Pillole d'Arte

    
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Angelo Dall'Oca Bianca




Verona, 31/03/1858 - Verona, 18/05/1942

Figlio di Giuseppe e di Beatrice Resi, nacque il 31 marzo 1858 a Verona ove fu battezzato nella parrocchia di S. Anastasia. Il padre, verniciatore, aveva avviato, con la gestione di un'osteria, un'attività commerciale che, agli inizi, gli procurò soddisfazioni e benessere; il fallimento della piccola azienda però lo portò di lì a poco allo stato di indigenza. Ne subì gravi conseguenze psicologiche oltre che quelle materiali, più di ogni altro della famiglia, il piccolo D. che, allora ai suoi studi elementari, disertò i banchi di scuola, bighellonando nei vicoli più sordidi e poveri della vecchia Verona. Il ritorno alla "norma" avvenne alla scomparsa del padre quando il giovine, per sostenere la madre molto amata, cominciò a lavorare - come egli stesso ricorda (catal. 1912) - facendo il manovale, mestiere cui fu avviato dai fratelli che già allora erano bravi decoratori. Contemporaneamente cercò di recuperare, almeno in parte e da autodidatta, i tempi perduti dell'apprendimento scolastico e, sostenuto da una non comune e naturale disposizione artistica, cominciò con determinazione a disegnare e dipingere. Fra questi esordi degno di rilievo è il Ritratto del padre (1873), opera già di una certa maturità e tale che lo scultore U. Zannoni si interessò al D. e si adoperò affinché potesse seguire studi regolari all'Accademia Cignaroli, allora diretta da N. Nani.

Stando ai verbali dell'istituto veronese, il Dall'Oca Bianca fu iscritto regolarmente ai corsi nel breve periodo che va dall'ottobre del 1873 alla primavera del 1876. All'epoca dell'alunnato ebbe compagni di corso Cristani e Milesi: con quest'ultimo ebbe modo di mietere i primi allori, dividendo equamente i premi annuali assegnati nel 1873 e nel 1874. Secondo la ricostruzione accurata, pur se succinta, del Magagnato (1968), l'ambiente in cui maturò l'artista era, a Verona come a Venezia, quello di Giacinto Gallina, non rimanendo a Verona neppure l'eco di Vincenzo Cabianca, presto passato a Firenze e lì legatosi ai macchiaioli. La sua fu, come per quasi tutti gli artisti della sua generazione, un'educazione tenacemente provinciale, con un'ottica miope e restia quindi a qualsiasi suggestione modernista di ampio respiro europeo.

Dopo la grande stagione neoclassica e romantica, gli anni '70 e '80 sentono infatti il travaglio dell'Unità; gli artisti o maturano fughe in avanti in accezione decadente e dannunziana o, come il D., esauriscono e immiseriscono le istanze del verismo nel tono dialettale e provinciale della letteratura e della pittura di genere, tipiche del nostro tardo Ottocento. Non a caso subito dopo il proprio alunnato alla Accademia Cignaroli, il D. abbandonò, senza esitazioni, la tradizione del ritrattismo veneto, così come la lezione del vedutismo di Bresolin, del Ciardi e del Nono ed optò, già a partire dal 1876, in favore di una versione in tono minore del dettato favrettiano; si definì quindi la sua particolare propensione per una pittura vernacolare minore, molto vicina alle contemporanee espressioni della poesia dialettale di Berto Barbarini. Queste scelte cominciarono a definirsi con maggiore precisione sullo scorcio del 1876 quando, buttandosi alle spalle l'insegnamento del Nani, egli passò, insieme al Milesi, all'Accademia di Venezia, ponendosi così sotto la guida di G. Favretto.

Le due orfanelle (1877) è la sua prima opera autonoma dopo le prove ancora di scuola, fra le quali i biografi dell'artista ricordano "accademie" e copie varie dall'antico, accanto ad esercitazioni dal vero. In essa è impossibile non notare un vibrante ed insistito pietismo che, come in molti dipinti di Dall'Oca Bianca di impronta vernacolare, stempera il discorso sul versante dell'idillio e del bozzetto, lontano da qualsiasi intenzionalità sociale. La letteratura artistica contemporanea a Dall'Oca Bianca e quella di oggi concordano nell'individuare i temi più sentiti della sua poetica nella celebrazione della bellezza di Verona, visitata soprattutto nei suoi angoli più remoti e meno ufficiali; nell'esaltazione dell'eterno femminino, in tutte le età, dalla fanciullezza alla maturità, e nei vari aspetti della seduzione, dell'innocenza, della fierezza, della tenerezza, della timidezza, della gioia e del dolore; infine nella visione poetica del lago di Garda e la sua mutevolezza a seconda delle stagioni, dei tempo atmosferico e dell'ora dei giorno.

La prima uscita ufficiale di un certo rilievo cui partecipò il Dall'Oca Bianca fu l'Esposizione autunnale di Brera del 1880, cui si aggiunse, l'anno successivo, quella Nazionale di Milano dove espose Lavatoio, Sotto zero, Lattivendolo, Coti i boni (nel 1912 propr. Sonzogno, Milano). Nel periodo immediatamente successivo soggiornò a lungo a Roma dove frequentò l'ambiente delle Cronache bizantine (prima di tutti D'Annunzio e Michetti, ma anche, fra gli altri, Carducci, Pascarella e Scarfoglio), ambiente che lo stimolò a riprendere, sempre da autodidatta, gli studi interrotti. A questo stesso periodo, e forse ai contatti con Michetti, risalgono gli interessi fotografici del pittore testimoniati da un corpus di circa 600 lastre (Verona, Museo di Castelvecchio) i cui soggetti sono in stretta relazione con quelli dei dipinti, specie per quanto riguarda il "piccolo realismo" dei mestieri ambulanti e l'interesse per la figura femminile.

Nel catalogo della mostra (1981) dedicata a questo aspetto espressivo del Dall'Oca Bianca, il fare fotografico viene giustamente ricollegato all'insegnamento di P. Selvatico Estense all'Accademia di Venezia e al valore ausiliario attribuito dal Boito al "vero" fotografico nei confronti della pittura di genere. Indipendentemente dagli esiti e dalla qualità - non certo trascurabile - delle sue fotografie, è interessante notare come il pittore si rivolga al fotografo perché gli fornisca, più che un'idea, soggetti definiti e ben individuabili, integri e conclusi, precostituiti per essere trasposti di peso, pur se con un segno ben differenziato, nella pittura.

Al Dall'Oca Bianca fotografo, che spesso compone le sue scene invece di coglierle nella loro fresca spontaneità, come al pittore, è mancata "l'ideologia e la sicurezza dell'identificazione borghese, per cui indugiò su scenette di colore sempre più convenzionali, quasi mai cercando quell'approfondimento dei sentimenti individuali, cui tendeva tutta la cultura borghese del tempo, né tantomeno la denuncia di un realismo senza compromessi" (Marinelli, 1981).

In occasione dell'Esposizione nazionale di Torino del 1884 espose Viatico (Gall. d'arte mod. di Milano) e Colto in flagrante (Galleria naz. d'arte mod. di Roma), opere ancora legate alla narrazione e all'aneddoto, secondo la moda più corrente del periodo. Gli stessi temi e i medesimi modi caratterizzano anche Ave Maria (Milano, Gall. d'arte mod.) - che nel 1886 meritò l'ambito premio Principe Umberto -, le opere esposte alla personale di Berlino del 1891 e quelle presentate alle prime Biennali, come ad es. Primavera. Lentamente però il pittore all'inizio del secolo cominciò a sentire l'influenza del divisionismo e del simbolismo ai quali egli si avvicinò non certo attraverso la suggestione dei grandi protagonisti, ma grazie al tramite di figure minori, quali A. L. Zorn, J. Sorolla e J. Lavery, studiati per giunta con scarsa e superficiale attenzione.

Pur mantenendosi fedele all'esaltazione della bellezza muliebre, il Dall'Oca Bianca sembra ora maggiormente attratto dalla seduzione simbolista, come sembrano indicare i dipinti L'educazione politica (esposta alla Triennale di Milano del 1900), Paolo e Francesca, Medusa, Stella mattutina; il tono però è sempre quello delle declinazioni moderniste più facili e alla moda, quello che filtra financo attraverso i cataloghi e le cronache delle Biennali del periodo 1900-1910. Verso la fine del primo decennio il linguaggio del D., dopo una lunga e contraddittoria formazione, si assestava in una sua formula tipica e ripetitiva che è quella più nota e riconoscibile (Magagnato). Questo aggiornamento espressivo del pittore si manifesta nelle opere con cui partecipò alle varie Biennali dell'inizio del secolo; a quella del 1903, dove figurò con otto tele fra cui Piazza dell'Erbe, a quella del 1905, dove espose Ombre e luci primaverili, La chiesa, Poesia notturna, e ancora a quelle del 1907, del 1909 e del 1910. La sua presenza più massiccia all'appuntamento veneziano fu comunque nel 1912, anno in cui partecipò alla Biennale con una personale di più di ottanta opere, affidando la propria presentazione ad una succinta nota autobiografica (catal., 1912, pp. 36 s.).

Fu questo il momento di maggiore adesione alla pittura europea, come testimonia soprattutto il suo rinnovato cromatismo che, sempre denso, diventò allora più acceso e violento, a volte addirittura pesante. Si allontanò da questa gamma di colori rutilanti nelle serie del lago di Garda (Poemi del cielo, Ulivi del Garda, entrambi del 1917) che, abbandonando l'olio, si avvalgono della tecnica monocromatica del pastello, secondo una tendenza che già aveva dato i propri frutti in altre opere precedenti la grande guerra, caratterizzate appunto da toni bassi e da morbide ed evanescenti delicatezze cromatiche. Sempre del 1912 sono Porto di Torri e Vela bianca (ora alla Galleria d'arte moderna di Venezia); risale al 1905 il Ritratto della madre esposto alla Mostra dei ritratto di Monaco dello stesso anno (fra gli altri ritratti del D.: Garibaldi, Mazzini e Ritratto della contessa X).

Malgrado l'artista continuasse a lavorare fino agli ultimi anni della propria esistenza, si può dire che dopo la grande guerra la sua fama, specie a Verona, era affidata più alla sua personalità di uomo che non alla sua capacità di rinnovarsi sul piano artistico. Raggiunta l'agiatezza economica e ottenuti i riconoscimenti più alti da parte dei critici più accreditati del tempo, dal Pica al Biancale, rinunciò a qualsiasi occasione ufficiale, a mostre, ad esposizioni e inviti e, spesso, anche alle vendite, per una sorta di gelosa riservatezza e di presa di posizione nei confronti dei giochi di parte della critica.

Sono questi gli anni in cui andò sempre più interessandosi al problema sociale, a quelli dell'edilizia popolare, dell'urbanistica e della tutela del patrimonio artistico e paesaggistico di Verona, secondo una propensione che aveva già manifestato a partire dal 1901-02, quando il centro storico della sua città natale. e soprattutto piazza delle Erbe, stava per cadere sotto il piccone della speculazione edilizia che ufficialmente sbandierava un civile programma di risanamento dei quartieri poveri per misure d'igiene. Pur persuaso della necessità di intervenire sul ghetto a ridosso di piazza delle Erbe, il Dall'oca Bianca lottò con tutte le forze perché ne fosse salvato il prolungamento verso meridione, quello che formava scenario della storica piazza, fitto di casupole irregolari e pittoresche, bisognose di restauro, legate però, e in maniera indissolubile, al complesso popolaresco e movimentato del centro di Verona.

Di questa Verona minore e non monumentale che già dal tempo della sua prima infanzia non conosceva per lui segreti, di questa Verona che egli aveva immortalato nel propri dipinti, si erse indomito difensore e, servendosi ampiamente della stampa locale e nazionale, riuscì a suscitare un largo movimento d'opinione, capace, nel tempo, a distanza di circa venti anni, di garantire la conservazione dell'integrità ambientale di piazza delle Erbe (cfr. lettere ad A. Orvieto e I. Coppa, cit. in Il Marzocco..., catal., Firenze 1983, p. 128).

Altrettanto consapevole e sentita fu la battaglia sostenuta dal pittore in favore delle porte di S. Zeno, battaglia che ancora conduceva nell'aprile del 1926, quando Pietro Fedele, ministro della Pubblica Istruzione, in una lettera al Dall'Oca Bianca prometteva una visita a Verona insieme con il direttore generale delle Belle Arti per studiare e risolvere i problemi di tutela delle famose porte. Si impegnò anche contro il progetto di deviazione del corso dell'Adige per creare un canale di bonifica (1923) che avrebbe dovuto sollevare le sorti dell'industria mantovana; anche questa volta l'artista entrò nel vivo del dibattito in nome della salubrità e dell'estetica di Verona, in pericolo mortale per l'egoismo campanilistico di Mantova.

Dopo aver fatto dono di gran parte delle sue opere alla città natale - che, nell'estate del 1939, aveva dedicato alla raccolta quattro sale di palazzo Forti - il Dall'oca Bianca donò al comune, oltre alla somma di L. 80.000, anche un vasto appezzamento di terreno nei pressi di S. Zeno per la costruzione di "un villaggio di semplici e sane dimore per strappare i cavernicoli dagli antri umidi e per ricondurre un poco di serenità e di dignità umana in chi aveva conosciuto della vita soltanto lacrime e tempeste".

Sollecitato da quest'atto il comune fece propria l'iniziativa, acquistando altri terreni ed ordinando al proprio Ufficio tecnico i piani del villaggio, che ebbe dal governo la sovvenzione di L. 600.000. Il giorno di Natale del 1939, nella Giornata della madre e del fanciullo, a poco più di un anno dalla posa della prima pietra, veniva ufficialmente inaugurato il Villaggio Angelo Dall'Oca Bianca, costituito da un primo nucleo edilizio di casette a un solo piano, capaci di accogliere una o più famiglie, con appartamenti di tre e di cinque locali, servizi igienici, arredamento completo di mobili, biancheria e suppellettili. Al centro, il piazzale con la chiesa, l'asilo infantile, il centro assistenziale, i bagni, il campo sportivo e il magazzino per lo spaccio e i generi alimentari. Il lascito testamentario del pittore avrebbe in seguito dato ulteriore sviluppo al centro sia col ricavato (L. 30.000.000 fra Verona e Milano nel decennio successivo alla sua morte) della vendita della sua quadreria di circa 1200 opere, sia con la rendita del patrimonio, devoluto anche a favore di altri enti assistenziali e all'istituzione di tre borse di studio annue per giovani meritevoli e bisognosi, desiderosi di seguire i corsi dell'Accademia Cignaroli.

Nella biografia scrittane da Fragiocondo (Giulio Cesare Zenari, 1952) e nel volume monografico a cura di Manzini (1939) è esaltata al massimo la statura morale e civile dell'uomo, sono ricordati episodi particolari della sua vita, e raccolti i suoi famosi aforismi, ora dati a commento dei quadri (Manzini), ora pubblicati come corpus unitario (Fragiocondo), quasi a riconoscerne e a sottolinearne la dignità letteraria. Un ritratto del D., opera di E. Ximenes del 1912, è ora alla Galleria d'arte moderna di Venezia. Morì a Verona il 18 maggio 1942.

(Marina Miraglia - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 (1986) - treccani.it