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Pisa, 03/03/1879 - 01/01/1950
Ferruccio Pizzanelli frequentò la scuola d'Arte di Lucca e poi
l'Accademia di Belle Arti Firenze, dove si diplomò orientandosi
principalmente verso le arti applicate. Questa propensione lo portò nei
primissimi anni del Novecento a dedicarsi intensamente alla lavorazione
artistica del cuoio. Vinto poi nel 1906 a Milano, nella prestigiosa
Esposizione del Sempione, il gran premio nel settore dei cuoi lavorati
(d'ardita lavorazione a graffio e sbalzo), l'anno dopo l'artista decise
di stabilirsi nella capitale lombarda, divenendo direttore della
"Società Italiana dei Cuoi Decorati". Nel 1908 l'artista vinse premi ad
importanti mostre a Torino e a Bruxelles; poco dopo partecipò a quelle
di Torino, ancora, e di Roma.
Nel 1913 Pizzanelli fece ritorno a Pisa, dove cominciò ad esporre anche
quadri, con una rinnovata sensibilità per le sperimentazioni figurative
che certo beneficiò di un suo lungo soggiorno a Torre del Lago
(1916-1924), dove ebbe modo di conoscere l'ambiente artistico versiliese
e pucciniano (Viani, Pea, Levy?), traendone partito per un affinamento
dei suoi interessi pittorici, che fino ad allora erano stati meno
approfonditi. Nel 1916, partecipando a Pisa ad una mostra "Pro mutilati
di guerra", esibì allora la sua abilità nel fare buon uso di uno
svariato sistema di tecniche artistiche, dal momento che accanto ai
consueti cuoi presentò alcune xilografie e diverse tele e pastelli
"oltremodo suggestivi per un senso di mistero che vi aleggia", che
dimostravano una flessione su temi simbolisti e densi di riecheggiamenti
lirici e sentimentali che risentivano di Nomellini, che ne facevano,
così la critica, "il poeta della notte e delle solitudini".
Furono quelli per Pizzanelli anni segnati da numerose partecipazioni
espositive (Viareggio, Firenze, Torino, Livorno, Roma, Buenos Aires),
dove egli, pur non disdegnando la riproposizione dei cuoi, cominciò
ormai definitivamente ad imporsi in campo pittorico. A partire dagli
anni Venti, la sua pittura venne esplicitamente riletta come articolata
in una originale rilettura di Cezanne, ma con un fare "meno rude e più
equilibrato", che talvolta, per quel tono intimista e malinconico che
spesso faceva da basso continuo alle sue composizioni, lo fecero
definire come un "bizzarro impressionista".
Negli anni successivi Pizzanelli diventò uno dei protagonisti assoluti
dell'ambiente culturale di Pisa negli anni del fascismo, organizzando
mostre - sue e di altri - partecipando assiduamente alle Sindacali,
insegnando pittura ad un cospicuo drappello di estimatori ("maestro di
una intera generazione di pittori cittadini") dedicandosi con buoni
risultati anche alla pittura su parete (Facoltà di Agraria
dell'Università, sede della milizia Fascista, Palazzo della Provincia),
nel segno di una sperimentazione tecnica inesausta e ricca di risultati.
A partire dagli anni Trenta Pizzanelli, pur continuando ad esporre in
tutta Italia (Viareggio, Napoli, Venezia, Firenze?) scelse Pisa come
principale teatro della propria attività, proponendo una pittura che
incontrò i favori del pubblico per quella sua vena accostante ed
intimista che talvolta si volle genericamente interpretare come
"poetica", fatta do paesaggi luminosi e sospesi, ma con una vena
malinconica e pensosa, che facevano da contraltare, sebbene lui convinto
fascista, alle certezze gridate del Ventennio. Il tutto poi alternato a
nature morte dal forte valore plastico, e da volti solenni e
inesorabili. Le sue nature morte, bellissime, si sviluppavano in una
saldezza plastica che le faceva parenti di certe di Oscar Ghiglia.
La sua fu una pittura di tono figurativo sostanzialmente estranea alle
avanguardie, ma dove si espresse un gusto raffinato per la personale
rielaborazione della pittura di Levy e Chini, non distante dai risultati
del gruppo dei pittori del Novecento. Fu allora un artista vero
Pizzanelli e, a detta di chi lo conobbe, uomo dignitoso e altrettanto
onesto. "Morto piuttosto povero perché troppo poeticamente,
distrattamente e disinteressatamente artista": così Astianatte disse di
lui. E fu epigrafe dolce e beneaugurante, senza l'ambiguo sentimento
dell'affetto complice e interessato, ma con la parola fiera che si
doveva a chi se l'era ben meritata. E noi alla pronuncia di quella ci
aggiungiamo.
(ferrucciopizzanelli.it) |
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