Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte, 1925-26)
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ODOARDO BORRANI

 
Nella schiera de' cosidetti "macchiaioli», Odoardo Borravi sta col fattori, l'Abbati e il Sernesi; intendo, che la sua arte, destinata a finire su un piano assai diverso, nasce e vigoreggia da principi e modi assai vicini a quelli della loro arte. Fu osservato giustamente (Cecioni), che per grandezza di stile l'Abbati e il Sernesi mostravano di poter almeno agguagliare il Fattori; non avesse un destino severo, poco oltre l'inizio, spezzato il loro cammino. Lega, la maggior figura dopo il Fattori, appartiene a un'altra sorta di pittura. E Signorini, a un ordine più vario, culturale e, forse, meno autentico. Di quei primi quattro, soltanto il Borrani condivide col Fattori il privilegio d'una carriera lunga e laboriosa. E serba un gusto ingenuo, anche quando, dopo i begli anni, la sua maniera divien saltuaria, s'avvolge in ricerche chiaroscurali, o insiste all'eccesso nella definizione disegnativa. Nato nel 1834 a Pisa, che là temporaneamente si trovava la sua famiglia, a sei anni il Borrani venne portato a Firenze, di dov'erano i suoi; e presto cominciò ad armeggiare coi pennelli del padre ch'esercitava la pittura; finché lo misero a studio da Gaetano Bianchi. Legatosi d'amicizia col Signorini. che allora si faceva la mano disegnando litografie di paesaggio del Calame (Cecioni), con lui prese a dipinger dal vero. Dopo il Bianchi, ebbe a maestri il Bezzuoli e il Pollastrini; ma la sua attività più personale comincia al ritorno dalla campagna del '59, col ritiro nella alpestre solitudine di San Marcello, insieme al Sernesi.
 
Del carattere, delle abitudini di lavoro, etc.. hanno lasciato bastevole testimonianza il Cecioni, il Signorini e la Franchi; sia per quanto riguarda i rumorosi anni giovanili, con le discussioni e le burle al Caffè Michelangiolo; sia per raccoglimento nel quale egli declinò e in fine si spense, oscuramente, a Firenze nel 1905. Non gli erano mancati, in esposizioni e vendite, modesti successi; ma l'avvertimento pratico che nella sua vita ha più risalto, è il disastro della « galleria d'arte moderna » che, in società col Lega, egli tentò d'avviare a palazzo Terroni, in piazza Santa Trinità, dove un tempo risiedette il Gabinetto Vieusseux. Ho qui fra mano tre taccuini dell'artista (appartenenti alla collezione di Mario Galli, Firenze), da assegnarsi, il primo, agli anni 1858-59, e il secondo a intorno il 1867; mentre il terzo contiene disegni, più elaborati, eseguiti e datati a Roma, Rimini, Firenze e San Rossore, fra il 1883 e il 1887. Vi si legge, in compendio, quasi tutta la storia del Borrani. Non dico, principalmente, in quegli appunti di piccoli debiti, crediti e cambialette; misure di telai; o recapiti di donne: Elena (Trotto dell'Asino, 2" P., n. 4236), Rosa, Blandina, Filomena, etc., che auguriamoci non sien state tutte donne profane. E, neppure, nei ricordi patriottici di quando, nel '59, egli si arruolò, insieme agli amici, volontario in artiglieria: un itinerario da Firenze ad Asola; un elenco di morti sul campo; il minuzioso tocco in penna d'un Cassone per pezzo da 6, e qualche schizzo di vita militare; un: Maestà, liberi questa povera Italia (28 maggio 1859), e un: Alma terra natia, la vita che mi desti ecco ti rendo, trascritti a mo' d'epigrafe nel mezzo di due paginette bianche. E se cercassimo qualcosa da rammentarci il Borrani professore d'Accademia, e privato, e pittor di ceramiche alla manifattura di Doccia: ecco, nel terzo libretto, il grazioso ritratto d'una scolarina dall'aria forestiera (pag. 660), ed ecco moduli d'ornamentazione alla Poccetti; puttini barocchi; Giuno col pavone; e Veneri, (presumibilmente) eretta in un'assemblea di belve e nell'atto di spremersi le turgide mammelle: motivi racimolati qua e là, e tenuti in serbo per metterli in centro d'un vassoio, o sulla pancia d'un vaso da fiori. Ma sono i documenti d'un'altra storia, che sopratutto c'importano.
È un peccato che, a questi documenti, non possa aggiungersi qualche studio di quelli che, a memoria del Cecioni, il giovane Borrani, per consiglio del Bianchi, condusse nel Chiostro Verde sugli affreschi di Paolo Uccello; poi nel Cappellone degli Spagnuoli e nel coro del Ghirlandajo; e, in fine, sugli affreschi di Giotto, in Santa Croce. Di tali disegni d'esordio non è traccia nella cartella del Borrani, presso lo stesso collezionista Galli; nè tra gli studi della Madre, de' Renaioli ed altri, nella Galleria fiorentina di Arte Moderna; nè, temo, altrove. Del Sernesi soltanto, fra i "macchiaioli", conosco disegni, delicati da sembrar punte d'argento; che non si direbbero, tuttavia, « copie » da qualche classico, quanto interpretazioni d'un modello, nello spirito dell'aureo quattrocento toscano. E, tra il 1858-59, vediamo il Borravi occupato a congegnare, su estratti dalle vite di Lorenzo il Magnifico del Valori e del Roscoe, la Congiura de' Pazzi: con la quale, aiutato anche da suggerimenti del Pollastrini (Cecioni), vinse una medaglia al concorso triennale dell'Accademia di Firenze. Ma il secondo calepino mostra in pieno sviluppo le sue capacita migliori. Accenni di paese, colti nei dintorni della casetta fuori porta alla Croce, dove egli visse alcuni anni dopo il 1865, si alternano ad appunti d'interni e figure che servirono per composizioni come Le primizie, Speranze perdute, La conversazione in terrazza (pag. 662) etc. Son contadini che preparano il « segato »; la massaja col cappellone di paglia, a fianco della padrona tra i filari; donnette che chiaccherano, guardando giù da un muraglione; signore in sottana a sboffi, sulle rustiche seggiole dell'altana; e il bindolo e il porticato; e tutti i cari motivi della campagna suburbana; de' quali, negli stessi anni e gli stessi posti, s'innamorava il Lega del Passaggio del Viatico, delle Ortolane, del Bindolo e altri idilli così preziosi. Uno studietto a matita, di Vitellino che poppa, ci fa collocare in questo periodo una piccola tavola della raccolta Galli che il Borrani amò sempre in modo speciale, per la pena che gli era costata.
La condizione, estremamente scialba, e soffusa, nella quale, la più parte, son ridotti i disegni di questo taccuino, impedisce d'offrirne qualche riproduzione valida. Si Vedrebbe che il Borrani non cercava, come il Fattori, di ricostruire la forma, geometricamente, in larghi piani che aspettassero di trovar distanze, densità e gravitazioni da' toni del colore; e neppure, come il Signorini, si compiaceva di taglienti definizioni di carattere. Il suo disegno è abbastanza solido, ma bonario; soprattutto ornato d'una grazia evocativa dei luoghi e degli ambienti che basta, in pochi tratti, a far vivere una proda d'alberi, uno specchio di fiume, un casolare nella distesa de' campi. 

Più tardi (1883-87), una preoccupazione d'effetti luminosi, una insistenza di rastremature sulle quali la massa in ombra sembri accendersi nel pulviscolo del sole, invadono il disegno, e lo triturano come la pittura smarrisce unità e fusione nelle crudezze chiaroscurali, nei rastrelli di bianco e nero e negli sbattimenti del San Rossore (pag. 663), dove i giovenchi, in disparte, memori dell'Abbati, pajon ruminare sull'illangruidita virtù toscana. Una inclinazione pei risalti controluce, forse appunto perchè egli era meno solido di altri " macchiaioli " nei puri riguardi del colore, il Borrani l'aveva manifestata fin da principio, nella Raccolta del grano sull'Appennino e poi nel Grano al sole (pagg. 664 e 065). E fra i quadri storici, sia dell'epoca d'esordio, sia degli anni maturi, basti osservare come il Medioevo della Galleria fiorentina d'Arte Moderna s'incide con durezza oleografica, in violenti giuochi di sole e d'ombre. Ma quando, sull'ultimo, nella Veglia (1887) della raccolta Mannini-Parenti, e nella finissima Donna con la candela (pagina 666) , l'artista trasferisce questo gusto agli effetti di luce artificiale, si direbbe egli voglia addirittura concludere nel fiammingo, e sia pure delizioso fiammingo, il corso d'una produzione della quale deve riconoscersi tra il 1860 e il 1880 la fase più schietta.
Cercando ora d'animar questo schema troppo rigido, coll'accostarci più intimamente all'arte del Borrani, tanto è facile distinguere ciò che in essa talvolta intralcia o appanna l'unità dello stile, tanto è arduo difendersi, anche giustamente, dal suo incanto illustrativo, dalla poetica grazia che essa trova nelle « azioni » e negli abbigliamenti, da un'affettuosità che rialza quanto sembrerebbe mero e minuzioso. Pochi pittori dell'Ottocento italiano, di continuo s'impegnarono come questo in soggetti che pajono irremissibilmente dannati a tutte le limitazioni del « genere »; avendo come lui scarsi il senso della composizione e l'istinto decorativo. Ma anche quando, per es. nelle Ragazze che dipanano la matassa (Raccolta Checcucci), la « gaucherie » sovrabbonda, questa incapacità a creare un modulo decorativo che leghi la scena e lallevi del proprio slancio, queste incertezze e fratture interne, questi tremolii della mano, conferiscono alla pittura un che di più vivo e confidente. Nel nome d'un classicismo inteso spesso a occhio e croce ci vuoli poco a impancarsi contro tali ed altri difetti pressionisti e « macchiaioli », ma forse sarebbe meglio cercare se non sien difetti indispensabili a certe virtù. Innegabile un che di trito, nella Partenza del soldato, nella Convalescenza della monaca (1865) etc. ; ma ecco, frattanto, costì, l'arioso episodio della monacella che coglie garofani al coccio sull'altana.
 

 

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