Venezia, 10/02/1791 - Milano, 21/12/1882
Nato a Venezia l'10 febbraio 1791, morto a Milano il 21 dicembre 1882. Di
padre originario di Valenciennes, fu affidato ad uno zio antiquario che,
volendone fare un restauratore, lo avvia alla pittura. Ricevette la
prima educazione artistica dallo Zanotti, poi dal Maggiotto e dal
Quarena, e frequentò l'Accademia di Venezia, discepolo di Teodoro
Matteini. Vinto nel 1809 il pensionato di Roma, vi si recò con una
commendatizia del Cicognara per Canova. Dopo lunga dimora in quella
città, nella quale ebbe modo di conoscere, per non citare che i
maggiori, Il Camuccini, il Minardi, l'Ingres, e breve soggiorno a
Firenze e a Napoli, tornò nel 1817 a Venezia ed infine si stabilì a
Milano. Nel frattempo, nel 1812 aveva vinto col
Laocoonte il gran premio di Brera.
A Milano ferveva la lotta fra classici e romantici, capeggiati
i primi da Luigi Sabatelli, e l'Hayez, ancora sotto l'influsso del
Canova, in un primo tempo si mantenne fedele alle forme della paludata
classicità, come nell'Alcibiade sorpreso nel gineceo da Socrate,
eseguito nel 1819 per commissione di re Murat.
Ma quando a Brera l'anno dopo espose il suo primo quadro storico,
Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri a Pontremoli, i romantici lo
acclamarono subito loro caposcuola. Tutta via la critica moderna ha
rilevato che questo romanticismo era più nei temi da lui prescelti che
nella sua pittura.
Egli dipinse poi: per commissione del conte Arese, Il conte di Carmagnola; La patrizia veneziana Valenzia Gradenago
davanti agli Inquisitori di Stato, ordinatagli dalla contessa Maffei
per ornare il suo salotto e nel 1823 L'Ultimo bacio di Giulietta e
Romeo considerata l'opera più significativa del romanticismo italiano. Il Manzoni, il Grossi, il Berchet, il Pellico
gli furono amici, e spesso gli suggerirono temi per dipinti vedansi:
I Vespri siciliani,
attualmente nella Galleria d'Arte Moderna di Roma,
I due Foscari,
nella Galleria d'Arte Antica e Moderna di Firenze;
I profughi di Parga,
proprietà dell'avvocato Carlo Ernesto Accetti di Milano;
La sete dei Crociati;
Imelda; Maria Stuarda; Vittor Pisani; Venere che
conduce Elena al letto di Paride.
Dal 1822 l'artista fu aiuto del Sabatelli a Brera, e nel 1850 lo sostituì come titolare.
Fecondissimo e instancabile, lavorò fino a veneranda età, impersonò per
lunghi anni l'Accademia milanese e fu per mezzo secolo l'idolo del
pubblico. La sua arte è dolce, soave, serena come la Venezia in cui era
nato; da alcuni tacciata di non essere scevra da certa qual freddezza
presa dai classici, ma sempre squisita, accurata e armoniosa. Eccelse
nei ritratti, specialmente in quelli femminili, ai quali seppe dare una
sensuale finezza, che gli sarà a lungo invidiata.
Si conservano di lui quattro Autoritratti, dipinti
rispettivamente nel 1822, 1848, 1862, 1878, e i ritratti dei personaggi
più famosi della sua generazione:
Alessandro Manzoni; Teresa Borri Manzoni;
Antonio Rosmini;
Massimo d'Azeglio;
Cavour;
Gioacchino Rossini; Ugo
Foscolo; Carlo della Bianca; Il pittore Vitale Sala, tutti e nove
nella Pinacoteca di Brera; Pompeo Marchesi;
Matilde Juva Branca, e
un altro ritratto di Alessandro Manzoni, nella Galleria d'Arte
Moderna di Milano;
La principessa di Sant'Antino, nel Museo
San Martino a Napoli;
Il conte Cristoforo Sola Cabiati,
appartenente al conte Gian Vico Sola di Milano; La contessa Litta Borgia,
di proprietà del marchese Alessandro Modigliani di Milano; Don Giovanni Morosini, di
proprietà del conte Alessandro Casati Stampa di Milano; Ritratto di ignota nella raccolta del pittore Carozzi di Milano;
Testa di donna,
esposta a Milano nel 1934 ed oggi nella collezione Turri di Milano; Ritratto di prete armeno.
Si ricordano inoltre di lui: Betsabea al bagno;
Ultimi momenti del Doge Marin Faliero sulla scala detta del Piombo;
Odalisca;
Francesco Foscari obbligato alla rinunzia del dogato; La desolata e
Fiori
tutte conservate nella Pinacoteca di Brera; La distruzione di
Gerusalemme (bozzetto a disegno acquarellato) nella Galleria d'Arte
Moderna di Milano; Bagnante; Caterina Cordaro e Il Messo Veneziano
proprietà dell'Accademia Carrara di Bergamo; Le veneziane e Martirio
di San Bartolomeo, proprietà del conte Negroni Prato Morosini; Battesimo dei primi cristiani;
Rinaldo ed Armida,
nella Galleria di Venezia; Ulisse alla corte di re Alcinoo, nel
palazzo Capodimonte; Atleta e Commiato, nell'Accademia di
San Luca a Roma; La battaglia di Magenta; L'assedio di Patrasso.
L'Hayez eseguì anche affreschi nella volta della sala da pranzo del
Palazzo Reale di Milano, commissionati dal conte Metternich,
raffigurandovi il Trionfo d'Igea, e due lunette nel Museo Vaticano Chiaramonti.
Lasciò le sue memorie, che furono pubblicate a cura dell'Accademia di
Brera. Eseguì anche un'incisione L'Allegoria, raro
esempio di acquaforte bulinistica, incisa nel 1821 all'epoca dei Vespri
Siciliani, timido saggio dell'inizio della storia dell'acquaforte in
Lombardia. Fu reputato litografo, insieme ad Appiani e Fontanesi è
l'esponente della nostra litografia ottocentesca. Adoperò la matita,
talora con vivace libertà, tal altra con gusto manierato e raffinato.
Illustrò l"Ivanoe" di W. Scott (in cui inserì l'Autoritratto, suo
capolavoro) e i "Lombardi alla prima Crociata" di T. Grossi.
Nel 1883 fu allestita all'Accademia di Brera una grande retrospettiva
delle sue opere; nel 1890 Milano gli dedica un monumento (opera dello
scultore Lorenzo Barzaghi), collocato nella piazzetta di Brera e, nel
1934 fu allestita, nel Castello Sforzesco, un'altra grande esposizione
(quasi un centinaio di opere) di suoi dipinti.
Fra i suoi allievi ebbe: E. Amus, Andrea Appiani junior, Giuseppe
Ariassi, C. Arienti, G. Arlassi, Angelo Bacchetta, A. Barzagli Cattaneo,
C. Belgioioso, L. Bianchi, A. Bisi, Emilio Borsa, Pietro Boulier, Ferd.
Brambilla, Gabr. Brunati, Fil. Carcano, G. Castoldi, A. Cattaneo, Enr.
Crespi, Fr. Didioni, Achille Dovera, Al. Focosi, L. M. G. Galli,
Domenico Induno, Angelo Inganni, Achille Lampugnani, Salv. Lo Forte, Em.
Magistretti, Giuseppe Mazza, Giuseppe Mazzolani, Fil. Monteverde, Ant.
Moro, Angelo Pietrasanta, G. Porta, Gius. Puricelli, Al. Rinaldi, Gius.
Riva, Ferd. Rossaro, Bas. Ticozzi, Fr. Valaperta, Bald. Verazzi, Ant.
Zanoni. Rimasero influenzati anche P. Fabris, L. Sampieri e altri.
(A. M. Comanducci)
"Nacqui in Venezia il giorno 10 Febbraio 1791 nella
parrocchia di S. Maria Mater Domini": così afferma lo stesso Hayez
nell'incipit delle sue memorie dettate molti anni più tardi, tra il 1869
e il 1875, a Giuseppina Negroni Prati Morosini.
La nobildonna milanese fece dono delle memorie all'Accademia di
Brera, nel cui archivio sono ancora oggi conservate in due versioni. La
prima, più breve, fu edita con il titolo Le mie memorie, a cura di G. Carotti, con un discorso di E. Visconti Venosta, a Milano nel 1890; la
seconda, più completa, cui si farà d'ora in avanti riferimento, è stata
pubblicata con lo stesso titolo a cura di F. Mazzocca e C. Ferri, a
Vicenza nel 1995.
Dei genitori naturali, Giovanni originario di Valenciennes e Chiara
Torcellan da Murano, l'artista dice poco o nulla nell'autobiografia; né
fa altra menzione della sua famiglia, che contava altri quattro figli,
se non a proposito delle pressanti ristrettezze economiche che spinsero
i genitori ad affidarlo ancora bambino, sul principio del 1797, alle
cure di una zia materna e del suo consorte, il genovese Francesco
Binasco, antiquario e mercante di quadri.
Fu dunque presso la casa degli zii che il giovane Hayez trascorse gran
parte dell'infanzia e dell'adolescenza e ricevette una prima educazione,
soprattutto per iniziativa dello zio Francesco, il quale aveva per tempo
intuito le inclinazioni e il talento artistico del nipote, anche se in
verità sperava di farne un bravo restauratore da impiegare per le
proprie attività commerciali. Fin dall'inizio, infatti, il giovane
frequentò la scuola di disegno tenuta da un certo Zanotti, che morì però
poco tempo dopo. L'Hayez passò quindi sotto la guida del pittore veneziano
Francesco Maggiotto, che allora godeva in città di una distinta
notorietà ed era ispettore alla tutela dei dipinti esposti nelle chiese.
Nei tre anni in cui fu allievo di Maggiotto l'apprendista pittore poté
ampliare la propria cultura figurativa e cominciare a formare
personali orientamenti di gusto, in primo luogo a contatto con le opere
dei grandi maestri veneti del Settecento: da Giovan Battista Tiepolo e
Giovan Battista Piazzetta a Sebastiano Ricci e Francesco Fontebasso. A
costoro, tuttavia, l'Hayez preferiva la maniera più monotona ma meno
barocca di Gregorio Lazzarini, e sulle opere di questo egli stesso
riconobbe di aver condotto i suoi primi studi.
All'inizio del nuovo secolo, per imprimere un più decisivo impulso alla
formazione artistica del giovane, Francesco Binasco fece in modo che il
nipote potesse frequentare la allora celebre galleria Farsetti, onde
esercitarsi nel rilievo dei gessi di famose statue classiche che vi
erano raccolti. Di lì a poco l'Hayez, su sua stessa richiesta, venne pure
ammesso alla scuola di nudo presso la vecchia Accademia di belle arti di
Venezia, dove incontrò il pittore Lattanzio Querena, dal quale ricevette
i primi rudimenti nell'uso del colore, e cominciò a distinguersi
vincendo, il 1° aprile 1805, il primo premio per il disegno di nudo.
Dopo l'unione di Venezia al napoleonico Regno d'Italia (1806), il
governo decretò la fondazione di una nuova Accademia, che venne
trasferita nei locali della ex Scuola della Carità. Il conte Leopoldo
Cicognara, presidente dell'Accademia dal 1808, avrebbe avuto poi un
ruolo decisivo per la fortuna dell'Hayez.
Nella nuova Accademia l'Hayez poté seguire i corsi di Teodoro Matteini,
incaricato dell'insegnamento della pittura di storia. A questi anni
risalgono pure i primi dipinti documentati del giovane artista: un
Ritratto della famiglia del pittore (Treviso, Museo civico L. Bailo) -
in cui compare lo stesso Hayez, che nel 1864 autenticò il quadro datandolo
1807 - e una Adorazione dei magi, ricordata nelle memorie e realizzata
entro il 1809 per i padri armeni della parrocchiale di Lussingrande
(Veli Lo¨inj), dove è ancora conservata.
Sempre nel 1809 vinse, insieme con Giovanni De Min e Vincenzo
Baldacci, il premio del concorso indetto dall'Accademia per l' "alunnato
di Roma", che garantiva ai vincitori una borsa di studio per un triennio
di perfezionamento a Roma. Nell'ottobre dello stesso anno partì alla
volta di Roma, accompagnato dallo zio Binasco, dall'amico e collega
Odorico Politi e, soprattutto, dalle lettere commendatizie consegnategli
dall'architetto Antonio Selva e dal conte Cicognara, che raccomandava il
proprio pupillo ad Antonio Canova e al cardinale Ercole Consalvi.
Giunto a Roma, dopo varie soste in cui ebbe modo di visitare brevemente
anche Bologna, Firenze e Siena, l'Hayez si presentò da Canova - dal 1802
ispettore generale delle Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, con
sovrintendenza ai musei Vaticani e Capitolini e all'Accademia di S. Luca
- e fu accolto con affabilità e grande disponibilità. Per tramite del
collaboratore di Canova, Antonio D'Este, il pittore veneziano ebbe
libero accesso alle grandi collezioni romane, e in particolare ottenne
il permesso di recarsi ai Musei Capitolini e al Museo Chiaramonti in
Vaticano, dove poter studiare e disegnare la statuaria greco-romana e le
opere dello stesso Canova. Per intercessione di Vincenzo Camuccini,
altra figura assai influente nel panorama artistico della Roma di quegli
anni, l'Hayez passò quindi a condurre i suoi studi giornalieri nelle Stanze
vaticane, ove ebbe modo di lavorare assiduamente a confronto diretto col
modello raffaellesco, che si sarebbe rivelato decisivo per la sua
formazione. A questa, naturalmente, contribuirono anche le variegate
esperienze che un giovane e ambizioso pittore poteva fare in una città
artisticamente cosmopolita come Roma. Negli anni del suo soggiorno
romano poté infatti conoscere e frequentare molti artisti italiani
e stranieri: Pelagio Palagi, Tommaso Minardi, Bartolomeo Pinelli,
Dominique Ingres e Friedrich Overbeck, tra quelli ricordati
espressamente nelle memorie.
Grazie all'incoraggiamento di Canova e di Cicognara, che riponevano nel
talento del loro protégé le speranze di vedere finalmente restaurata una
grande pittura nazionale italiana, nel 1812 l'artista prese parte al
prestigioso concorso indetto dall'Accademia milanese di Brera
sull'impegnativo tema classico del Laocoonte. Nonostante l'autorevole
influenza dei mentori dell'Hayez e l'indubbia qualità del suo lavoro
(Milano, Accademia di Brera), la commissione giudicatrice non volle
scontentare neppure Andrea Appiani, che sosteneva il suo delfino Antonio
De Antoni, e dunque optò per un diplomatico primo premio ex aequo. Si
trattava comunque della prima vera, importante affermazione pubblica
dell'Hayez sulla scena nazionale, alla quale fecero seguito altri successi
nel giro di pochi anni. Nell'estate del 1813 inviò all'Accademia
veneziana, quale saggio conclusivo del suo triennio di studio romano, la
grande tela con Rinaldo e Armida (Venezia, Galleria d'arte moderna a Ca'
Pesaro), che mostra la particolare declinazione coloristica e
"tizianesca" con cui l'artista aveva inteso la lezione classicista canoviana. Non per caso il dipinto piacque agli accademici veneziani e
in particolare a Cicognara, sicché al giovane borsista venne concesso il
quarto anno di pensionato a Roma e una speciale gratificazione
economica. Il poco più che ventenne Hayez era comunque in grado di
selezionare oculatamente i propri referenti figurativi e calibrare
specifiche inflessioni stilistiche anche in vista di particolari
circostanze. Nell' Atleta trionfante (Roma, Accademia nazionale di S.
Luca), realizzato pressoché contemporaneamente alla tela inviata a
Venezia per il concorso del cosiddetto "Mecenate Anonimo" bandito
dall'Accademia di S. Luca, assai più esplicite sono le citazioni dalla
statuaria classica e canoviana e più aulica e ossequiosa
l'interpretazione accademica del nudo. Come era forse prevedibile, il 17
maggio del 1813 la commissione, presieduta dallo stesso Canova,
decretava vincitore del concorso il dipinto dell'Hayez, che a ventidue anni
poteva così già vantare un curriculum invidiabile.
A Roma il giovane veneziano si divideva tra un'intensa attività di
studio e gli svaghi e le frequentazioni concesse da una grande città;
egli stesso ebbe più tardi a confessare: "Dirò che chi mi vedeva allo
studio e poi in compagnia avrebbe trovato due uomini ben diversi" (Le
miememorie, p. 85). Avendo ottenuto uno studio e un alloggio presso
palazzo Venezia dal console del Regno italico Giuseppe Tambroni, il
pittore intrecciò una relazione sentimentale clandestina con la figlia
sposata del maggiordomo dell'ambasciata. In breve la cosa si seppe e
l'Hayez fu persino aggredito dal marito dell'amante. Per evitare ulteriori
scandali, Canova gli impose di lasciare la città e recarsi per qualche
tempo a Firenze. Ma la lungimirante strategia di promozione concertata
dallo scultore e dal conte Cicognara non tardò a ottenere un nuovo e
prestigioso incarico per il loro protetto. Il 17 marzo 1814, mentre era
ancora in Toscana, l'Hayez ricevette la lettera di Giuseppe Zurlo, il
ministro del re di Napoli Gioacchino Murat che gli commissionava un
quadro di dimensioni, soggetto e prezzo da determinarsi a discrezione di
Cicognara, e gli accordava altresì per un anno un assegno di 50 scudi
romani mensili. Rientrato subito a Roma col permesso di Canova e dietro
suo suggerimento, il pittore si rimetteva a lavoro su una composizione
già concepita e avviata prima della sua repentina partenza per Firenze:
l' Ulisse alla corte di Alcinoo. La grande tela non era stata ancora
condotta a termine quando sul trono di Napoli tornarono i Borboni:
Ferdinando IV (dal dicembre 1816 I delle Due Sicilie) sospese il
pagamento dell'assegno mensile accordatogli ma accettò comunque di
acquistare il dipinto per il palazzo reale di Capodimonte, dove infatti
il quadro venne spedito nel 1816 e dove è tuttora conservato.
In questo stesso periodo, intanto, l'Hayez aveva cominciato a frequentare
la casa della famiglia Scaccia, dove conobbe Vincenza, sua futura
moglie. Grazie ai proventi della commissione napoletana e a quelli del
nuovo incarico procuratogli ancora da Canova per l'esecuzione di una
serie di lunette ad affresco nel corridoio Chiaramonti dei Musei
Vaticani, l'artista poteva allora disporre di quel tanto di sicurezza
economica che gli permettesse di sposarsi. Le nozze vennero celebrate il
13 aprile 1817 nella parrocchia di S. Maria in Via; ma già nel giugno
seguente la coppia lasciava la città per recarsi a Venezia, dove il
pittore era stato convocato dal conte Cicognara per partecipare alla
realizzazione di un complesso gruppo di opere di cui le province venete
avrebbero dovuto fare omaggio all'imperatrice Carolina Augusta di
Baviera, neo sposa (quarta) dell'imperatore Francesco I. Il quadro
commissionato per l'occasione all'Hayez, e oggi disperso, rappresentava la
Pietà di Ezechia e venne presentato al pubblico nelle sale
dell'Accademia insieme con gli altri doni. Ma già nell'estate del 1817
il presidente dell'Accademia aveva orgogliosamente fatto esporre il
Ritratto della famiglia Cicognara (Venezia, collezione privata: Mazzocca,
1994, p. 52), che l'artista aveva appena consegnato al proprio mentore e
protettore. A Venezia i coniugi Hayez andarono a vivere in un primo
momento in casa degli zii Binasco, per trasferirsi poi presso la sorella
del pittore, in previsione di un temporaneo soggiorno prima di rientrare
a Roma. Benché le condizioni economiche della coppia non fossero affatto
precarie - l'artista aveva accolto presso di sé anche il padre Giovanni
- l'Hayez non disdegnò la proposta dell'amico Giuseppe Borsato, professore
di ornato all'Accademia, che gli offrì di collaborare in una serie di
imprese decorative per case e palazzi tra Venezia e Padova. Questa
alacre e redditizia attività tenne impegnato il pittore per quasi tre
anni, ma egli stesso avrebbe dovuto poi prendere coscienza del fatto che
"quel lavoro era tale da non rendermi contento perché essendo di sola
decorazione non potevo fare quegli studi necessari per avanzare
nell'arte" (Le mie memorie, p. 113). Cominciò allora ad applicarsi per
proprio conto a una nuova impegnativa composizione di soggetto storico,
che avrebbe segnato una svolta decisiva non solo nella sua carriera, ma
anche, più in generale, nella pittura italiana di quegli anni: il Pietro
Rossi (Torino, collezione privata: Mazzocca, 1994, p. 54). In una
lettera del 10 agosto 1818 l'Hayez comunicava infatti a Canova le difficoltà e
le proprie esitazioni nell'emanciparsi dai limiti del convenzionalismo
neoclassico per attingere una più emotiva e immediata aderenza narrativa
e drammatica, ciò che egli riteneva di poter riscoprire nei "primitivi"
veneti, in Bellini, Cima, Carpaccio.
Mentre era ancora impegnato nella sua nuova impresa, l'Hayez si recò a
Milano, dove, grazie al vecchio amico Palagi, venne introdotto e
favorevolmente accolto negli ambienti intellettuali della città, dove
ebbe modo di conoscere, tra gli altri, Alessandro Manzoni, Tommaso
Grossi, Ermes Visconti e altri alfieri della nuova corrente romantica, e
dove, soprattutto, poté entrare in contatto con una committenza assai
più interessata a un nuovo genere di pittura di quanto non fosse
possibile a Venezia. Il segretario dell'Accademia di Brera, Ignazio
Fumagalli, si adoperò perché potesse esporre il Pietro Rossi, che
infatti venne presentato al pubblico all'esposizione braidense
nell'estate del 1820, riscuotendo un enorme successo, e salutato
addirittura come il manifesto della nuova pittura romantica. A ciò
contribuì senz'altro la novità dello stile, ma non meno la particolare
interpretazione del soggetto tratto dalla storia nazionale, che poteva
facilmente caricarsi di valenze politiche, civili e morali nel clima
patriottico di quegli anni che vedeva accendersi i primi moti
insurrezionali carbonari.
La fortunata accoglienza suscitata dall'opera procurò subito al pittore
veneziano nuove commissioni da parte dell'aristocrazia milanese di
orientamenti liberali. Per il conte Francesco Teodoro Arese Lucini, che
di lì a poco sarebbe stato arrestato e condotto allo Spielberg, l'Hayez
realizzò un soggetto esplicitamente desunto dall'ultima scena del
Conte
di Carmagnola di Manzoni. Il dipinto, perduto durante i bombardamenti di
Montecassino, fu esposto a Brera nel 1821 guadagnando all'autore non
solo la stima dello stesso Manzoni, ma anche le simpatie di un pubblico
pronto a riconoscervi un chiaro riferimento alla drammatica attualità
delle vicende politiche italiane.
Ormai consacrato campione della nuova pittura di storia "impegnata",
l'artista volle confrontarsi nel 1822 con un altro tema patriottico che
avrebbe avuto larga fortuna in seguito, e sul quale egli stesso sarebbe
poi tornato: I Vespri siciliani (Torino, collezione privata: ibid., p.
149), opera eloquente per l'accentuazione di una gestualità "patetica" e
concitata e per il recupero del colorismo "drammatico" della tradizione
veneta e tizianesca.
D'altra parte, in risposta ai rilievi di quei critici che biasimavano
l'abbandono di una misura classica e monumentale, l'Hayez tornò pure a
cimentarsi col soggetto statuario del nudo eroico e all'esposizione
milanese del 1822 esibì anche la grande tela del suo titanico Aiace d'Oileo
(Brescia, collezione privata: ibid., p. 58), tour de force anatomico e
nello stesso tempo omaggio alla colossale statua di identico soggetto
realizzata da Canova dieci anni prima.
Nello stesso 1822 il pittore era stato intanto chiamato a sostituire
Luigi Sabatelli sulla cattedra di pittura all'Accademia di Brera e aveva
preso alloggio, presso l'amico incisore Michele Bisi, a Milano, dove si
sarebbe trasferito definitivamente l'anno successivo, trovandovi ormai
un ambiente e un mercato molto più ricettivo di quello veneziano.
Anche il progetto di rientrare prima o poi a Roma doveva sembrare allora
più remoto, tanto più dopo la morte di Canova. Non mancarono neppure
commissioni pubbliche di maggior prestigio, quando nel 1823 venne
chiamato, insieme con Palagi, a terminare gli affreschi allegorici
lasciati incompiuti da Appiani nella sala della Lanterna in palazzo
reale (oggi perduti).
A questo primo periodo del soggiorno milanese, segnato dal successo e
dal prestigio professionale, e che le memorie stesse ricordano come "il
più bel momento" della carriera dell'artista (p. 140), risalgono alcuni
dei capolavori che segnano i raggiungimenti della prima maturità e
annunciano le linee di sviluppo della successiva produzione, secondo le
tematiche e i generi più congeniali al pittore e più cari alla sua
committenza. Nel 1823, per il noto collezionista Giambattista Sommariva,
l'Hayez realizzò una grande tela con L'ultimo bacio di Giulietta e Romeo (Tremezzo,
Como, villa Carlotta), interpretazione tipicamente romantica del
soggetto shakespeariano, che insiste, da una parte, su un'attenta e
"filologica" ricostruzione d'ambiente e, dall'altra, sul motivo
espressivo e patetico dell'addio degli amanti nell'imminenza della
tragedia.
Questi elementi ritornano anche in altri grandi quadri di soggetto
storico-letterario, come il Fiesco si congeda dalla moglie, del 1826
(Novi Ligure, collezione privata: Mazzocca, 1994, p. 175), desunto dalla
Congiura dei Fieschi di Friedrich Schiller; o la gremita e "veronesiana"
composizione della Maria Stuarda nel momento che sale al patibolo
(Milano, collezione privata: ibid., p. 64), entusiasticamente accolta
all'esposizione braidense del 1827 e pure più o meno direttamente
ispirata all'omonimo dramma schilleriano; o ancora il pressoché
contemporaneo La congiura dei Lampugnani (Milano, Accademia di Brera),
terminato nel 1829, episodio tratto dalle Istorie di Niccolò Machiavelli
e già trasposto in tragedia da Alessandro Verri nella Congiura di Cola
Montano.
Anche sul versante meno "impegnato" della sua produzione, l'Hayez
licenziava in questo giro d'anni saggi preziosi di una ricerca tecnica e
formale di grande virtuoso. È il caso della celebre Maddalena pentita
(collezione privata: ibid., p. 59) dipinta per il barone Giacomo Ciani
nel 1825, che si misura con l'autorevole precedente canoviano ma
mobilita, nel "paragone", una complessa rete di riferimenti alla
tradizione pittorica più squisitamente sensuale del nudo femminile, da
Tiziano a Francesco Furini, e rivaleggia piuttosto con le odalische di
Ingres. Sempre col maestro francese sembra infatti sollecitare il
confronto anche l'altro nudo a grandezza naturale, la Venere che scherza
con due colombe (Trento, Cassa di risparmio di Trento e Rovereto), che
l'Hayez espose a Brera qualche anno dopo, nel 1830, suscitando scalpore per
l'ostentato realismo "analitico" che trasforma il pretesto classico
dell'Afrodite Callipigia in un pezzo di bravura sulle qualità plastiche,
luministiche e materiche dell'opulenta bellezza muliebre della modella,
la ballerina Carlotta Chabert.
L'altro genere per cui la pittura dell'Hayez era assai richiesta in questi
anni milanesi è quello del ritratto, ambito nel quale l'artista
raggiunge risultati altrettanto notevoli, sperimentando soluzioni
inedite e persino ardite, con una casistica che va dalla citazione
aulica e antiquariale, tintorettesca, nel Ritratto di Francesco Peloso
del 1824 (Genova, collezione privata: ibid, p. 69), al severo, spoglio
realismo davidiano del Ritratto del conte Arese in carcere del 1828
(Milano, collezione privata: ibid., p. 68); dall'inconsueta iconografia
dell' Autoritratto con gruppo di amici del 1827 (Milano, collezione
privata: ibid., p. 70) - o di quello, di poco posteriore, con una tigre
e un leone, del Museo Poldi Pezzoli di Milano - alla più immediata e
quasi "domestica" redazione del Ritratto di Carolina Zucchi (1825:
Torino, Civica Galleria d'arte moderna), la giovane che il pittore aveva
conosciuto appena giunto a Milano ed era già allora nota come "la
Fornarina dell'Hayez".
Rientrato Sabatelli da Firenze nel 1825, l'Hayez fu costretto a lasciare lo
studio di cui aveva usufruito all'Accademia per trasferirsi in altra
sede, che fissò nel 1829 in un ex monastero di proprietà della famiglia Repossi, dove continuò a lavorare fino al 1864. Qui, tra la fine del
terzo e l'inizio del quarto decennio, portava a compimento due opere
capitali con cui si inaugurava una nuova fase della sua carriera di
pittore di storia.
Il primo, Pietro l'Eremita predica la crociata (Milano, collezione
privata: ibid., p. 74), gli era stato commissionato dal già citato
collezionista genovese Francesco Peloso e rappresentava un episodio reso
attuale dalla recente edizione della Storia delle crociate di Joseph-François Michaud, nonché dal poema di Tommaso Grossi,
I Lombardi
alla prima crociata, pubblicato appena nel 1826. Quando la cruda e poco
convenzionale interpretazione datane dal pittore venne presentata
all'Accademia nel 1829, il successo di pubblico fu generale; ma la
critica restò divisa tra conservatori e fautori romantici, cui non
sfuggì il significato politico, questa volta di respiro "nazionale", del
soggetto messo in scena, che non per caso si guadagnò subito l'adesione
di un osservatore come Stendhal e, ancora a più di dieci anni di
distanza, quella non meno entusiastica di Giuseppe Mazzini.
Anche più dichiarata era l'allusione all'attualità nell'altro celebre
dipinto realizzato nel 1831 per il conte Paolo Tosio: I profughi di Parga (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo).
La scelta del soggetto fu dello stesso Hayez, poiché "rappresentava
sentimenti patrii che ben s'attagliavano alla nostra condizione" (Le mie
memorie, p. 145) e poiché si poteva evidentemente contare sull'effetto
che avrebbe fatto sul pubblico, "ché in quell'epoca le sventure della
Grecia destavano la simpatia generale e l'indignazione per chi l'aveva
ceduta al famigerato Bascià di Janina, contro il diritto delle genti"
(ibid., p. 168). L'importanza che l'autore stesso annetteva a
quest'opera lo spinse a una lunga e puntigliosa preparazione filologica
circa l'ambientazione, i costumi e persino la topografia, così come a
una più composta impaginazione, anche perché il sentimento elegiaco di
commossa partecipazione non poteva qui affidarsi alla spiritata presenza
di un "protagonista", che era invece il nucleo generatore del più
dinamico Pietro l'Eremita.
Se la pittura di storia imponeva scrupolose ricerche preliminari e la
sfida di notevoli vincoli compositivi, quale la leggibilità nelle
affollate scene di massa - problema più volte ripreso e ulteriormente
sviluppato, nel 1835, in un quadro come Il papa Urbano II sulla piazza
di Clermont predica la crociata (ubicazione ignota: Mazzocca, 1994, p.
244) - l'Hayez continuava nondimeno a dedicarsi contemporaneamente anche a
soggetti, almeno apparentemente, più accessibili e non meno fortunati.
In particolare i temi di ispirazione biblica, in specie
vetero-testamentaria, che egli cominciò a frequentare più assiduamente
in questi anni, gli permettevano di trattare con una certa libertà,
persino pretestuosa, il motivo prediletto del nudo, fermamente
considerato, secondo un dettato classico cui l'Hayez tenne sempre fede, "la
cosa più difficile dell'arte" (Le mie memorie, p. 171).
Tra il 1833 e il 1834 si collocano dipinti come la Maddalena della
Galleria d'arte moderna di Milano, il Loth e le figlie e la
Betsabea al
bagno (entrambi in collezioni private: Mazzocca, 1994, pp. 86 s.), che
sono altrettanti esempi di esercizi d'equilibrio tra fedeltà al vero,
eleganza formale e confronto con la tradizione. Di qui, e per
concessione a un certo gusto esotico montante, discendono le varie
odalische che ricorrono poi nel catalogo hayeziano degli anni
successivi, e tra le quali spicca quella della Pinacoteca di Brera,
databile al 1839.
Nel 1836 l'artista ricevette dal principe Klemens von Metternich
l'incarico di preparare una composizione allegorica da realizzare ad
affresco nel soffitto del salone delle Cariatidi, in palazzo reale a
Milano, per celebrare l'incoronazione regia dell'imperatore Ferdinando I
d'Austria. Consultatosi con l'amico Andrea Maffei, che gli fornì
suggerimenti circa l'iconografia dell'allegoria, e terminati i disegni
preparatori, l'Hayez presentò il suo lavoro al governatore di Milano, il
conte Franz Hartig, quindi partì per Vienna per sottoporre il suo
progetto a Metternich e conferire direttamente con l'imperatore.
Fece tappa prima a Venezia, per incontrare il viceré del Lombardo
Veneto, l'arciduca Ranieri, e poi a Lubiana, dove fece visita a Johann
Joseph Radetzky. A Vienna fu presentato da Metternich all'imperatore e
al principe Ludovico, quindi poté esporre i suoi disegni al ministro
dell'Interno, il conte Franz Anton von Kolowrat, dal quale avrebbe
ricevuto il definitivo benestare. Dopo la lunga trafila burocratica il
pittore ebbe poi modo di visitare l'Accademia di Vienna e vari studi di
pittori e scultori. Nel viaggio di ritorno sostò infine anche a Monaco,
dove l'architetto Leo von Klenze fece gli onori della città e lo
accompagnò a incontrare molti protagonisti della scena artistica
monacense, come Ludwig Schwantler, i fratelli Hess, Peter Cornelius,
Julius Schnorr, alcuni dei quali l'Hayez ritrovava dopo molti anni, dai
tempi del giovanile soggiorno romano.
Rientrato a Milano, l'Hayez mise mano agli studi preparatori per l'impresa
della sala delle Cariatidi, realizzò il cartone, gli abbozzi necessari;
ma prima di cominciare l'affresco dovette attendere la definitiva
conferma della commissione, che tardò ad arrivare, sicché tutto il
lavoro, come l'Hayez stesso ricorda nelle memorie, dovette essere
realizzato nello spazio di tre mesi e il dipinto vero e proprio condotto
a termine in quaranta giorni, onde la decorazione potesse essere pronta
per la data della cerimonia di incoronazione. La sala con il nuovo
affresco, l'Allegoria dell'ordine politico di Ferdinando I, distrutto
nel 1943, venne inaugurata nel settembre del 1838. In quella stessa
occasione l'imperatore visitò pure l'esposizione di Brera, dove
figuravano diverse opere dell'Hayez, che furono assai apprezzate e
guadagnarono infatti all'artista due nuove prestigiose commissioni, da
parte dello stesso Ferdinando e del ministro Kolowrat, con libertà di
decidere il soggetto dei dipinti purché fosse tratto dalla storia
veneta. Nel 1840 i due quadri vennero esposti a Brera e quindi stimati
da un'apposita commissione accademica prima di essere inviati a Vienna.
Il dipinto per Kolowrat, oggi perduto, raffigurava Vettor Pisani
liberato dal carcere, soggetto ripreso poi in una versione assai più
tarda; l'altro, maggiore, acquistato dall'imperatore e collocato nella
galleria del Belvedere con grandissimo plauso degli artisti viennesi,
rappresentava invece L'ultimo abboccamento di Iacopo Foscari con la
propria famiglia (oggi in collezione privata milanese: Mazzocca, 1994,
p. 88). Qui l'Hayez rimetteva in scena, e l'impianto teatrale forse non era
casuale, il dramma tipicamente romantico reso popolare da George Byron e
di lì a poco celebrato ancora da Giuseppe Verdi, episodio che gli
permetteva di tornare al motivo più volte affrontato del conflitto,
intimo e solenne a un tempo, tra gli affetti familiari e la ragion di
Stato; pur senza, come è ovvio in questo caso, scoperte allusioni di
carattere rivoluzionario.
Sul medesimo tema dei Due Foscari l'artista sarebbe poi tornato
nuovamente, nella grande tela di Brera, del 1844, e in quella più
modesta di palazzo Pitti a Firenze, di dieci anni più tarda. Ma il
dipinto del 1840 si distingue soprattutto per una nuova e più ricercata
analisi luministica e cromatica, che troverà esiti notevoli nelle opere
del quinto e sesto decennio.
Ciò è particolarmente evidente nelle due versioni della cosiddetta
Malinconia, quella braidense, cominciata a Roma nell'autunno del 1840 e
terminata a Milano l'anno dopo, e l'altra, più suggestiva, di poco
posteriore, in collezione privata milanese (ibid., p. 99), nelle quali
l'Hayez recupera il classicismo cromatico del giovane Tiziano e indugia su
sofisticati effetti di luce che si richiamano a Gian Girolamo Savoldo e
a Paolo Veronese. A questo stesso taglio compositivo e alle medesime
preoccupazioni stilistiche e formali rimanda pure la serie,
tipologicamente omogenea, delle eroine bibliche, dalla Tamar di Giuda
del 1847 (Varese, Musei civici), alla Rebecca del 1848 (Milano,
Accademia di Brera), fino alla provocante Ruth, presentata
all'Esposizione di belle arti di Bologna del 1853: tutte figure che
gareggiano idealmente con le bellezze muliebri a mezzo busto, più o meno
discinte, di un Tiziano o di un Palma il Vecchio, anche se non mancano
riferimenti al realismo della scultura contemporanea, da Lorenzo
Bartolini a Vincenzo Vela. A questo gruppo si può infine accostare, per
qualità, la solenne, meditabonda compostezza della Ciociara, dipinta
probabilmente a Roma nel 1842 (Bergamo, collezione privata: ibid., p.
94) facendo omaggio a un genere allora assai fortunato presso i pittori
stranieri, ma con una concentrazione e monumentalità che conferisce
all'immagine una forza simbolica forse non esente da qualche richiamo
ideologico e patriottico, nel sobrio accordo cromatico sui colori della
bandiera nazionale (Maestà di Roma, p. 218). Simili allusioni si fanno
più scoperte, dopo il crinale drammatico del 1848, nella figura della
Meditazione, eseguita nel 1850 per l'amico Andrea Maffei, in realtà
personificazione allegorica dell'Italia che riflette sulle sue
sfortunate vicende, come conferma il titolo visibile sul volume tenuto
in mano dalla donna: "[Sto]ria d'Italia". Non a caso nella splendida
replica del dipinto realizzata l'anno dopo (Verona, Galleria d'arte
moderna) l'Hayez aggiunse, al più serrato rigore formale e alla più
raffinata e inquietante partitura luministica ed espressiva, anche
l'immagine della croce su cui sono iscritte le date delle Cinque
giornate di Milano.
Il quinto e il sesto decennio del secolo contano nuovi, significativi
raggiungimenti anche nell'ambito della pittura di più ampio respiro
compositivo, nonché, naturalmente, nel genere costantemente frequentato
del ritratto. Le tappe fondamentali di questo periodo sono segnate, a
giudizio dello stesso Hayez, dall' Incontro di Giacobbe ed Esaù, del 1844,
oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, e dal molto più
complesso e ambizioso La sete dei crociati sotto Gerusalemme. Il
grandioso telero, cominciato di propria iniziativa dall'artista già nel
1835 e commissionatogli in corso d'opera dal re di Sardegna Carlo
Alberto nel 1838, fu inviato a Torino solo nel 1849 e collocato infine,
l'anno successivo, nella sala delle guardie del corpo, in palazzo reale,
dov'è tuttora. Nonostante la freddezza con cui l'opera venne
generalmente accolta negli ambienti torinesi, il nuovo re Vittorio
Emanuele II premiò l'artista conferendogli l'Ordine dei Ss. Maurizio e
Lazzaro. Nell'arco di tempo che sottende la lunga gestazione del quadro
torinese si colloca pure un altro celeberrimo dipinto storico: la
seconda versione dei Vespri siciliani (Roma, Galleria nazionale d'arte
moderna), che venne commissionato all'Hayez nel 1844 dal principe di
Sant'Antimo Francesco Ruffo e per la realizzazione del quale il pittore
impiegò quasi due anni, recandosi addirittura in Sicilia onde poter
ricostruire con maggiore fedeltà la scena dell'episodio.
Tra gli esempi più significativi della ritrattistica hayeziana più
matura si possono invece ricordare almeno il Ritratto di Alessandro
Manzoni del 1841, oggi a Brera; l'Autoritratto, pure nella Pinacoteca
braidense, datato 1848; il Ritratto della cantante Matilde Juva Branca
(Milano, Galleria d'arte moderna) e quello di Gian Giacomo Poldi Pezzoli,
nell'omonimo Museo milanese, entrambi di un decennio più tardi; o ancora
il Ritratto di Antonio Rosmini, a Brera, del 1853-56.
Dagli anni Cinquanta in poi si moltiplicarono per il pittore gli
incarichi accademici e i riconoscimenti ufficiali.
Il 10 agosto 1850, quasi sessantenne, ottenne la cattedra di pittura
all'Accademia milanese, in sostituzione del defunto Luigi Sabatelli, di
cui era stato a lungo supplente, anche se già due anni dopo veniva
maturando il proposito, caldeggiato dall'amico Maffei, di lasciare
l'insegnamento. Nel maggio del 1852 era a Vienna, per consegnare un
ritratto, oggi non rintracciabile, all'imperatore Francesco Giuseppe,
dal quale veniva insignito dell'Ordine della Croce di ferro. Nel 1860
riceveva la nomina a professore onorario dell'Accademia di belle arti di
Bologna, mentre nello stesso anno Massimo d'Azeglio gli affidava la
presidenza di quella milanese in sua rappresentanza.
Sul versante della produzione artistica, tra le opere della tarda
maturità bisognerà ricordare, intorno a questi anni, l'impegnativa
commissione pubblica del Martirio di s. Bartolomeo, terminato nel 1856
per la chiesa di Castenedolo (Brescia) intitolata al santo, e
soprattutto il Bacio della Pinacoteca di Brera, probabilmente il dipinto
più popolare dell'Hayez.
Il quadro, eseguito per il conte Alfonso Maria Visconti di Saliceto e
presentato a Milano nel 1859, sintetizza sintomaticamente gli elementi
più caratteristici e immediatamente accessibili della pittura hayeziana:
ambientazione gotico-rinascimentale, rappresentazione degli affetti,
ponderata eleganza del disegno, assoluto magistero nella resa delle
superfici. Inoltre, qui il motivo più volte trattato per il tramite di
un particolare soggetto storico o letterario si libera di ogni contesto
aneddotico o narrativo, né l'essenzialità dell'immagine, che sembra
richiamarsi a intonazioni preraffaellite, ci dice se si tratti di un
bacio d'addio o di un incontro, assumendo così una valenza simbolica ed
emblematica che ne favorì la fortunata ricezione. Del dipinto esistono
infatti varie repliche, una delle quali fu inviata dall'artista
all'Esposizione universale di Parigi nel 1867 dove fu accolta assai
favorevolmente, forse anche per le latenti allusioni patriottiche, che
si son volute leggere nell'araldica scelta dei colori, all'alleanza
italo-francese, all'indomani dell'entrata a Milano di Vittorio Emanuele
II e Napoleone III.
Nel 1861 l'anziano pittore, deciso a non intraprendere più lavori di
gran mole, lasciava il grande studio di Brera e ne donava il corredo
artistico all'Accademia. Alla stessa istituzione fece poi omaggio, nel
novembre 1867, del dipinto Gli ultimi momenti del doge Marin Faliero,
mentre contemporaneamente, e con gesto simbolico, inviava all'altra
Accademia donde la sua carriera aveva preso le mosse, quella veneziana,
La distruzione del tempio di Gerusalemme, che, insieme appunto con il
Marin Faliero, costituisce il testamento dell'Hayez pittore di storia.
Già dalla metà del settimo decennio l'artista aveva cominciato a
dedicarsi soltanto a opere meno impegnative, soprattutto alla
ritrattistica, dalla quale uscivano comunque ancora dei capolavori come
i ritratti, entrambi a Brera, di Massimo d'Azeglio, del 1864, e di
Gioacchino Rossini, realizzato nel 1870, dopo la morte del musicista.
In seguito alla morte della moglie Vincenza, avvenuta nel 1869, l'Hayez
trascorse gli ultimi anni accanto ad Angela Rossi, la giovane che egli
aveva adottato nel 1873. Nel 1880, dopo essere stato nominato professore
onorario di pittura dell'Accademia di belle arti di Milano, il 9 gennaio
si ritirò definitivamente dal servizio effettivo.
L'Hayez morì a Milano il 12 febbraio 1882.
Michele Di Monte - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 61
(2004) -
treccani.it
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