italia.
Veneto e romano nato a Possagno il primo novembre del 1757, andato a
Roma poco più che ventenne, gli parve di fare romana in segno di
gratitudine, anche la sua piccola patria tra il verde delle colline
asolane erigendovi a sue spese un tempio che lo tenesse addirittura del
Partenone e del Pantheon. Ma per quanto si paludasse nella toga, restò
veneto fino alla morte, pel suo amore allo studio del vero, pel senso
del patetico che animò le sue sculture più classiche, la Venere o le Tre
Grazie, l'Amore e Psiche o Polimnia.
I dotti e i letterati ammirarono nell'opera sua lo studio e il ricordo
dell'antico, la purezza e nitidezza della sagome, l'equilibrio ed
armonia della masse. Ma il pubblico era preso da quell'alito
freschissimo di vita che spirava ad ogni scultura di lui, da quella
grazia e dolcezza prima veneziana che greca, prima settecentesca che
antica. il suo Dedalo e Icaro, scolpito a ventidue anni e rimasto
a Venezia, è più vicino, per fortuna a Tiepolo che a Fidia.
La stima di Napoleone, la fatica ostinata, prudente, fortunata con cui
egli a Parigi riuscì a ricuperare, col titubante soccorso degli Alleati
vittoriosi, la maggior parte delle pitture e sculture che Napoleone
aveva dietro i suoi trionfi portate via dall'Italia, dettero ad Antonio
Canova anche un'aureola d'uomo politico.
Semplice, bonario, generoso, sempre pronto a donare, felice solo nel
chiuso del suo studio occupato da cento statue e da cento abbozzi, di
questa gloria aggiunta egli si giovò soltanto per l'arte.
- Mi no odio nissun, - egli aveva risposto quando la Repubblica
piantata dai francesi a Roma gli aveva chiesto di giurare in Campidoglio
odio eterno ai tiranni. Fu la sua divisa fino alla morte.
Re degli scultori, marchese d'Ischia per volontà di Pio settimo,
principe e presidente perpetuo dell'Accademia di San Luca, conte
palatino e dello Speron d'oro, quando si sentì malato a morte, tornò
alla sua Possagno, e di là venne a spirare a Venezia: il 13 ottobre
1822.
(Ugo Ojetti) |