Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, Milano-Roma, 1922-23)

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Lo scultore Ermenegildo Luppi

 
Il risorgimento della nostra scultura, tutti lo vedono e nessuno lo studia. Questo forse avviene perchè a nessuno o a pochissimi davvero nuovi o, meglio, che più gagliardamente sentono l'antico e in esso si rinnovano, è stato ancora commesso un pubblico monumento il quale affermi all'aperto questa loro volontà e potenza e li riveli agl'increduli e ai distratti. Siamo riusciti a farne ammettere alcuni nella Galleria nazionale d'arte moderna: il "Perdono" dell'Andreotti, la "Maternità" del Maraini, il "Torso di donna" del Minerbi. Più oltre, per ora non si va. E nelle esposizioni la confusione continua, allegra e caritatevole. Per misurare questo risorgimento, bisogna riandare con la memoria, senza affaticar gli occhi, a quello che significava scultura in Italia trenta e quarant'anni fa: ai pupi da presepio che gli Ximenes e gli Zocchi e i Biondi e i Cifariello ingrandivano col pantografo e poi chiamavano, in Italia e in America e nei Balcani, statue monUmentali. Smarriti nel verismo e in quel lungo e triste equivoco tra realtà e verità, tra verità e sincerità, in cui l'arte si confuse con la morale e gli ultimi epigoni della scultura neoclassica e dell'Accademia di San Luca, Tenerani o Tadolini, non erano criticati pel loro languore di echi, ma quasi per la loro disonestà a non voler dire e rispettare la verità, quelli scultori perdettero anche le loro qualità native e minute d'osservazione, gonfiandosi, senza stile, in opere più grandi di loro. Costantino Barbella che restò pago alle statuette di terracotta e agli aneddoti paesani, scomparve nell'ombra di quelli omoni a cavallo dei quali le gualdrappe con tutte le loro frange e fiocchi, le rotelle agli speroni con tutti i lor denti, incutono anche oggi reverenza al pubblico domenicale raccolto lì sotto ad ascoltare la banda. Eppure gli autori di questi Miracoli non valevano più di lui che si riattaccava modesto ai Sammartino, ai Mosca, ai Gori, autori svelti ed espressivi delle mille figurette dei presepi napolitani.

Firenze è la patria dei tre Zocchi, Emilio, Cesare e Arnaldo. Ma da Roma in su, in regioni cioè dove la scultura monumentale può ancora ritrovare una tradizione se non una scuola, s'incontrano ancora in quelli anni tristissimi per l'arte alcune poche statue degne anche oggi di considerazione, anzi di lode: a Milano il recluso "Napoleone terzo" del Barzaghi, a Venezia il "Goldoni" del Dal Zotto, a Bologna il "Re Vittorio Emanuele secondo" del Monteverde, ad Aquila l'"Ovidio" del Ferrari, a Firenze il "Cavour" del Rivalta, a Roma il "Garibaldi" del Gallori e il "Carlo Alberto" del Romanelli, tutti scultori usciti, per fortuna loro, da un insegnamento ancóra serio e tradizionale che contenne, almeno in queste opere, il pettegolo sgraziato disossato gesticolante verismo venuto in voga.

Nell'alta Italia però la così detta scultura pittorica o impressionistica diffuse, da Milano e d'attorno al Grandi, un contagio anche più pericoloso, disfacendo i corpi e ammaccandoli a colpi di chiaroscuro, fino alla catastrofe e a Medardo Rosso i cui schizzi colati in cera o in bronzo continuano, da venti o trent'anni, a girar l'Europa tra i disperati lamenti del loro autore che non ritrova più in nessun museo e in nessuna esposizione la luce o la mezza luce in cui aveva intravveduto la sua fetta di vero. La scultura monumentale e la scultura a tutto tondo parvero morte. Non si trovavano più a Milano o a Torino che due o tre scultori capaci di modellare in marmo con le toro mani. Ma i bisogni pratici hanno in ogni secolo salvato l'arte dai capricci e dalla decadenza. Di monumenti se ne dovevano pure erigere. E allora mentre tutte le leggi dell'architettura erano abbandonate anzi disprezzate dagli scultori, proprio in un paese dove da Niccola pisano ad Antonio Canova non s'era mai veduto uno scultore che non fosse anche architetto, anzi che non fosse o si vantasse d'essere prima architetto, si venne fatalmente a ritentare questo studio: pensare basamento e statua in un sol blocco, studiandone con continuità l'equilibrio dei pieni e dei vuoti, le sagome, il chiaroscuro. Era quello che per secoli avevano fatto tutti gli scultori. Il tentativo, sebbene le difficoltà ne fossero aggravate dall'ignoranza, come ho detto, od oblio dell'architettura, riconduceva senza volerlo la scultura alle sue origini. Nuovamente cioè la scultura all'aria aperta, la così detta grande scultura, salvava l'arte.
L'esempio più bello e più maschio di queste prove fu il bozzetto di Leonardo Bistolfi pel monumento a Garibaldi in Milano, il bozzetto che fuso in bronzo è nella Galleria milanese d'arte moderna. Naturalmente, nel concorso esso non fu prescelto, nè giureremmo che il Bistolfi avrebbe saputo mantenere al monumento eseguito la larghezza e il peso e la solennità delle masse ben piantate nel suo bozzetto. Per capire la profondità e la durata della crisi, si confrontino in Torino il monumento al conte di Cavour scolpito da Giovanni Duprè nel 1873 dove ormai le statue sono appoggiate su architetture stanche e indifferenti senza più nesso, e il monumento al principe Amedeo modellato da David Calandra nel 1902 dove ogni tradizionale forma architettonica è rifiutata e, nonostante le minuzie realistiche e il tumulto delle sculture nel basamento, l'opera cerca d'essere, piedestallo, bassirilievi, altirilievi, statua, d'un sol getto, una cosa sola. Presto da quelle ricerche d'unità in cui il Bistolfi e il Calandra con un'ostinazione poco italiana e un poco provinciale si sforzavano a restare fuori dalla tradizione e a ricreare il mondo dal caos a colpi di genio, e il genio non c'era, essi tornarono coraggiosamente a mettersi in riga: il Calandra nel 1909 col monumento bresciano a Giuseppe Zanardelli, il Bistolfi nel 1904 col monumento genovese al senatore Orsini chiamato "La croce". Ma non devo dir qui le fasi del loro ravvedimento.

Qui vorrei finalmente parlare di Ermenegildo Luppi scultore modenese; e mi scuso se per dire di lui sono partito tanto di lontano. Il fatto si è che egli venne all'arte appunto in quel torbido periodo di pentimento e di pigro risveglio. quando la scultura ritrovando sè stessa e la sua pienezza e saldezza manteneva ancora, qua e là, le scolature, le scorie, i riccioli, le schiume del suo errore veristico, del suo errore impressionistico. E queste titubanze e questi residui sono in lui più visibili che negli altri scultori, presso a poco, della sua età, lo Zanelli, il Selva, l'Andreotti, il Dazzi, il Graziosi, il Baroni, perchè egli ha avuto, pel suo carattere e pei casi della sua vita, uno sviluppo più lento degli altri, tanto che ancora, creata con la "Pietà" nel 1921 la sua scultura per adesso migliore e maggiore, non s'è liberato interamente da quei dubbi e da quei ricordi.

Nato a Modena nel 1877, condiscepolo di Giuseppe Graziosi in quell'Accademia di Belle Arti, venne a Roma nel 1901, vinto il pensionato Coletti. Aveva fatto lo stuccatore; a Pietrasanta in Lunigiana aveva fatto lo scalpellino; a Volterra aveva lavorato l'alabastro; s'era piegato, a Firenze, per gli antiquarii a modellar cose e cosuccie che dovevano parere antiche. Questa durissima vita senza riposo gli sta ancóra scritta in quelle mani da artigiano col lungo pollice che sembra disarticolato, nel volto stanco ed emaciato, incorniciato da una barbetta già brizzolata, negli occhi tondi neri piccoli, scavati ed inquieti come se aspettino sempre di vedere riapparire sulla porta il bisogno che risospingerà l'artista fuori dal suo studio in cantiere a sbozzare marmi, sui palchi a intridere e a modellare stucchi, tanti metri in una giornata. I primi mesi di tranquillità, se non d'agiatezza, gli vennero appunto quando a Roma nel 1908 gli fu affidata una parte della decorazione dell'Istituto agricolo internazionale a Villa Umberto.

Era stato a Firenze due anni, nel 1906 e nel 1907. ? Donatello m'ha salvato, ? dice ancora, ma guardò anche Michelangelo come oggi prova la sua "Pietà". Non è uno studioso, si badi; e quelli antichi li guardava con molti sospiri come il povero dalla via guarda il banchetto del favoloso epulone. Davanti alle opere degli antichi l'attenzione dei giovani artisti si atteggia variamente. V'è la superficiale snobistica attenzione dei seguaci della moda, qualunque sia la moda; e questi non vedono niente, prendono l'accento ora inglese, ora toscano, ora parigino, ora veneziano, indifferenti e infedeli, e ti si presentano come cameriere con le vesti smesse dalla padrona, male assestate sui loro corpi goffi: eppure tra gli "amatori" possono trovare chi, dilettandosi di amori ancillari, per poco li ammiri e li esalti. Sono, alla fine, i più, specie in tempi di restaurazione.

V'è poi l'attenzione meticolosa, incapace e stonata dei copiatori, tutti occhi, e può piacere per la sua umiltà: ma l'arte è ancora lontana. V'è anche l'attenzione dell'artista che domanda agli antichi d'insegnargli quanto è insegnabile del loro mestiere: alunni che potranno col tempo diventare maestri, almeno perchè Si sono accorti di questa verità lungamente trascurata, che non basta essere sinceri per essere capaci: quel che in letteratura si chiama la prosa dei professori: ma l'anima è ancora lontana. V'è infine la commossa e ardita attenzione dell'artista creatore, capace di disobbedienza, che nello specchio degli antichi cerca di discernere la propria immagine, e li adora ma non li teme, nemmeno quando s'è accorto della sua statura in confronto a quella dei giganti. Qui la lezione artistica s'eleva a lezione morale; la lezione di mestiere, a lezione di vita. "E venduto un poderetto ch'egli aveva a Settignano, di Fiorenza partiti (Brimelleseo e Donatello) a Roma si condussero: nella quale, vedendo la grandezza degli edifizi, e la perfezione de' corpi dei tempii, stava astratto che pareva fuor di sè," con quel che segue.

 

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