Livorno, 06/09/1825 - Firenze, 30/08/1908
Nato a Livorno il 6 settembre 1825, morto a Firenze il 30 agosto 1908.
Frequentò l'Accademia di Firenze (1846) dove insegnava Giuseppe Bezzuoli,
ma durante quel tempo poco imparò perchè le sue misere condizioni
finanziarie non gli permisero d'avere uno studio, i modelli, e molte
volte anche la camera per dormire. Il suo vero studio fu disegnare dal
vero instancabilmente, in qualunque punto qualsiasi cosa gli fosse
capitata sott'occhio. Gli animali e specialmente i cavalli furono i suoi
soggetti preferiti, poi disegnò soldati nei bivacchi, all'istruzione nei
combattimenti.
Il primo lavoro importante che presentò al pubblico fu La battaglia di
Magenta, col quale vinse il concorso Ricasoli nel 1859, attualmente
collocato nella Galleria d'Arte Moderna di Firenze. A questo quadro ne
fece seguire altri, pure di soggetto militare, come L'attacco alla
Madonna della Scoperta, conservato nel Museo Civico di Livorno; Bivacco, nel Museo Revoltella di Trieste;
Il Principe Amedeo ferito a Custoza; La battaglia di Custoza; Lo scoppio del cassone; Il
Carroccio; L'appello dopo la carica; Squadrone di cavalleria in
partenza; Alle grandi manovre; Ritorno in caserma; Linea di
battaglia ed Esercitazioni militari, entrambi nella
Galleria d'Arte Moderna di Roma; Carabinieri in perlustrazione
e Dragoni italiani in
perlustrazione, in quella di Milano.
Dopo il 1870 rivolse la sua attività a ritrarre paesaggi maremmani con
mandrie di buoi e di puledri, condotti da butteri barbuti e dall'aspetto
fiero, come le loro cavalcature. Le principali opere di questo periodo
sono: Marcatura dei puledri; La Maremma; Il salto delle pecore in
Maremma; Riposo; Mercato in Maremma; E ora?..; Le boscaiole;
Il mercato di buoi; Cavalli al pascolo; Libecciata;
L'abbeveraggio; In Ciociaria; Lo staffato; Conduttori di
mandrie; L'affogato; Le botti rosse; La Rotonda di Palmieri.
Ugo Ojetti scrive di lui con sintesi e precisione: "è stato dei
macchiaiuoli toscani il più schietto ed austero, non il capo, perchè
taciturno ed alieno dal far teorie e dal praticarne se non con le
opere". Il Fattori fu artista nel vero senso della parola e intese
l'arte come un apostolato. Fu innovatore non per moda, ma perchè il suo
spirito precorreva i tempi, tantochè ai giovani artisti che egli
stimava, non indicava mai la maniera di dipingere, il che avrebbe voluto
dire, secondo lui, combattere un'accademia per crearne un'altra. Egli
stesso non ebbe una ricetta, pur mantenendo una spiccata personalità.
Nelle sue opere si riscontrano evoluzioni e non trasformazioni.
Dipingeva per un proprio bisogno spirituale e gli ripugnava di essere
costretto a ricavare dall'opera sua quel profitto che non era sempre
sufficiente per l'indispensabile. Egli infatti si accontentava di poche
lire per i dipinti acquistati dai suoi pochi ammiratori, perciò gli fu
preziosa la nomina, ricevuta nel 1886, di insegnante all'Accademia di
Firenze.
Fu tra i non molti che al suo tempo si esercitassero nell'arte
dell'acquaforte, nella quale non ebbe competitori forse nemmeno fra gli
stranieri. Eseguì ritratti, non però per commissione, e fra questi si
ricordano: Autoritratto; quello della sua prima moglie;
della figliastra; della signorina Siccoli; di Diego Martelli
e di Silvestro Lega sugli scogli. Altre opere: Mercato di cavalli tela esposta con grande successo a
Vienna e a Filadelfia e perduta nel naufragio del piroscafo durante il
viaggio di ritorno; Muraglia bianca, di proprietà del gr. uff.
Aldo Borelli; Buoi aggiogati, nella raccolta del comm. Clausetti
di Milano; Pattuglia di cavalleria, in quella del comm. prof. Mario Nelli;
Monaca alla questua e Signore in giardino, in quella del comm. Mario Vannini Parenti di Firenze.
(A. M. Comanducci)
Nacque a Livorno il 6 settembre 1825 (non il 25 di quel mese, come
l'artista ebbe una volta a dichiarare, o nel 1828, come egli stesso
ripeté due volte, anche se esitante). Suo padre, Giuseppe, era un
modesto artigiano originario di San Marcello Pistoiese; sua madre, Lucia
Nannetti, per nascita fiorentina, "una buona donna - ricorda il figlio -
che credeva in Dio e nei Santi (se non altrimenti specificato per le
parole del Fattori riportate nel corso della voce si rimanda agli
Scritti autobiografici..., a cura di F. Errico, 1980). Dai genitori il
Fattori trasse la grande semplicità dei costumi e la proverbiale
asciuttezza del suo stile di vita; oltre che, forse, quella eccentricità
di comportamento sovente osservata con incredula meraviglia da amici e
biografi sulla origine psicologica della quale - fin qui poco osservata
- vengono oggi a portar qualche luce alcuni documenti inediti
recentemente ritrovati donde si apprende che il padre, abbandonato a
quanto pare da una prima moglie, lasciò Pistoia per Livorno con il
proposito di rifarsi una vita; e qui stabilitosi, intorno al 1820,
contrasse sotto falso nome, vivente ancora la sposa legittima, il suo
secondo matrimonio: quello appunto da cui nacque il Fattori, l'ultimo
dei suoi quattro figli - due di primo e due di secondo letto. Un
matrimonio fittizio abilmente escogitato e contratto, che solo una
ventina d'anni dopo, a morte avvenuta della donna regolarmente sposata,
fu formalizzato, ma che è difficile pensare potesse rimanere nella
cerchia di famiglia e fra i più intimi senza qualche effetto
perturbatore.
Se siffatte ascendenze domestiche non sono prive di interesse per capire
un aspetto della più elementare naturalità del pittore, non minore
importanza riveste, per l'intelligenza del suo ethos e della sua
formazione culturale, il mestiere esercitato dal padre. Il quale,
tenendo bottega come "pettinatore di canapino" nel mercato di Livorno, e
fattosi poi mediatore di commercio nel settore della canapa molto
fiorente in città per la richiesta di cordami che veniva dal porto, si
trovò a vivere in quotidiano contatto con le forze più vive
dell'economia e della cultura cittadina. Mi riferisco a quella classe di
artigiani e commercianti che, legati per i loro interessi ai grossi
uomini d'affari gravitanti intorno al porto franco, avevano fatto
fortuna negli ultimi decenni venendo a costituire in città quella sorta
di "plebe grassa" tipicamente livornese che tanta e così attiva parte
ebbe nel Risorgimento, e che proprio come avviene a ogni ceto "nuovo a
vita civile" (ci dice G. Montanelli, Memorie sull'Italia... [1853],
Firenze 1963, p. 299) andava allora cercando la propria identità
culturale, e si era di conseguenza "ristretta con la gioventù colta",
venendo in qualche modo a "prendere legge da quella".
In questo ambiente in sviluppo, anche i Fattori avevano prosperato. Non
solo Giuseppe; ma anche il primogenito di lui, Rinaldo, il quale, messo
un vero e proprio "banco di affari", aveva fatto compiere in breve alla
famiglia un ragguardevole progresso nella scala sociale. Più anziano di
una quindicina d'anni del Fattori, Rinaldo, che avrà nei confronti del
fratellastro figura e funzione di padre, aveva da principio preso con sé
il piccolo per avviarlo al commercio; ma il poco profitto del ragazzo e
il precoce manifestarsi in lui del naturale talento per il disegno
indussero ben presto la non disagiata e condiscendente famiglia ad
avviare il minore nato agli studi artistici. La scelta del maestro cadde
su G. Baldini, il migliore anzi "l'unico artista" della città. Questi,
venticinquenne appena, e fresco della frequentazione a Roma della scuola
di T. Minardi da lui seguita con lode, teneva a Livorno dal 1838 circa
una scuola privata presso l'Accademia dei Floridi in S. Marco. Il
Fattori fu uno dei suoi primi allievi rimanendo con lui fino al 1845. In
tarda età il Fattori non conservava del Baldini un buon ricordo: lo
giudicava uomo borioso e vano; e ciò nonostante la sostanziale identità
di vedute che sul piano politico avvicinava, al momento in cui si
lasciarono, alunno e maestro, tenuto d'occhio quest'ultimo dalla polizia
fin da quando, con la carcerazione di C. Bini e di F. D. Guerrazzi,
cominciarono nel 1833 a incrudelire anche in Toscana le misure
repressive nei confronti delle società segrete.
Sta di fatto che sulla fine del 1845, il Fattori, superati ormai i
vent'anni senza avere fino a quel momento nulla concluso, lasciava
Livorno per Firenze e diveniva uno degli allievi della scuola personale
di G. Bezzuoli, fruendo a tal fine di una commendatizia di G. Giusti
ottenuta tramite un'amica di famiglia (cfr. G. Giusti, Epistolario, a
cura di F. Martini, Firenze 1832, IV, p. 59). A quei giorni il Fattori
faceva parte di un giro di amici tutti più o meno della stessa età,
tutti di una medesima estrazione sociale, tutti animati da vivi
sentimenti democratici e fra loro unitissimi come stanno a documentare
la testimonianza diretta del pittore e un gruppo di lettere degli anni
1846-1855 che portano non poca luce sulla formazione morale
dell'artista.
Erano, questi amici, Costantino Mosti, suo primissimo compagno di stanza
a Firenze; i fratelli Nardi, e cioè Augusto, Alfonso, Clarissa,
Penelope, Amalia; Verulo e Alcibiade Bartorelli; Enrico e Nicola Kutufá;
Ferdinando Baldesi, forse un impiegato di dogana, e sua sorella Lucia:
nomi capaci oggi di risvegliare un'eco solo nella mente di un qualche
cultore di storia locale livornese, eppure importanti per ricostruire
momenti di eccezionale rilievo nella sensibilità dell'artista. I Nardi
erano cugini di G. Paganucci, lo scultore che dividerà col Fattori una
soffitta in via Nazionale verso il 1855. Si, univano talvolta alla
brigata F. Buonamici, L. Bechi e P. Pisani (giovani che si faranno fra
poco notare fra i frequentatori del caffè Michelangiolo) nonché quel C.
Giordanengo che fu fra i primi intimi del Fattori a Firenze, presente in
vari documenti dell'Accademia e da quest'ultimo sugli altri prediletto.
Da Pistoia venivano a Livorno "i cugini" del Fattori, fra i quali non è
dato identificare se non quel S. Bongiovanni che il pittore raffigurerà
nel 1867 in uno dei suoi più estrosi ritratti. Per Clarissa il Fattori
nutrì un'amicizia inclinante a tenerezza (la chiama sua "seconda
sorella" in una lettera dalla quale traspare la funzione esaltante della
musica per l'intero gruppo e la predilezione per Rossini). Penelope era
la fidanzata di E. Kutufá e a lui andò sposa nel 1850. Amalia era invece
legata a V. Bartorelli, col quale probabilmente si sposò nel 1849. A
proposito del Baldesi, il Fattori ci dice che entrambi, il Baldesi e
lui, appartenevano a una società segreta, identificabile con la
Società dei progressisti fondata da E. Bartelloni. Di essa pare che
il Baldesi fosse uno dei più appassionati frequentatori; né si smentì
alla prova dei fatti, ché il suo nome è fra i decorati distintisi l'11
maggio nella difesa della città. Quanto a V. Bartorelli, proprio
parlando di lui non solo il Fattori pronuncia il nome della Giovine
Italia e accenna alle letture che a quei giorni infiammavano gli animi
(l'Ortis, l'Assedio di Firenze, le Mie prigioni) ma precisa mancanti
molte delle lettere dell'amico a causa del loro compromettente contenuto
politico. Il fratello poi di Verulo, Alcibiade, cadde sul campo nella
giornata di Curtatone e Montanara.
Non è difficile identificare la sfera di interessi politici nella quale
muovevano questi giovani: è quella che con paziente e tenace azione
culturale aveva poco a poco creato in Livorno G. Montanelli. Il quale,
preoccupato che l'estremismo dei livornesi finisse per distogliere dalla
lotta quotidiana delle forze preziose, tendeva a controbilanciare
l'influenza che sulla società del Bartelloni esercitavano il Mazzini e
il settarismo sovente astratto dei fuorusciti. Fin dal 1843 egli aveva
steso il programma di una nuova società chiamata I fratelli italiani,
le linee ideali della quale corrispondono inequivocabilmente ai motivi
ricorrenti nelle lettere che il Fattori e i suoi amici venivano allora
scambiandosi con analogo ispirato linguaggio, ingenuamente mutuato dalle
loro letture: U. Foscolo, S. Pellico, F. D. Guerrazzi, come detto, e G.
B. Niccolini e C. Bini, nonché, fra gli stranieri, W. Scott, G. Byron,
J.-C-F. Schiller, V. Hugo, E. Sue.
Un tale clima, un tale genere di relazioni consentono di apprezzare nel
suo giusto significato la vivace reazione che subito si determinò nel
giovane studente al primo contatto con l'ambiente fiorentino. Il
sostenuto tono della casa del Bezzuoli, uno dei nomi più in vista della
mondanità letteraria del tempo - del Bezzuoli pervenuto ormai al culmine
della sua fama e della sua ricchezza (e, superata la sessantina,
pochissimo voglioso a quanto pare di dedicarsi all'insegnamento) -,
dovette creare non pochi impicci al Fattori che, di animo fierissimo
come poi sempre si dimostrò, caldo nei sentimenti e galvanizzato dal
clima di quei giorni, altro non poteva essere agli occhi del bel mondo
fiorentino se non un figliuolo di brava gente del popolo (anche se
giunta a qualche agiatezza), raccomandato bensì dal Giusti, ma semi
illetterato e, quanto a buone maniere, non di certo tale da figurare
gran che nella società di cui il Bezzuoli era allora uno dei più
accarezzati esponenti. Difficoltà che si facevano più ardue per il fatto
che, grazie alla raccomandazione del Giusti, il Fattori era stato
accolto fra quei pochissimi scolari che l'anziano maestro si induceva a
tenere in casa, avendo cura solo molto di rado di seguirne per davvero
qualcuno. "Firenze mi ubriacò - scrive il Fattori - vidi molti artisti,
ma nulla capiva: mi parevano tutti bravi e io mi avvilii tanto che mi
spaventava il pensiero di dover cominciare a studiare" (Memorie
autobiografiche scritte per O. Roux [1906], in G. Fattori, Scritti
autobiografici..., p. 103). E quando poco dopo lasciava il privato
insegnamento del Bezzuoli per seguire i corsi da quest'ultimo diretti
all'Accademia, dovette, per sentirsi vivo, fare qualcosa di stravagante,
che uscisse dalla norma. Solo così si spiega la fama che il Fattori ben
presto si fece del più sovversivo scolaro dell'Accademia, come tramanda
più vivacemente che non altri T. Signorini, rammentando nei
Caricaturisti e caricaturati (1893) la storia delle burle che fece,
meritevole di per sé, egli dice, di "un volume di molte pagine". Una
reputazione, questa, che certa edulcorata agiografia del principio del
Novecento ha trasmesso in modo equivoco, degradando a birbonata di
discolo la vivacità giovanile del Fattori, effetto solo della sua
frizione con un mondo difforme da quanto di meglio e di più sentito era
in lui.
Nonostante tutto questo, il Fattori fra il 1846 e il 1852 percorse
abbastanza regolarmente la carriera scolastica fruendo dell'insegnamento
di T. Gazzarrini (elementi), del suo aiuto B. Servolini (disegno dalle
statue), di E. De Fabris (prospettiva), di L. Paganucci (anatomia) e da
ultimo, alla Scuola superiore di pittura, oltre che del Bezzuoli, anche
del suo aiuto E. Pollastrini, Concittadino del Fattori (scuola libera
del nudo). Furono fra i suoi compagni di studi in quegli anni oltre ai
già ricordati, anche A. Gatti, O. Lalli, L. Bechi, G. Bellucci (quattro
coetanei che il Fattori ricorda espressamente come suoi condiscepoli); e
inoltre C. Conti, destinato di li a poco a farsi un nome come pittore di
storia; L. Pisani, il futuro ben noto mercante d'arte; F. Provenzal, cui
il Fattori dedicò un disegno; G. Mochi, che noi troviamo di qui a poco
fra gli intimi di Vito D'Ancona. Quanto al D'Ancona medesimo, scolaro
prediletto dal Bezzuoli e ben presto legato al Fattori da cordiale
amicizia, è cosa certa che egli non fu mai iscritto all'Accademia.
Frequentarono invece le classi del Fattori, variamente scalati nel
tempo, A. Puccinelli, M. Gordigiani, N. Sanesi, C. Ademollo. D. Macciò,
A. Betti, G. Mochi, gli scultori livornesi S. Salvini e G. Paganucci
(che divideva a quel tempo una soffitta col Fattori in via Nazionale); e
infine, ma solo da ultimo alla scuola del nudo, Silvestro Lega.
Il profitto del Fattori non fu brillante - come non lo era stato dal
Baldini - neanche all'Accademia: egli risulta ammesso alla Scuola
superiore di pittura nel giugno del 1850 (dopo aver mancato l'esame
l'anno precedente) "per mediocre esecuzione del tema prospettico e per
mediocre esame in architettura e geometria", partecipe senza buon esito
a vari concorsi accademici. Di questi insuccessi un'ironica traccia
sembra potersi reperire fra le righe delle memorie: "lo, per conto mio,
tolto di sapere scrivere un pochino, ero perfettamente ignorante e -
soggiungeva argutamente - mi sono grazie a Dio conservato" (Dalle
memorie scritte per Romualdo Pantini [1902], in Scritti
autobiografici..., p. 38). Diceva di non avere mai saputo la storia
dell'arte e di aver letto invece a quel tempo molti romanzi; e riteneva,
soppesando il corso della sua carriera, che non ci fosse bisogno, "per
fare un artista", di quanto ai primi del Novecento si esigeva dagli
scolari; una somma di cose, egli pensava, necessarie bensì per essere
letterati o scienziati, ma non artisti. Anzi sentenziava che l'eccesso
di un tal genere di nozioni fosse nocivo, rendendo difficile il libero
avvicinarsi all'arte secondo il modo di sentire di ciascuno. E
concludeva: "solo l'arte stavami addosso senza saperlo, né ancora lo so"
(ibid.).
Frattanto, salito al soglio pontificio Pio IX, il fermento
rivoluzionario che anche in Toscana veniva crescendo cominciava a dare
segni manifesti fra gli studenti, tanto che con entusiasmo e allegria
giovanili anche il Fattori si dedicò in quei mesi a diffondere per vari
centri della Toscana - fattorino del partito d'azione - stampa
clandestina e "fogli incendiari" e, nella primavera del '48, con
l'inizio della campagna di Lombardia, maturò in lui il proposito, poi
frustrato dalla opposizione dei genitori, di arruolarsi volontario. I
drammatici avvenimenti livornesi del '48, a partire dai tumulti del
gennaio che portarono al primo arresto del Guerrazzi fino ai torbidi
provocati dalla condotta del governo toscano, traspaiono con la vivacità
del documento diretto dalla corrispondenza, anche se il Fattori, data la
segregazione impostagli dalla madre nella soffitta della propria casa in
"Venezia" (la "Venezia" livornese), durante la difesa della città, l'11
maggio 1849, non partecipò come combattente (del suo gruppo solo il
Baldesi risulta presente sulle barricate), ma come testimone (da un
abbaino della casa), travolto piuttosto dagli avvenimenti che non
partecipe di essi. Fu comunque indelebile l'impressione lasciata
nell'artista da quelle memorabili vicende, il ricordo delle quali
assurse poco a poco, nel corso della vita di lui, a simbolica pietra di
paragone di uomini ed eventi.
Finita la guerra (ma non l'attività clandestina), più assidua si fece,
col ritorno del granduca e con gli Austriaci in Toscana, la frequenza
del Fattori ai festosi e turbolenti incontri del caffè Michelangiolo
che, nato col '48, andava allora acquistando la sua celebrità e il suo
carattere di ritrovo di artisti e di patrioti. Del caffè il Fattori era
stato fin dagli inizi uno degli assidui. L'amicizia che lo legò a G.
Dolfi, l'influente fornaio patriota, braccio destro di Garibaldi in
Toscana e iniziatore o quasi del caffè - un'amicizia attestata fra
l'altro da due dipinti a lui donati dal pittore nel '56 - dovette
annodarsi proprio in questo momento, così come quella con A. Tricca, il
gran caricaturista, il quale ci lasciò in un disegno eseguito intorno al
1850 la prima effigie a noi nota del Fattori, ben argutamente
rispecchiante, in quella espressione fra scombuiata, riottosa e
malinconica, l'inquietudine morale di questo momento, non dei più facili
della vita del pittore. "Feci, egli dice, la vera vita del boemien [sic]
senza posare e senza saperlo", per "pura necessità". E come in questi
anni (che nonostante tutto sono ricordati dal Fattori periodo "di vita
lieta, spensierata senza sapere che cosa fosse il domani") egli abbia
potuto mantenere oltre che se stesso e la soffitta di via Nazionale
anche uno studio in piazza Barbano (il medesimo ancora usato nel '59,
quando F. De Tivoli, che ne aveva uno di rimpetto, portò da lui Nino
Costa per farglielo conoscere), è difficile congetturare, se non
pensando a un regolare aiuto da parte dei suoi. Nulla o quasi ci è
pervenuto infatti di una attività artistica del Fattori riferibile a
questo momento: frammenti atti solo a mostrare quanto lentamente si
andasse nel grande artista maturando la padronanza dei mezzi tecnici.
Il primo quadro di qualche spicco a noi noto, dipinto dal Fattori a
ventinove anni, è l'Autoritratto del 1854 (Firenze, Gall.
d'arte moderna di palazzo Pitti; là dove non sia specificata la
collocazione delle opere citate si rimanda alla Catalogazione del
Malesci, 1961 dalla quale deriva con poche aggiunte L'opera completa del
1970, e al catal. della mostra del 1987). Qui il Piglio disimpacciato e
brioso ci rende avvertiti che un salto di qualità si è compiuto. È
presso a poco il momento nel quale il Fattori incontra la donna cui si
unirà in matrimonio nel 1860: Settimia Vannucci. Nel '54 infatti la
relazione dei due giovani era di certo avviata se, come apprendiamo
dagli Scritti autobiografici, l'epidemia colerica (diffusasi
giusto nel luglio di quell'anno e della quale solo Settimia, pur
scampandone, fu vittima) li colse entrambi quando già vivevano insieme.
Parlando appunto dell'epidemia, il Fattori accenna alla gravità delle
sue ristrettezze economiche e ci informa di una sua attività, per
alleviarle, di vignettista-litografo. È questo il momento di certe
escursioni paesistiche compiute dal Fattori nella campagna fiorentina con A.
Gastaldi, allora in Toscana con una borsa di studio. Due quadri tratti
dall'Assedio di Firenze, dipinti dal Fattori in uno stile affine a quello
dell'Autoritratto, richiamano in effetti nell'invenzione il paesaggismo
storico di M. d'Azeglio, cui anche il Gastaldi allora guardava, mentre
non pochi segni di contatto con motivi della cultura romantica lombarda
sono percepibili sulla metà del sesto decennio del secolo
nell'evoluzione del Fattori, il quale non solo dà segno di una speciale
attenzione al quadro di genere indunesco, ma sceglie a soggetto dei
propri dipinti la Margherita Pusterla di C. Cantù (Promotrice del 1856)
e l'Ildegonda di T. Grossi (Promotrici del 1857 e '58) e nello stesso
Autoritratto lascia avvertire un'eco di G. Trécourt; mentre, fra i
disegni ereditati da Giovanni Malesci un gruppetto se ne conservava,
caratterizzato da quella sorta di "calamismo" nostrano che fu proprio
della scuola di Rivara e, in Firenze, di quella di Staggia. Una maniera,
questa alla A. Calame, dalla quale furono attratti a quei giorni anche
0. Borrani e il Signorini (che parla di quest'argomento nel suo ricordo
di E. Rayper), e di cui uno dei tramiti per il Fattori poté essere
giustappunto il Gastaldi. Nello stesso tempo viene ad affermarsi nel
pittore l'ascendente del Pollastrini che si può oggi datare con
sicurezza, grazie al recente ritrovamento di un'opera tipicamente
pollastriniana: l'Elisabetta regina d'Inghilterra (cfr. Contributo a F.,
1994, fig. 2); un quadro finora noto solo dalle fonti e di cui sappiamo
con certezza che fu compiuto dal Fattori alla fine del 1855. L'ascendente
puristico agirà da questo momento sul Fattori, seppur con accenti più
personali, fino alla Maria Stuarda al campo di Crookstone (Firenze, Gall.
d'arte moderna), un quadro tratto dall'Abate di W. Scott, cui il pittore
attenderà, ma ormai fra molte incertezze, dal 1859 al 1861.
Qualche novità di grande rilievo era infatti intervenuta frattanto nella
carriera dell'artista in mezzo agli entusiasmi e alle illusioni della
seconda guerra di indipendenza: la "macchia". Era, la "macchia", una
nuova concezione della resa luminosa del dipinto connessa con la poetica
naturalistica e, dopo il ritorno di S. De Tivoli, D. Morelli e S.
Altamura dalla Esposizione universale di Parigi del 1855, fattasi centro
delle discussioni artistiche del caffè Michelangiolo. Una nuova ricerca
espressiva e una nuova tecnica della pittura che sono per la prima volta
sperimentate dal Fattori proprio in questo momento. "Venne il '59 - egli
scrive - e dal '59 fu una rivoluzione di redenzione patria e d'arte: la
"macchia"". I fatti sono noti: l'arrivo alla fine di maggio del corpo di
spedizione francese condotto in Toscana da Girolamo Napoleone Bonaparte
consentiva al pittore (che in occasione dello sbarco del contingente a
Livorno non aveva mancato di trovarsi nella città natale) di
accompagnare quei pittoreschi reparti di zuavi e di turcos lungo la
strada che essi, via Lucca-Pistoia, percorsero fra due ali festanti di
popolo fino a Firenze; e di dipingere, una volta giunti i soldati a
destinazione, una serie di memorabili piccole impressioni a olio sulla
base degli appunti presi durante il viaggio e dei rapidi schizzi
disegnati al Pratone delle Cascine, dove i Francesi rimasero poi
accampati per circa un mese. Queste impressioni costituiscono,
unitamente ai due album di disegni riempiti dal Fattori in quelle settimane,
un punto fermo nella storia della "macchia"; anzi ne rappresentano, sul
piano dell'arte, la nascita vera e propria. Perché, superando d'un balzo
quel che di programmatico inficiava ancora le prime ricerche in tale
campo esperite da C. Banti, V. Cabianca e T. Signorini, il Fattori giunge
d'istinto con questi suoi studi a una nuovissima e sorprendente
soluzione espressiva rispetto a quella fin qui praticata dagli altri e
dal Signorini, poi da quest'ultimo rifiutata, come "macchia violenta di
chiaroscuro e non altro", in vista di "un realismo migliore".
Di questo "realismo migliore", premessa tangibile fu indubbiamente la
suaccennata scoperta del Fattori: quella sua tarsia luminosa capace di
rendere i volumi e le lontananze non più col chiaroscuro tradizionale,
ma attraverso una delicata giustapposizione di macchie di colore retta
dal "tono", dal "valore" e dal conveniente "rapporto" di queste
variabili (come poi, teorizzando, si scrisse); e tale da fare uscire
insensibilmente, e con un nitore tutto "puristico", da queste tessere
luminose, il reticolo disegnativo in virtù del quale viene a definirsi
compiutamente la struttura visiva e per dir così la sostanza stessa
dell'immagine. La scoperta del Fattori, ignorata in questa sua aurorale
funzione negli scritti dei due artisti che furono i più attivi fautori
sul piano teorico della "macchia", A. Cecioni e T. Signorini, fu invece
immediatamente percepita nella sua sostanziale novità dall'occhio
acutissimo di Nino Costa durante la visita che questi ebbe a fare, come
accennato, al Fattori nel suo studio di piazza Barbano: una visita che grazie
all'acume e al generoso calore del pittore romano segnò l'inizio di un
sodalizio fra i due artisti ritenuto dal Fattori di importanza determinante
per la sua carriera, si trattava in effetti per il Fattori di un sentimento
in tutto nuovo della pittura, che mentre portava rapidamente l'artista,
dietro la calda sollecitazione del Costa, a lasciare il quadro storico
in costume e a cimentarsi in opere di storia e attualità contemporanea,
a dar vita insomma alla prosa robusta e severa dei suoi grandi quadri
militari, per l'altro gli consentiva con la pregnanza e la vivacità del
suo contenuto e la felicità stessa del suo estrinsecarsi di avvertire
con un istinto infallibile il filo più autenticamente poetico del
proprio destino di artista.
Basti pensare, da questo punto di vista a quell'esito squisitamente
pittorico che, alle soglie della carriera del Fattori, è il ritratto della
Cugina Argia
(1861; Firenze, Gall. d'arte moderna).
Era stata, per il Fattori, occasione determinante dei propri inizi di pittore
militare, la commissione che egli aveva ottenuto nel 1860 dal governo
provvisorio toscano, della
Battaglia di Magenta (Firenze, Gall. d'arte
moderna), per effetto di una fortunata partecipazione al concorso
bandito da B. Ricasoli sulla fine del '59 per quadri dedicati a
personaggi ed episodi militari del Risorgimento. Ma mentre egli attende
con la massima diligenza alla esecuzione della vasta tela (m 2,32 ×
3,48) compiuta nel 1862, e dei vari quadri di battaglia che le fanno
corona e immediatamente la seguono (Garibaldi a Palermo 1860-61, la
Carica di cavalleria a Montebello, Livorno, Museo Fattoriano, 1862, poi
il Garibaldi ferito a Aspromonte, 1863, e il gruppo di studi intorno al
Passaggio del Mincio e alle Fanterie italiane alla Madonna della
Scoperta, 1864) una passione raccolta e intensa lo anima senza sosta a
profondarsi, come in un puro e quasi fanciullesco esercizio del senso,
nei più reconditi recessi della propria vita interiore: un esercizio
ininterrotto, cui le vicissitudini dell'esistenza sanno fornire nel
loro alterno susseguirsi stimolo e materia. I giorni del Fattori, infatti,
allietati per breve tempo dal successo del concorso che gli consentiva
di unirsi in matrimonio con Settimia, di compiere con lei (anche se solo
nel '61) il suo "viaggio di nozze" sul campo di Magenta - come la
commissione del quadro gli consentiva senz'onere di spesa - erano ben
presto funestati dall'inaspettato insorgere nella giovane donna di una
affezione tubercolare così minacciosa da indurre l'artista prima a
lasciare l'appartamento affittato in via del Maglio (dove fra l'altro
egli aveva poco prima subito, per scambio di persona, una aggressione a
colpi di stiletto), indi, nella primavera del '63, a rientrare
prudentemente vicino ai suoi in Livorno, dove d'altra parte le
convinzioni mediche del tempo lo confortavano a ridurre la moglie in
ragione del presunto beneficio dell'aria marina; infine a studiare ogni
via per affrontare senza soccombere una condizione di vita che il
bisogno di continua assistenza da parte della donna veniva a rendere
ormai difficilissima, così come il forzato doversi astenere, il Fattori, per
via di quella imperiosa necessità, dal frequentare Firenze. Ciò
nonostante, come talvolta avviene, proprio attraverso una siffatta serie
di vicissitudini, peripezie, impedimenti, il Fattori, avvantaggiandosi quasi
della sua solitudine e del suo raccoglimento, giunse a toccare in questo
giro di anni la pienezza delle proprie doti di artista.
Nelle scene
militari, per cominciare, che acquistano proprio ora nelle sue prove di
dimensione raccolta un'intensità lirica fin qui non mai raggiunta
(Pattuglia di cavalleria, ex coll. Giustiniani,
Artiglieri in manovra,
coll. Jucker, Vedette, già coll. Sforni); poi nel ritratto, da lui molto
coltivato in questa sua fase iniziale e con risultati, per forza di
carattere e penetrazione psicologica, altissimi (la
Prima moglie,
1864-65, Roma, Gall. naz. d'arte moderna; la Cognata, la
Signora Mecatti,
1865, le
Signore in giardino, l'Uomo seduto, il
Sensale); poi ancora nel
paesaggio dov'egli tocca fin da ora il vertice delle sue possibilità
(Pasture, 1863; l'Arno alle Cascine, 1863; la Porta rossa, 1864 c.,
Casolari toscani, Accampamento di zingari, i Pagliai, Tetti e nuvole);
infine in quelle sue tipiche scene della vita dei campi, di ispirazione
idillica o elegiaca, dove il raccoglimento e la quieta operosità delle
contadine sono avvertiti dall'artista come un corrispettivo della
propria attuale disposizione di spirito (Contadina nel bosco, 1861; le
Acquaiole livornesi, 1865; le Macchiaiole, 1865-66; i
Costumi livornesi,
1866 c.). La vena severa, raccolta e malinconica di queste opere che si
mantenne costante nella ispirazione del Fattori fino a quando, di appena trentun'anni, il 26 marzo 1867, Settimia venne a mancare, informa ora di
sé la più gran parte della produzione dell'artista, e continua ad
improntarla poco oltre, nelle due magistrali tele dei
Cavalli in Tombolo e dei
Buoi al carro (entrambe compiute in quell'anno) nonché
nell'Assalto alla Madonna della Scoperta (1866-1868; Livorno, Museo Fattoriano). Ma, nonostante una siffatta continuità, c'è un momento, nel
quale questa malinconia dei Fattori dà luogo d'un tratto, come in una
luminosa parentesi, a un'ispirazione nuova e del tutto diversa: quasi
che, per una sorta di naturale compensazione, le prospettive d'arte e di
vita schiuse all'artista dall'idea della vasta tela dell'Assalto (da
tempo vagheggiata ma solo ora resa attuabile dal concorso che il
ministro D. Berti decretava nel luglio del 1866) abbiano la capacità,
rinnovando in lui la speranza e i disegni della vita, di far trapassare
un tal sentimento malinconico nel suo contrario: un inaspettato scoppio
di felicità, capace di restituire al Fattori poco più che quarantenne il
piacere della vita e il perduto contatto col mondo.
Anzi le circostanze
fan sì che per la prima volta, grazie al sodalizio di lavoro che si
stabilì proprio in questo momento fra lui e il più giovane e
disimpegnato G. Boldini, un tal mondo divenisse inopinatamente il "bel
mondo": quello che nel corso dell'estate, intorno alle migliori famiglie
della città, anima della sua elegante e variopinta presenza gli
stabilimenti balneari. È questo il momento della
Rotonda di Palmieri (Firenze, Gall. d'arte moderna) e delle tre tavolette che alla Rotonda
strettamente si apparentano: la Signora con l'ombrellino, la
Signora al
sole, il
Silvestro Lega sugli scogli; il momento della Punta del Romito,
del
Ritratto della signorina Siccoli (già Viareggio, propr. Rosselli),
della Signora che legge, di Mare azzurro (già Firenze, propr.
Giustiniani): di opere insomma che tutti ricordano come la più squisita,
seducente, squillante produzione mai uscita dal pennello del Fattori. Lo
spirito di queste opere, scabre e scintillanti, che si trasmette nel
periodo immediatamente successivo ad altre, altrettanto perfette, ma di
più tenera e delicata fattura, liriche purissime nate si direbbe in un
solo battito del cuore (Tre impressioni in una giornata di pioggia,
Contadina nel campo, Paese con cielo bianco, Case nella campagna
livornese, la Torre del Marzocco, Contadini e buoi, Riposo di muratori),
apre la via ai motivi che avranno il loro più ampio svolgimento nel
periodo immediatamente successivo, quello che viene ad unire
direttamente il Fattori alla cosiddetta scuola di Castiglioncello, al gruppo
di artisti cioè (G. Abbati, R. Sernesi, O. Borrani, L. Bechi, E. Cecconi)
che, ospiti nella vasta tenuta che Diego Martelli eredita nel 1862, qui
prese a riunirsi ogni anno specie durante l'estate, e a discutere, e a
ricrearsi, e a dipingere. A Castiglioncello il Fattori giunse per la prima
volta nel luglio del 1867, da poco scomparsa la moglie, incontrando
l'Abbati e il Borrani (il Sernesi era caduto l'anno precedente nel corso
della campagna del '66). Egli, che sia pure indirettamente e a tratti,
non aveva mai cessato di mantenersi in contatto con quegli amici,
massime con l'Abbati ed il Sernesi, portò ora nel gruppo, unendosi a
loro, il travolgente impeto di natura dei suoi
Cavalli in Tombolo, il
mite e vigoroso sentimento elegiaco dei Bovi al carro; ma soprattutto un
magistero d'arte ormai pienamente raggiunto col suo gran quadro
dell'Assalto giunto quasi a compimento, un'opera magistrale e altamente
significante per il suo rispondere, nella grande ricchezza di motivi, a
due esigenze vitali della personalità del pittore: il suo bisogno di
partecipazione alla vita morale e civile del proprio tempo, e il suo
anelito di poesia. È pertanto comprensibile che il Fattori, ultimo arrivato a Castiglioncello, acquistasse subito un posto preminente nella "scuola"
molto coinvolgendo col suo esempio la personalità appassionata e
meditativa dell'Abbati nonché quella cordiale e affettuosa del Borrani.
Attratto, il primo, dal modo nel quale il Fattori affrontava lo studio dei
bianchi "nella natura animata e specialmente nei bovi" (Martelli), e
reso desideroso di sperimentare vicino all'amico questo suo prediletto
motivo di studio; non meno sedotto, il secondo, dal suggestivo motivo
del carro rosso e dei buoi, che diverrà poi motivo centrale nella sua
Raccolta del fieno in Maremma, ma che egli fin d'allora introdusse in
una sua magnifica prima idea, un singolare "taglio lungo" assai simile a
quello che anche l'Abbati immaginava frattanto per un grande dipinto a
noi noto solo, purtroppo, dalla descrizione che ce ne ha lasciata il
Martelli (1952). Castiglioncello è nome così strettamente e intimamente
legato a quello del Fattori che non è dato scrivere un profilo di lui senza
un minimo di diffusione sull'argomento, vuoi per l'intrinsechezza che
legò il pittore al nume tutelare del luogo, il Martelli (la personalità
alla quale sul piano intellettuale e morale più d'ogni altra, durante
l'intera sua vita, fu legato il Fattori nel corso di una invariabile
amicizia, ben documentata fra l'altro da una seguitata e fitta
corrispondenza), vuoi per i frequenti e prolungati soggiorni che a più
riprese - conclusasi ormai con la morte dell'Abbati (1868) l'esperienza
di una vera e propria comunità di studio e di sperimentazione in Castiglioncello - l'artista ebbe a farvi fino alla fine della vita,
molto dipingendovi e molto traendone di motivi che restano
inconfondibilmente suoi, dai piccoli ritratti di amici all'aperto, dei
quali il
Diego Martelli a Castiglioncello può considerarsi il prototipo
(il Valerio Biondi, le Signora Martelli,
Diego Martelli a cavallo,
Signora all'aperto,
Vallòspoli, Matilde Gioli e i suoi cani,
Eugenio Cecconi che dipinge); ai suoi superbi piccoli studi di paesaggio (Pineta
di Castiglioncello, le Botti rosse, Olivi sulla marina, il Ritorno dalla
caccia); ai grandi paesaggi animati infine, dipinti, questi, di maggior
respiro, ambientati sulla riva del mare o nel segreto del bosco (in
particolare quelli dedicati al motivo dei buoi (la Raccolta del fieno in
Maremma, 1871; Maremma, Riposo in Maremma) e quelli derivanti invece dal
travolgente impeto di natura che spira dalla prima geniale visione dei
Cavalli in Tombolo (i Tre cavalli bradi in pastura, 1872, i Cavalli
bradi in Maremma, già coll. Stramezzi, le Criniere al vento, i
Cavalli
al pascolo, già coll. Ojetti, 1880). Motivi che non solo riempiono di
sé buona parte della produzione degli anni Settanta e oltre, ma che
conferiscono a tale produzione non so quale esemplarità di moduli visivi
che di decennio in decennio si trasmettono come "memoria poetica" agli
anni successivi; mentre radicali trasformazioni di atteggiamento e di
forma si vengono frattanto introducendo nella produzione dei pittore.
Già dagli anni intorno al 1870 l'arte del Fattori aveva lasciato avvertire i
segni di una tale modificazione, attenta come si dimostra agli aspetti
più concreti, quotidiani, terragni della realtà. E ciò in consonanza con
il clima spirituale del tempo, tale quale parallelamente traspare nei due
giornaletti legati al gruppo macchiaiolo, il Gazzettino delle arti del
disegno, apparso nel 1867 sotto la direzione di D. Martelli e M. Angeli,
e il Giornale artistico, diretto invece da A. Cecioni con la
collaborazione di T. Signorini e di S. Grita nel corso del 1873. Questo
nuovo atteggiarsi dello spirito spinse l'artista per vie fino ad allora
inesplorate dove la curiosità intellettuale, il caratteristico e anche
il caricaturale prendevano talora il sopravvento su quella innocente e
commossa trasposizione lirica d'ogni cosa che era stata tipica invece
del periodo precedente, tanto da far talvolta prevalere l'intento
polemico, ironico o descrittivo. O fosse effetto, sul piano personale,
di quella ricuperata libertà di scapolo cui la morte di Settimia lo
aveva inopinatamente restituito, o che, sul piano politico, il Fattori si
venisse facendo sempre più partecipe della disillusione cui avevano dato
luogo in ogni sincero democratico e in ogni patriota prima i fatti di
Aspromonte e di Mentana, poi la guerra contro il brigantaggio, infine il
mercato degli ideali del Risorgimento adulterati dai profittatori; o che
infine, sul piano ideale, un siffatto atteggiamento fosse presso di lui
accreditato da quella distaccata considerazione delle cose cui a quei
giorni l'ideologia positivistica andava non senza clamore assuefacendo
gli animi: sta di fatto che uno scetticismo intellettuale sempre più
pronunciato si introdusse d'ora in avanti nella mente del pittore,
mentre si radicalizzarono nel suo pensiero quei principi a sfondo
anarcoide e da "libero pensatore" ai quali lo predisponevano la
familiarità col Dolfi e il suo antico legame con la "Fratellanza
artigiana" (il Fattori risulta iscritto al sodalizio fin dal '64), poi
l'incontro con A. De Gubernatis, il primo amico in Firenze di M. Bakunin
e il primo divulgatore fra noi del suo pensiero. Di qui il timbro
massonico e anticlericale di non pochi atteggiamenti ed espressioni del
Fattori, documentati dalla corrispondenza e in particolare, per il periodo
che qui interessa, da una lettera del 14 maggio 1876 diretta a G. Carocci.
Solo la frequentazione assidua del Martelli, al quale la sottile e
coltivata intelligenza consentiva di vivere un analogo ordine di
problemi con ben altra sottigliezza speculativa, giunse a temperare
nelle sue ultime conseguenze certe ingenue astrattezze del pittore, e a
far sì che la funzione benefica cui lo scetticismo adempiva in questo
momento nella vita morale e culturale del paese, sanandone la retorica e
il pressappochismo, non fosse compromessa nell'amico pittore da certi
eccessi ben chiaramente rivelanti quanto potesse riuscire poco
confacente a una natura spiccatamente sentimentale come la sua una
posizione del tipo di quella descritta. La quale, pur accompagnando il
pittore come per inerzia fino alla fine dei suoi giorni, più che natura
e carattere di giudizio, mantenne costante in lui, com'era da
aspettarsi, quello di una irrisolta inquietudine, di una sempre
risorgente manifestazione di odio-amore mai sostanzialmente accettata
nell'intimo; molto significativa, da questo punto di vista, la
correzione che con bonaria ironia, in una sua lettera del 1º sett. 1895,
il Martelli portava a un giudizio temerario del Fattori sulla personalità del
Manzoni, del quale egli non sapeva persuadersi a divenire illustratore,
temendo di comportarsi, facendolo, da "clericale ipocrita"; e che poi
invece illustrò eseguendo per i Promessi sposi, poco dopo, una serie di
disegni a carboncino (1895), come già aveva illustrato in precedenza con
dipinti a olio, gouaches e acquaforti il Don Chisciotte del Cervantes, e
come illustrò ancora con carboncini, nel 1902, la Divina Commedia. Sta
di fatto che, per quanto gagliarda, preminente, e in luce fosse nella
introversa personalità del Fattori la "sensazione" - questa funzione
irrazionale in lui così altamente differenziata da sembrare a tratti un
qualcosa di addirittura miracoloso -, altrettanto povera e in ombra
costantemente si mantenne al contrario nella sua psiche la funzione
intellettiva, il pensiero. Il quale sempre si estrinsecò nel Fattori fino
alla raggiunta lucidità morale dei suoi ultimi anni in forme ruvide ed
arcaiche. Il cuore, da sempre, per il Fattori, era stata la più naturale
integrazione del "senso"; e finché il sentimento aveva potuto soddisfare
al suo ufficio di funzione complementare (ciò che si riscontra per tutto
il corso degli anni Sessanta) ne era seguito quell'arduo equilibrio
morale di cui l'arte aveva per prima beneficiato. Il sentimento era
infatti nel Fattori subito dopo la sua capacità sensitiva l'istanza più ricca
e articolata. Ma finalmente costretto, l'artista, dal progressivo cedere
delle illusioni, a far ricorso al "pensiero", a una funzione cioè che
per l'anomalo corso della sua giovinezza era rimasta finora così poco
utilizzata da permanere in uno stadio pressoché embrionale, il pittore
sembrò smarrire sulle prime il contatto con quella vibrazione elementare
attingente il profondo che gli aveva consentito, solo per via di
"senso", tutti i maggiori risultati artistici. Ne conseguiva (come
sovente ha avuto occasione di rilevare la critica) un pericoloso
squilibrio della personalità, quasi "sdoppiantesi", è stato detto, e in
due piani incomunicabili: da un lato quello più limitato e
programmatico al quale lo conducevano le sue quasi infantili convinzioni
di buon figliolo, di patriota e di uomo dabbene; la sua adesione al
verbo naturalistico e al "verismo", nonché le sue comprensibili e
giustificate ambizioni di cittadino-pittore; dall'altro il piano della
sua autentica sostanza, la fiamma della sua vita, il cuore del suo
cuore: la "pittura"; quel suo "selvaggio bisogno d'espressione e di
canto" - per usare le parole di uno dei suoi più sottili e sensibili
interpreti, il Parronchi (1964, p. 14) - che lo fa sconfinare da ogni
convinzione intellettuale e programmatica; quel "senso di esistenza
acutissima e calma" che è in lui il più profondo se stesso e che lo leva
ai vertici della "lirica pura".
E per capire quanto poco i due piani accennati si identifichino con la
distinzione, del tutto esterna, ma alla quale si fa tutt'oggi ricorso,
dei grandi quadri di composizione da una parte e delle tavolette
dall'altra, "prodotti d'obbligo e di mestiere" le prime, e
"illuminazioni e tesori d'arte" le seconde, varrà porre mente al superbo
volo lirico dell'
Assalto alla Madonna della Scoperta e al passaggio che
si compie nel Fattori da quest'opera poeticamente perfetta ai quadri militari
subito successivi, da lui dipinti dopo la sua partecipazione alle grandi
manovre di Fojano della Chiana: quelle manovre che dirette da Nino Bixio
nell'estate del 1868 furono le prime dell'Italia unita. Qui il Fattori era
stato vivamente colpito dalla quotidianità della vita del soldato, dai
momenti non eroici di essa, da quel misto di sacrificio e di vigore che,
nella particolare condizione di abnegazione e di disciplina imposte dal
campo e in quella inconsueta forma di contatto con la natura, assume,
così nel popolo come nei ceti dirigenti, una significazione sua propria
e singolare. Ne uscirà un quadro, l'Accampamento di istruzione a Fojano,
nel quale si disperde e si stempera l'afflato unitario e grandioso che
era stato proprio dell'Assalto, dando luogo a una molteplicità e varietà
di motivi, dove nella ingenuità quasi popolaresca dell'assunto lo
spirito di osservazione nettamente prevale sulla emozione visiva.
Più che altro il Fattori si rivela attratto dalla qualificazione psicologica
del "tipo", dal soffermarsi curioso e talvolta bonariamente ironico
sulla peculiarità e sulla varietà degli atteggiamenti, dalla notazione
coscienziosa di ogni minuto particolare realistico; in una parola dalla
definizione del "carattere" della scena: il luogo, le divise, i
finimenti, gli ufficiali a passeggio, l'ordinanza sugli attenti, i
tamburi abbandonati, le tende fra gli alberi, le sentinelle impalate. Un
gusto dell'aneddoto, questo, con quei soldati in riposo fuori dei
ranghi: chi seduto intorno alle tende, chi bocconi sul prato, chi
muovendo nei secondi piani per l'accogliente ombra del bosco, ricorrente
d'ora in avanti, oltre che qui, anche m innumerevoli altri quadri di
piccola e media dimensione dedicati ciascuno a uno dei vari motivi
particolari. Una produzione che può far correr la mente a E. De Amicis
("i bozzetti" della Vita militare, pubblicati alla spicciolata dallo
scrittore, erano stati raccolti in volume proprio in questo 1868); sempre
che non si perda di vista la tempra etico-artistica della pittura
fattoriana che, rispetto ai racconti del popolare scrittore, ha ben
altro vigore e autenticità. Era, infatti, il gravoso dovere militare imposto, dalla leva un aspetto attuale della
società italiana dal quale
la sensibilità morale del Fattori era specialmente toccata; anzi investita
come si fosse trattato di fatto proprio e personale, configurandosi nel
suo amino la disposizione di quel "buoni ragazzi, pronti a tutto
sacrificare per il bene della patria e della famiglia" come un simbolico
corrispettivo del suo spirito di dedizione. Riservato e pur pieno di
allegria quale egli era stato nei suoi giovani anni, consapevole della
propria intima ricchezza e noncurante delle difficoltà, gli pareva di
riconoscere se stesso in quei bravi soldati. E a poco a poco in quel
periodo il lavoro dei campi, i costumi dei contadini e della gente del
popolo, la vita degli animali, lo stesso logorio della fatica
analogamente si fanno per lui motivi di proiezione morale.
L'Accampamento di istruzione a Fojano, a noi noto purtroppo solo
attraverso una fotografia ottocentesca (cfr. Durbé, G. F. e i suoi 20
ricordi dal vero, 1981, p. 31), apre la strada, nella produzione del Fattori,
a un tipo di quadro di vasta superficie dove dominanti, in virtù del
genere di sollecitazioni or ora descritto, emergono i valori
illustrativi. Nel '72, reduce da un viaggio a Roma, dove la malinconica
forza evocativa dei luoghi e il carattere primitivo e pittoresco della
popolazione lo aveva suggestionato, il Fattori concepiva quel suo Mercato di
cavalli in piazza Montanara a Roma che, premiato alla Esposizione
internazionale di Vienna del '73, egli poi sempre ritenne uno dei suoi
dipinti meglio riusciti. Qui, la novità e la varietà dello spettacolo
invogliano l'artista a riunire fra uomini, donne e animali non meno di
ottanta figure, in una tela non sappiamo quanto grande (perché il quadro
perdutosi col naufragio della nave che lo riportava in Italia
dall'Esposizione di Melbourne è, anch'esso, noto soltanto da una
fotografia) ma abbiamo motivo di credere di circa tre metri di base.
Seguivano, per dire solo delle opere più significative, fra il '73 e il
'77, le tre versioni note della Posta al campo (una delle quali premiata
a Filadelfia nel '76), poi le due versioni del Viale animato (1880-81);
indi la serie di scene della vita dei butteri, dei pastori e dei
contadini che si susseguono dal 1882 al 1887, sulle quali avremo motivo
di tornare.
Questi quadri molto amati dall'autore e fra i più ammirati, lui vivente,
non hanno mai goduto di molta considerazione fra i più avveduti esegeti
del Fattori, né - lo si deve ammettere - del tutto a torto. Perché evidente,
dal più al meno, risulta in ciascuno di essi una discrepanza talvolta
sconcertante fra l'innegabile vigore di individuazione pittorica
sparsamente emergente nelle singole figure e la concezione d'insieme;
fra il carattere di ciascun personaggio e la prolissa definizione di
troppi particolari. Le figure, coscienziosamente studiate una a una in
disegni quasi sempre di accurata e fresca fattura ma che troppo spesso
tradiscono la loro ragione strumentale, sono assunte nella composizione
di rado dettata da una vera idea di insieme in modo siffatto da sembrar
ritagliate; e tanto poco, come pittura, le figure vivono una con l'altra
e con l'insieme del dipinto che in più casi il riguardante non riesce a
persuadersi che tra loro intercorra una qualsiasi azione, nonostante gli
atteggiamenti che in modo esplicito la dichiarano.
Non per questo è da sottovalutare l'importanza di questi dipinti; né
solo come testimonianza di una partecipazione alla vita del proprio
tempo che fu nel Fattori vivissima e di eccezionale sincerità e freschezza;
ma perché essi restano pur sempre opera di un maestro e come tali si
collocano fra i sintomi più attraenti e precoci di quel nostrano
"verismo" che comincerà a dare in letteratura i suoi frutti maggiori
negli anni ottanta, con le Novelle rusticane e i Malavoglia di G. Verga,
e che - tipica forma italiana dell'ormai dominante naturalismo - prende
giusto nel corso degli anni Settanta ad attingere i propri contenuti
dalla viva realtà del paese, schiudendo in questo modo alla nostra
cultura artistica, nonostante quell'insidia di miope regionalismo che
costantemente minaccia il principio di "verità" (e il discredito che
sovente gliene consegue), la via per farsi sul serio europea.
Sta di fatto che solo ora, grazie ad opere di questo genere e al tratto
sorgivo e autoctono che le distingue, il Fattori cominciò a entrare nella
considerazione dei suoi contemporanei e (in ciò favorito
dall'eccentricità che gli era propria e dalla poco chiassosa ma ferma
indipendenza dei modi) ad esercitare una non so quale attrattiva presso
un gruppo di giovani che a partire dal 1872 egli prese a frequentare in
casa di Francesco e Matilde Gioli e specialmente nella villa di campagna
che i due coniugi possedevano a Vallòspoli presso Fauglia, poco lungi da
Castiglioncello.
Figlia del marchese F. Bartolommei. uno degli uomini politici toscani
più in vista, Matilde, grazie alle sue relazioni mondane, alla sua
raffinata cultura e al suo garbo di scrittrice (ella ci ha lasciato fra
l'altro un ricordo molto suggestivo del F.: Gioli Bartolommei, 1924),
seppe dare alla sua casa una animazione di attualità culturale che non
mancò di giovare al pittore, così come gli avevano da sempre giovato, da
un tal punto di vista, l'amicizia di un Martelli, quella di un F.
Martini, o di F. Bartolini, un apprezzato architetto pistoiese la cui
moglie, Luisa Grace, di nascita irlandese ma delicata poetessa nella
nostra lingua, era stata cara a G. Carducci.
Preso da questi suoi nuovi interessi, insieme con F. Gioli, E. Ferroni e
N. Cannicci, tutti espositori di loro opere al Salon, il Fattori intraprese,
fra il maggio e il giugno del 1875, un viaggio a Parigi, dove, ospite di
F. Zandomeneghi, pare sia rimasto presso a poco un mese, traendone forse
qualche suggestione - come si ricava da una lettera dello stesso
Zandomeneghi inviata all'amico nel dicembre - ma non mostrandosi
attratto più che tanto dalle vere novità del momento (o come qualcuno ha
avanzato dal solo E. Manet), anzi dando segno nella corrispondenza col
Martelli durante il soggiorno di questo a Parigi (1878-79) di una vera e
propria idiosincrasia nei confronti della pittura di C. Pissarro e
assumendo ancora nel 1891 una posizione decisamente: polemica verso un
gruppo di allievi attratti da C. Monet e dal neo-impressionismo.
Frattanto, grazie ai quadri che inviava a esposizioni nazionali e
internazionali, il Fattori fu segnalato più volte con premi e diplomi che
valsero ad accreditarne la fama di "forte verista": nel 1870 a Parma;
nel 1873 a Vienna e a Londra; nel 1875 a Santiago del Cile; nel 1876 a
Filadelfia; nel 1880 a Melbourne; nel 1887 a Dresda; nel 1889 a Colonia.
Se questi successi risultano procurati più da ragioni estrinseche che
non dal genuino talento del pittore, non per questo si deve pensare che
le istintive doti di lui fossero in qualche modo compromesse. Il Fattori era
troppo pittore per non percepire con un sesto senso quel che la
"macchia" (nella accezione teoretica che fin dal 1868 Vittorio Imbriani
aveva lucidamente attribuito alla parola, facendo tout court dell'unità
di visione che essa comporta l'intuizione estetica) avesse significato
per lui. Di questa unità, il Fattori, non perse mai il senso. E valga qui a
sincerarcene l'esempio del Muro bianco, che, nato come il
Campo di
istruzione dall'esperienza di Fojano, lascia benissimo intendere che non
la realtà fenomenica delle manovre sta all'origine della sua invenzione
ma la struttura segreta delle cose, quella prorompente, aggressiva e
lancinante dinamica della realtà che la superba intuizione spaziale di
questo capolavoro offre d'un lampo alla nostra immaginazione;
illuminandoci anche, per questa via, sulla spinta emozionale che ben al
di là di ogni motivo cosciente aveva portato il Fattori a Fojano, nel luogo
cioè dove la severa necessità di quelle marziali esercitazioni gli
avrebbe consentito di attingere dall'interno la vera consistenza di ciò
che invece, nel movimentato disordine del Campo d'istruzione, risulta
velato dalla curiosità intellettuale e dalla partecipazione morale. E se
la poetica "veristica" non consentì al Fattori di rinunciare mai, in
prosieguo di tempo, ai quadri compositi di scene militari e di vita
popolare, sempre più intensa tuttavia si andò facendo in lui
l'attrazione verso una sintesi visiva capace di cogliere di ogni cosa il
senso profondo. Le quisquilie del quotidiano sono riguardate dal
pittore, talvolta, con una curiosità tanto innocente da sembrare
infantile. Eppure, nei suoi momenti migliori è come se l'intensità del
proprio vivere interiore venisse a fare tutt'uno - per lui immerso e
perduto in esse - con la vita stessa delle cose (si pensi, a proposito
delle impressioni ricevute nel corso del suo viaggio a Roma del '72, ai
Barrocci romani di Pitti, alla Sosta in Maremma già coll. Galli, e anche
alla più impegnativa
Campagna romana del Museo milanese della scienza e
della tecnica).
La fattura si movimenta insolitamente e si arricchisce
nella materia. Non più quelle sobrie, magrissime campiture degli anni
Sessanta, quella parsimonia di pigmento, quelle velature leggere
scoprenti sovente, come in Abbati o in Borrani, la venatura della
tavola, ma il giuoco spregiudicato e inaspettato delle forme (Ritorno
dalla perlustrazione già coll. Carnielo, Pattuglia di artiglieria, gli
Sperduti, Milano coll. Jucker), ma l'attenzione portata con ironia sulle
possibilità della pasta a dar conto degli aspetti strani o paradossali
di un esistere ormai sottratto alle care illusioni, ai troppo arditi
voli della mente e del cuore (Cannone del 1870, Imboscata, Cavallo in
corsa). Il singolare Autoritratto con la bombetta (1870 c.) dà l'avvio a
questo genere di curiosità artistica, che investe una serie di piccoli
ritratti rivolti solo, ora, alla disincantata e ironica osservazione
della quotidianità (la Mamma in cucina, Maurizio Angeli che legge, Mirina Galiani). Analogamente nel paesaggio la veduta in lontano cede il
passo all'esplorazione - nel bosco o in mezzo ai campi - di certi
riposti angoli di natura cui gli animali, che divengono, in questi
segreti recessi, sempre più frequente e variato oggetto di osservazione
per l'artista, portano vita e significato. E quando alla fine del '76
egli cominciò ad applicarsi attivamente al Quadrato di Villafranca
(Battaglia di Custoza), il suo quadro militare di maggior impegno
portato a termine nel 1880, fu come se l'assunto che necessariamente lo
obbligava a una concentrazione drammatica e a una sintesi visiva estreme
gli consentisse di mettere pienamente a frutto l'ininterrotto e variato
esercizio espressivo degli anni precedenti.
Il contenuto sentimentale è il medesimo che nei quadri di Fojano; ma
proprio mentre cominciano ad affiorare nella fantasia del Fattori il sinistro
motivo del soldato morto abbandonato ai porci (ripreso poi più volte) ed
altri tragici temi sentenziosamente illustrativi dei "disastri della
guerra", come nel 1879 lo Staffato (significativamente suggerito al
pittore da R. Fucini) o lo Scoppio del cassone - quadri che sembrano ora
interamente assorbire la sua vena patetica e descrittiva - qui, nel
grande Quadrato, alla ricerca della definizione formale conveniente alla
grandiosità severa e solenne della scena, il Fattori giunse con un geniale
colpo d'ala alla potente e dinamica struttura della composizione e a un
uso del colore - con quegli scorporati toni di pastello, quei pallori di
affresco - che fa riflettere, come osserva E. Cecchi, su quanto il Fattori
"avrebbe potuto nella pittura murale" (Pittura italiana dell'Ottocento,
Milano 1938, p. 83); mentre il nero segno che anche qui, come presto
nelle acqueforti, scolpisce contorni e movimenti, è appena un poco
ravvivato con qualche povera tinta che crea una atmosfera sorda,
bruciata: quella "reale atmosfera della violenza fisica e della guerra"
che non a sproposito fa correre la mente, come infatti è avvenuto, ai
nomi di Goya o di Tolstoi.
La tensione imposta al Fattori dalla esecuzione della vastissima tela (quasi
sei metri di base) - peraltro gratificata, l'8 novembre 1878, dalla visita
di Umberto I allo studio del pittore, indi, nell'83, dall'acquisto del
dipinto per la Galleria naz. d'arte moderna di Roma (poco dopo che il re
aveva assicurato alle collezioni di casa Savoia la
Carica di cavalleria,
1878, oggi a Pitti) - si sciolse nel periodo immediatamente successivo
per effetto di una personale gratificante vicenda che venne ad animare
la vita intima del pittore. L'incontro cioè con una diciannovenne
istitutrice tedesca a servizio in casa Bartolommei, Amalia Nollemberger,
che il Fattori, a quei giorni maestro di pittura di Isabella (la sorella
minore di Matilde), prese ad amare teneramente, sedotto dall'ardore
della giovane donna, suscitatrice in lui per tutto il periodo che li
vide uniti, dall'estate del 1880 alla primavera del 1883, di una vena
pittorica delicatamente idillica e affettuosa, che è dato riconoscere in
molte piccole opere (la Sosta alle Cascine, le Coperte rosse, la
Diligenza di Sesto, il Crocicchio di campagna) e anche in opere di
maggior respiro come le due già ricordate versioni del Viale animato. La
relazione con Amalia, documentata da una fitta corrispondenza (di lei il
Fattori ci ha lasciato anche un ritratto come Ciociara), diede inizio a una
fase della carriera dell'artista caratterizzata da una attenzione più
intensamente rivolta alla propria vita intima e ai momenti più originali
e creativi della propria personalità. Tre sono i luoghi cari alla
fantasia del Fattori che rimpiazzarono nella sua immaginativa la campagna
fiorentina, quella livornese e perfino Castiglioncello: e cioè in primo
luogo la tenuta della Marsiliana nella Maremma di Grosseto, dove nella
primavera del 1882 fu ospite del principe Tommaso Corsini e dove
ebbe il primo approccio con paesaggi di quell'estremo lembo meridionale
della Maremma toscana e con quelle scene animate della vita dei butteri
che costituirono da allora in poi un vero capitolo a parte della sua
produzione; poi Varràmista, una terra presso Castel del Bosco in quel di
Pontedera, dove un discendente dei Capponi imparentato col Corsini, il
marchese Paolo Gentile Farinola (che ospitò il pittore anche nella sua
villa di Casignano presso Scandicci), aveva una sontuosa dimora estiva,
e dov'egli, a contatto con la quotidiana operosità di contadini,
amministratori, casieri, trecciaiuole ed altri famigli, rinnovò di
pianta il modo di concepire un ritratto o un paesaggio; infine il
Mugello. Qui, in San Piero a Sieve, lo allietava sovente il soggiorno
nelle due ville medicee delle Mozzete, anch'essa dei Corsini, e di
Schifanoja, proprietà invece dei Cambray-Digny; e in San Godenzo
l'ospitalità dell'amico Gustavo Pierozzi che egli incontrò anche a San
Casciano in Val di Pesa (come del resto alla villa "Le Corti", il
Corsini). Luoghi tutti, questi, ed altri che ad essi si collegano, dove
il Fattori fu indirettamente condotto da una pratica necessità: quella di
arrotondare con delle lezioni private le sue entrate perennemente
insufficienti.
Sebbene infatti gratificato fin dal 1869 dalla nomina di
professore corrispondente della Accademia di belle arti e attivo come
insegnante presso l'Istituto dal 1876, egli non giunse mai ad avere un
vero e proprio ruolo organico all'Accademia, nemmeno quando, nominato
nel 1880 professore onorario di pittura, divenne assistente del titolare
G. Ciaranfi nell'insegnamento della figura e fu qualche tempo dopo
aggregato alla scuola di architettura (l'incarico formale è del 1888),
mai giungendo peraltro a percepire compensi se non irregolari e
irrisori, perfino quando nel 1893 - dunque a 68 anni - divenne titolare
di quell'insegnamento che egli esercitava di fatto da lungo tempo.
Avvalendosi della consuetudine di ogni buona famiglia fiorentina di
completare l'educazione delle giovinette con la pratica della pittura,
egli giunse infatti nel corso del nono decennio del secolo ad
acquistarsi la benevolenza della più distinta nobiltà fiorentina, in ciò
facilitato dai suoi titoli, e forse anche dall'essere stato nel 1877
insegnante del principe Eugenio Napoleone Bonaparte; ma soprattutto - è
da credere - dalla amicizia che lo legava al Martelli e alla moglie di
F. Gioli, Matilde. Questo nuovo genere di contatti esercitò sull'artista
sessantenne (il suo volto a quei giorni ci è familiare dall' Autoritratto
degli Uffizi, 1884) una positiva e stimolante influenza, nel senso di
schiudere alla sua sensibilità i limitati confini di una concezione del
mondo - qual era quella dell'ambiente da lui finora frequentato -
fondata su una veduta ristrettamente etico-politica e ideologico-sociale
della realtà, tanto più intollerabile per il Fattori ora che quel ceto
borghese emerso dalla Rivoluzione e dal Risorgimento cominciava a dar
segni manifesti di quella opacità, di quell'egoismo, di tutti quei
limiti ideali, insomma, che lo contraddistinsero, all'approssimarsi
dell'età umbertina e durante questa. Con sorpresa, e quasi
vergognandosi, il pittore scopriva di giorno in giorno che quella
aristocrazia tanto avversata non era poi così abominevole come
l'opposizione politica l'aveva dipinta; che, a parte certo sussiego e
smanceria del costume, essa mostrava nei singoli, umanamente
considerati, innegabili qualità non foss'altro che di cuore e di quieta
dedizione all'operosità quotidiana; che nei suoi gusti e nelle sue
predilezioni essa sovente era più vicina agli artisti di quel che non lo
fosse l'arricchita e pacchiana borghesia costituente l'ala democratica
del paese. Considerazioni, queste, che lo conducevano, in una sua
lettera al Martelli del 21 febbraio 1886 a ritenere l' "aristocrazia di
casta" addirittura l'unico "elemento" degno di stima nel paese, insieme
con l' "aristocrazia dell'ingegno" (cfr. Lettere a Diego, 1983).
Non che con ciò il Fattori si distacchi dalle sue convinzioni e dalla sua
poetica. La coscienza delle sue doti di "minuto osservatore del vero",
tenute da lui non senza compiacimento per le sue migliori, non cessava
punto d'imporgli l'obbligo morale di farsi illustratore della vita del
proprio paese nelle sue "manifestazioni più varie". "Lo studio per me
dell'arte attuale - egli scrive - sta nelle manifestazioni della natura
e nell'illustrazione sociale del nostro secolo sia per costumi,
abitudini, sofferenze, ed altre cose, anche politiche, che parte mandi
ai posteri la nostra storia moderna..." (cfr. Opinioni sull'arte [1904],
in Scritti autobiografici..., p. 69). Così egli regolarmente dedica ai
costumi contadini ed alla vita dei butteri quei suoi quadri di grande
dimensione che sono la continuazione ideale del perduto Mercato di
cavalli a piazza Montanara. Ne apre la serie in questo decennio la
Marcatura dei puledri datata bensì 1887 in occasione della sua
esposizione a Venezia per l'appunto quell'anno, ma concepita nell'82 ed
eseguita probabilmente poco dopo. Seguono in ordine di tempo il
Mercato a San Godenzo in Mugello (Firenze, Gall. d'arte mod.), esposto a Roma al
principio dell'83 (non nell'82 come si è detto talvolta) col titolo
Una
fiera di bestiame; e quello che può considerarsi un suo pendant per
fattura, dimensioni e ambientazione, cioè il Salto delle pecore. C'è poi
il Carro rosso, coll. Giustiniani, datato 1885; poi la Maremma di Pitti,
sempre dell'85; e finalmente, nell'87 il Riposo di Brera.
Eppure, nonostante il persistere nel pittore di queste sue convinzioni,
il salto di qualità che è dato avvertire nei due quadri ultimi
ricordati, la Maremma e il Riposo, ci apre gli occhi
sull'approfondimento e il distacco introspettivo che le nuove abitudini
di vita avevano frattanto concorso a operare in lui. Come meglio di
chiunque altro è riuscito a fare intendere Oscar Ghiglia (1913) - che
fra gli allievi del Fattori è indubbiamente quello più dotato di sensibilità
e giudizio estetici - vivissima fu sempre nel maestro la capacità di
annullare il proprio "io" di fronte al prorompere del fantasma
interiore. Per l'appunto la monografia di Ghiglia, che per impostazione
critica, scelta di opere, eccellenza di stampa resta a tutt'oggi l'opera
più attraente mai apparsa sul Fattori, ci fa capire quanto meravigliosa fosse
in quest'ultimo la capacità di raffigurare ogni cosa nell'immediato
momento della sua propria significazione, nella sua luce, in
quell'aspetto improvviso e imprevisto che specificamente la
caratterizza, senza mai frapporre fra l'oggetto e la commozione né
l'ombra di un ragionamento né "l'esperienza scansafatiche del mestiere".
"Invece di adattare le cose alla sua tavolozza, alle comodità della sua
visione passata, egli adattava immediatamente se stesso e i suoi mezzi
alle nuove cose" con la più palpabile aderenza all'oggetto, "rompendo
ogni abitudine, tentando di essere perfettamente diverso com'è diversa
senza fine la realtà... Fattori sapeva rinnovarsi a ogni istante... e
sfuggiva così, grazie alla sua istintiva umiltà, dinanzi alle più umili
cose, al pericolo della stilizzazione...".
Il linguaggio delle acqueforti, che proprio in questi anni cominciano a
divenire per il Fattori una applicazione tenace e prediletta, "quell'incastro
di piani improvviso, a scontri e quasi impennate", per usare le parole
di Ragghianti (1953, p. 39), "quelle sagome ridotte a poche forme e
contorni essenziali, sensibili, incisi, come scavati", quell'insieme di
caratteri, insomma, volti a strutturare potentemente e dinamicamente
l'immagine, nasce da un siffatto atteggiamento di spirito. Questi
caratteri inconfondibili già presenti dagli anni Sessanta nella quasi
barbarica ruvidezza di dipinti come la ricordata Porta rossa, e
pressoché costanti nel Fattori maggiore, sono qui, nelle acqueforti, come
decantati e trasposti in una sfera di magico rigore formale cui danno un
singolare accento di verità l'estrema varietà, finezza, morbidezza del
segno sempre teso a caratterizzare l'infinita diversità degli effetti
suggeriti all'occhio dalla frappa, dalle erbe, dai sassi, dalla
pelliccia degli animali e dalle movenze loro e a sottolineare certe
inaspettate insorgenze di scoppiante, fresca, delicatissima vitalità.
Ché, proprio in questi anni, si manifesta nel Fattori quel sempre più sottile
differenziarsi del contrasto così acutamente osservato da M. Marangoni
(G. F., in Rivista di Livorno, III [1953], 4, pp. 1-6), fra "la nota
maschia e quasi rude" dell'arte e "i tesori di grazia e di delicatezza
che vi sono così largamente profusi". Nota inoltre il Marangoni come nel
Viale alle Cascine il fascino della tavolozza sia "ravvivato e come
sostenuto dal contrasto tra la delicatezza dei toni e l'energia con cui
è posato il colore".
Sono "le scarse e robuste pennellate ravvivate e mosse da svelte e
fresche lumeggiature più luminose e leggere", egli dice, che riescono a
darci la sensazione "frusciante e ariosa del fogliame". E a proposito
del Buttero: "...chi lo vedesse nella riproduzione con quel piglio
maschio e accigliato, con quella impostatura solida e quadrata dalla
modellatura energica e rude non ne sospetterebbe mai le raffinatezze
coloristiche ... fondo verdone, giacca castagnochiaro, panciotto
azzurrognolo, cravattone cremisi: tonalità già così varie ma anche ...
raffinate e fissate con la fermezza degli smalti". Anche in questo caso
a determinare il carattere della figura è il contrasto fra la quadrata
testa del buttero e l'armonioso mosaico coloristico; il giuoco
delicatissimo dei rosa dell'incarnato, "sul quale si annidano due
occhietti umidi di un celeste chiaro come polla, e fiorisce una barba
incanutita, soffice, ariosa ... rosa, celesti, bianchi, a raddolcire la
fiera testa leonina, dove si palesa la forza selvatica e l'anima
infantile di questo figlio della Maremma...". Questi tocchi molto felici
vanno al cuore dell'ispirazione fattoriana nel periodo di cui qui si
tratta: e cioè una istintiva e tenerissima partecipazione alla vita
della natura, che non ha niente di idillico, che nasce anzi da una
visione disincantata, rude e talvolta crudele del mondo naturale.
Questo è ora il vero Leitmotiv della produzione del Fattori, il motivo che lo
porta a vivere la sua nuova straordinaria avventura di artista:
punteggiata dapprima dalle veloci impressioni raccolte alla Marsiliana
(Testa di puledro, i due bozzetti per la Marcatura dei cavalli,
Prateria, Principio di una burrasca, Cavalli alla greppia); indi
dall'attrazione in lui maturatasi specie a Varràmista e a Casignano per
il significato profondo della fatica dell'uomo e del logorio del lavoro
(l'Aratura, i Battitori a correggiato, le Case di contadini di Pitti,
Bambini nel viale, la Pazza, la Raccoglitrice di foglie, le
Tre
impressioni - dove compare per la prima volta lo Spaccapietre della
celebre acquaforte); poi dal rinnovato interesse per il ritratto
concepito in questi anni con una libertà di forme e una penetrazione
psicologica non mai raggiunte finora con così distaccato disincanto (la
Testa di contadino e il Ritratto di uomo, coll. Checcucci; lo
Scialle
rosso e il Contadino seduto, coll. Magnelli, la
Trecciaiola toscana, la Rossa, il Profilo di donna bionda, coll. Galli); infine dal nuovissimo
gusto del paesaggio e del paesaggio animato (la
Libecciata, il Pagliaio,
i Cavalli al sole). Sulla fine degli anni ottanta un tal linguaggio del
Fattori, scaturente da una sfera del suo essere quietissima e fervida ha
momenti d'insolita e assorta sospensione acquistando ora, la sua
pittura, una colorata, sonora quasi squillante pienezza di canto. Questo
effetto di luminosità nettamente definita ed intensa caratterizza
inconfondibilmente un gruppo di opere del quale fanno parte la Testa di
contadina e i Buoi del Museo di Livorno; il grande Viale alberato con
buoi e spaccapietre, Nel bosco all'ombra e il bellissimo "taglio lungo"
dell' Uliveta, già appartenuti a M. Galli; la stupenda Stradina al sole,
coll. Jucker; la Veduta di paese, coll. Magnelli; l' Uliveta a Careggi,
coll. Borgiotti. Fra i paesaggi animati l'Uomo nel bosco,
forse poco più tardo; fra i ritratti quello del Bersagliere, i due di Frate e pur nella
sua maggior sobrietà e non so quale piglio di "caratteristico" quello
della Seconda moglie;
fra i quadri militari, il volgente e quasi
cinematografico Ritorno della cavalleria (1888). Pure, di tutte queste
opere, due sono quelle alle quali il pensiero ricorre come a due punti
di quasi simbolico riferimento: il già ricordato Riposo di Brera (1887)
e il Ritratto della figliastra
(1889). Il primo, una sintesi di
stupefacente semplicità dove l'artista sembra accogliere in un punto
come di trasognato incantesimo quanto da lui moralmente e poeticamente
acquisito nel contatto con la vita elementare e selvaggia della Maremma;
l'altro, il ritratto della ragazza, "questo volto pulsante di vitalità
animale sotto l'epidermide tesa", esprimente attraverso fl nero brutale
dei capelli, delle pupille, del nastro "che emergono così crudi dalla
calata lattea delle trine sgualcite" (Marangoni, ibidem) la seduzione in
lui invincibile del "tangibile", dei "sensuale", del "corporeo".
Né questa polarità di contrari viene meno nel momento immediatamente
successivo, peraltro di assai diversa ispirazione, quando col grande
quadro dei Butteri del Museo di Livorno è come se la nitidezza sonora
del Riposo si sciogliesse nel mormorio severo di un mare biancheggiante
di azzurri che, come il gran mare dell'essere, tutto percuote, ingloba e
sommerge. La grandiosità solenne dei Butteri, dipinto nel '93, è ripresa
l'anno successivo dal Fattori nei
Butteri e mandrie di buoi in Maremma, già
coll. Bruno, che, esposto nel 1895 alla I Biennale veneziana, fu dipinto
contemporaneamente al celebre
Autoritratto già coll. Giustiniani, nel
quale l'artista si raffigurò a sessantanove anni nell'intersecato ma pur
calibrato disordine del suo studio, in atteggiamento meditativo e
leggermente ironico, coperto dalla sua caratteristica "biritullera". Il
brontolio sommesso che si leva dal vasto e singolare monocromo dei
Butteri viene ora ad improntare di sé tutta una parte della produzione
del Fattori, che pur permanendo insidiata nei temi più tragicamente
illustrativi da un patetismo che, come nel
Cavallo morto del 1903
continua a distrarre l'artista dalla sua più autentica vena, pure
raggiunge talvolta, attraverso l'osservazione dell'impassibile e crudele
lavorio della terra, il necessario distacco dell'arte (Mandriana trascinata da un bove infuriato, c. 1900). Il Fattori prese ad avvalersi
sovente per i suoi fini espressivi, anche in quadri di grandi
dimensioni, del pastello (il Cavallo bianco e la Campagna maremmana di
Pitti; l'Incontro fatale, già Ciardiello, c. 1900; le Manovre di
cavalleria, della Biennale di Venezia del 1901) e di una tecnica
insolita dove il carboncino, il pastello, l'acquarellatura assumono
un'importanza primaria. In opere come i Bovi nel padule già coll.
Sforni, come il Pro patria mori, e l'Adua, dopo la battaglia, entrambe
passate per la Biennale di Venezia, rispettivamente nel 1901 e nel 1903,
come l'Affogato, coll. Rosselli, 1904, o l'Hurrah ai valorosi del Museo
di Livorno del 1907, questa tecnica mista rende effetti grafici
estremamente suggestivi che richiamano sul piano, non solo tecnico,
quelli delle acqueforti.
Interessante è il lavoro di acquafortista del Fattori che cominciò a incidere
abbastanza tardi, non prima si direbbe del contratto da lui firmato con
la Promotrice fiorentina per la sua Carica di cavalleria il 6 marzo 1883
e della pubblicazione dei suoi 20 ricordi dal vero (Pistoia 1884).
Si conoscono di lui 200 lastre, delle quali 166, non mai biffate, furono
ristampate in 50 esemplari da P. Benaglia nel 1925 ricorrendo il
centenario della nascita dell'artista. Nel 1958, in occasione del
cinquantenario della morte, pochi esemplari ancora se ne ristamparono
per iniziativa della Calcografia nazionale, destinati alle collezioni
pubbliche con l'aggiunta di undici lastre trascurate dal Benaglia.
L'importanza delle acqueforti per l'arte del Fattori non sarà mai abbastanza
sottolineata. A parte il livello quasi sempre molto alto di ciascuna di
esse, grande, per unità di ispirazione, è l'omogeneità del vasto
complesso che ignora del tutto gli alti e bassi non infrequenti nella
produzione fattoriana: come se nelle acqueforti tutti i contrasti e le
aporie di una personalità così varia e contraddittoria siano
definitivamente risolti a un superiore livello. Proprio grazie a questi
caratteri, le acqueforti del Fattori si inseriscono con una voce loro,
estremamente originale, in quella atmosfera di naturalismo crudele e
pessimistico che, sullo scorcio del secolo, caratterizza di sé tanta
parte della produzione artistica e letteraria europea: da Zola a Verga,
da ?echov a Maupassant, da Degas a Toulouse-Lautrec, fino alle prime
opere olandesi di Van Gogh.
Nel 1903 il quasi popolare segretario generale della Biennale, A.
Fradeletto, annunciava in una sua lettera a F. Gioli che "papà Fattori,
vera anima di vero artista" sarebbe stato presente a Venezia, alla
quinta edizione dell'ormai affermantesi esposizione internazionale; e
dava così prova, con la festosità di questo suo accenno, della
considerazione di cui il F. ormaì godeva anche negli ambienti ufficiali;
ciò che emerge d'altra parte anche dalla stampa. La quale, da più parti,
prendeva a interessarsi dell'opera dell'artista livornese, pur volgendo
la propria attenzione (perfino un V. Pica), non per l'appunto agli
aspetti della produzione dell'artista che eminentemente ne costituiscono
la grandezza. Richiestone via via da U. Ojetti (e per lui da C.
Raffaelli e P. Bacci), da D. Angeli, da O. Roux, da A. Franchi il F.
tracciava a più riprese nei primi anni del Novecento fitte pagine di
memorie autobiografiche. Ad Angeli che gliene fece richiesta inviò
anche, subito dopo l'avvenuta morte di C. Banti (1904), notizie
circostanziate relative a lui e al movimento dei macchiaioli, notizie
utilizzate poco dopo da U. Matini per una conferenza sull'artista (C.
Banti e i pittori macchiaioli, Firenze 1905).
In questi ultimi anni, galvanizzato dall'attenzione che si cominciava a
prestare al suo lavoro, il F. si dimostrò particolarmente attivo, anzi
infaticabile. Non solo fu quasi regolarmente presente alle Promotrici e
alle varie mostre nazionali che periodicamente si susseguirono in
Italia, ma continuò a inviare i suoi quadri, quasi sempre di grandi
dimensioni, anche alle esposizioni internazionali, a cominciare dalla
Biennale di Venezia cui partecipò regolarmente. Nel '96 espose a
Berlino, nel '97 a Dresda, nel 1900 a Monaco e a Parigi (alla
Esposizione universale), ottenendo riconoscimenti e premi (in
quest'ultimo caso come acquafortista).
Nominato membro della commissione per l'indirizzo artistico della
Calcografia nazionale, egli, dal 1901 al 1905, fu sovente a Roma ivi
richiamato da questo suo ufficio. La morte di Nino Costa, il 31 genn.
1903, lo condusse ai funerali dell'amico in Pisa. Il 12 ag. 1904
assistette alle celebrazioni per il centenario della nascita di F. D.
Guerrazzi. Nel settembre del 1905 fu in viaggio a Padova, Verona,
Mantova, Bologna.
Trascorse per lo più i mesi estivi a Livorno in compagnia prima della
seconda moglie, Marianna Bigazzi (da lui sposata il 4 giugno 1891, dopo
una convivenza di otto anni, per facilitare con questo atto formale il
matrimonio della figliastra Giulia con un pittore uruguayano di nome
Domingo Laporte che, presa in moglie la giovane donna e avutone un
figlio, la condurrà seco, qualche tempo più tardi, a Montevideo); poi
dopo la morte della Bigazzi, avvenuta il 1º maggio 1903, con una amica
di lei Fanny Marinelli, che, sposata dal Fattori il 12 maggio 1907, anch'essa
gli premorì il 3 maggio dell'anno successivo. A Livorno fra il 1893 e il
1896 aveva impartito lezioni di pittura alla figlia del noto stampatore
G. Civelli (poi andata sposa a un Ginori) nella villa che la famiglia
della ragazza possedeva in Antignano. A quel momento, come si ricava da
una corrispondenza recentissimamente pubblicata da V. Quercioli (in
Contributo a Fattori, 1994) con un'altra sua allieva, Adele Galeotti (futura
madre di Emilio Rasetti, l'illustre fisico collaboratore di E. Fermi
nello storico gruppo di via Panisperna), era cominciata nella vita del
vecchio pittore quella sorta di familiare consuetudine con le sue
giovani e giovanissime allieve, che assicurò alle sue giornate momenti
di singolare e serena vivacità di spirito: la Galeotti, appunto, una
Olga Argenti, una Decolli, una Giotta. Con la Galeotti dipinse sul
Trasimeno; con Enedina Pinti fu nel settembre del 1904 a Bauco presso
Frosinone (Isola del Liri); e, nel luglio del 1905, a San Rossore,
ospite questa volta dei genitori della ragazza che possedevano una villa
a San Piero a Grado; con Anita Brunelli, cui scriveva nel 1906, si
augurava di dipingere sul mare a Livorno. In quel periodo frequentavano
il suo studio fra le altre allieve anche le future spose di A. Spadini,
Pasqualina Cervone, e di E. Cecchi, Leonetta Pieraccini.
Morì a Firenze il 30 agosto 1908, assistito dall'allievo G. Malesci che
l'artista aveva nominato suo erede universale. Il 1º ottobre gli furono
tributati solenni funerali.
Nel corso della sua lunga carriera di insegnante il Fattori formò numerosi e
notevoli artisti fra i quali giova annoverare - accanto al già ricordato
O. Ghiglia - P. Nomellini, M. Puccini, G. Micheli, U. Pichi, R. Panerai.
Ruotarono intorno a lui G. Bartolena, L. Levi (Ulvi Liegi), R. Gambogi,
G. C. Vinzio, F. Fanelli, F. Pagni, Silvio Bicchi. Inoltre passarono per
il suo studio G. Pellizza da Volpedo, molto legato a Nomellini e a
Micheli, e, allievi di quest'ultimo, L. Lloyd, G. Romiti, M. Martinelli
e lo stesso Amedeo Modigliani. Da ultimo, con la sua Pasqualina, anche
Armando Spadini, che proprio con una lettera di raccomandazione per D.
Angeli, di pugno del maestro, si insediò a Roma nel febbraio del 1908.
Dario Durbè - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995) -
treccani.it
Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno
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