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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, 1926-27)
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Ardengo Soffici pittore
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Ardengo Soffici nato a Rignano sull'Arno il 7 aprile 1879, è
oggi nella maturità della quarantina. Appartiene quindi a
quella generazione che ventenne ha iniziato la propria
attività con l'avvento del novecento, e del novecento
riflette in sè tutta l'ansia di rinnovamento provatasi
attraverso le più coraggiose ed eroiche esperienze. Si può
dire anzi di lui. che di questo rinnovamento, egli è stato
uno dei pionieri e condottieri; e proprio di quelli che
hanno nobilmente pagato di persona, nell'opera dell'ingegno
e nell'azione della vita, in pace e in guerra. Sicchè ben
pochi hanno titoli pari ai suoi nell'esser considerato come
artista e come uomo tra le personalità più rappresentative
del nostro tempo.
L'elogio, se lo riporti all'operosità spiegata nel campo
della pittura, acquista un valore particolare. Perciò, a
quanti altri sono passati per il fuoco delle medesime prove
futuriste, è accaduto di non saper poi ricomporre ad unità
organicamente creativa le loro facoltà, disgregatesi in
sforzi caotici senza alcun esito positivo. Ardengo Soffici
invece nulla ha perduto o compromesso di più intimamente suo
in quel travaglio, ed uscitone immune, ha potuto riprendere
il cammino con la stessa spontaneità, onde erano stati mossi
i suoi primi passi.
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Dono di una natura sovrabbondante di risorse di fronte ad
ogni nuova corrente spirituale, o virtù di solido innato
buon senso pronto a reagire contro ogni deviazione
cerebrale? L'uno e l'altro. Vi è in Ardengo Soffici la
stessa intraprendenza e coraggio che spinge i nostri
emigranti verso i mari lontani in cerca di fortuna,
accompagnato dallo stesso attaccamento e nostalgia che li
richiama in patria a godersi nel loro angolo di terra i beni
conquistati. Così il giovane allievo dell'Accademia di Belle
Arti di Firenze partitosi per Parigi a esplorare i cenacoli
dove si fucinavano le sorti dell'arte moderna, l'amico di
Apollinaire e Picasso fattosi divulgatore in Italia della
novità più avventurosa d'oltr'alpe, il futurista alleato di
Marinetti e Papini rivelatosi il teorizzatore migliore del
movimento su la Voce, il combattente ferito e decorato
unitosi a Benito Mussolini sotto l'insegna del Fascio,
malgrado tanta irrequietudine di spirito avventuroso, non ha
mai dimenticato la sua Toscana, e il giorno nel quale si è
sentito padrone di una esperienza straordinariamente ricca
in fatto d'uomini e di eventi, invece di valersi
dell'ascendente acquistato per ottenere quella qualche
eminente e redditizia posizione ufficiale cui avrebbe pure
avuto diritto d'aspirare, si è ritirato nella solitudine
campagnola di Poggio a Cajano, silenzioso e operoso, per
raccogliere infine sulla tela il frutto migliore di sè
stesso: del sè stesso maturato al sole di sì diverse
stagioni.
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E bisogna vederlo nella sua casa fra la sua famiglia e il
suo lavoro, per intendere quanta semplice e sincera
naturalezza sia in questo gesto. Non l'ombra di un
rammarico, o di una delusione, anzi quella perfetta
soddisfazione intima, che si esprime dalla letizia riposata
degli atti e delle parole, in armonia costante con i propri
sentimenti e il proprio ambiente. Solo qualche disegno o
schizzo dalla firma famosa, ricorda la consuetudine passata
con i grandi francesi: ma lì accanto sono altre tavolette e
fogli di discepoli ancora oscuri, a richiamarci al presente:
gli uni e gli altri attaccati alla buona qua o la sulle mura
di una stanza piena di libri accatastati su palchetti alla
rinfusa: una piccola stanza ove lo scrittoio invaso dalle
carte fa sentire la continuità di un lavoro senza soste. La
casetta è tutta così: bianca e dimessa con il rustico
garbato delle case coloniche riadattate, ove ti pare ancora
di sentire il profumo sano del forno e il mugghio amico
della stalla. Per anditi e scalette si sale allo studio,
ricavato sotto le travature del tetto in locali destinati
forse un tempo a granaio. Lì sulle pareti a scialbo qualche
tela finita, sui cavalletti qualche altra in lavoro, delle
sedie, un palco per i modelli, la tavolozza, tutto come vien
viene, senza la più lontana pretesa di un abbellimento. La
bellezza sta nelle pitture che l'autore vien raccogliendo di
dove si trovano, rivoltate, per mostrarvele. E nell'apertura
del finestrone affacciato sul respiro sereno e luminoso
della campagna.
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Quella campagna vi si rivela così due volte: nella sua
realtà originaria e nella realtà lirica conferitale dal
pittore. L'accostamento è inevitabile, non per istituire dei
confronti che sarebbero un assurdo materialista; ma perchè
voi sentite veramente che la vita di essa si continua,
strappata alle contingenze dell'ora é resa durevole nella
immagine fissata sulla tela. E codesto fluire di vita tra
l'una e l'altra realtà è tanto pieno, facile, fecondo, da
farvi apparire il vero sotto le parvenze della creazione
artistica e la creazione artistica una illusione di vero;
per modo che finite quasi per fonderle ambedue in una sola:
la realtà di Soffici. Suggello del riconoscimento amorevole
tra la terra nativa e l'uomo, che i ritorni foggiano sempre
per gli spiriti sensibili a cui l'arte, nel caso nostro,
dona il modo d'imprimersi visibilmente.
Come, lo dicono le parole con le quali lo stesso Ardengo
Soffici ha accompagnato e presentato alla XV Biennale
Veneziana i quadri usciti da questo suo ultimo periodo di
lavoro, dopo, cioè, la guerra. «Da quel momento, persuaso
che il cammino della vera, autentica arte pittorica è uno,
quello che porta senza deviazioni nè giravolte, dai Greci ai
Pompeiani, da Masaccio a Goya, a Degas, a Fattori, su quel
cammino diritto tra il passato e il rituro, e che io chiamo
della sintesi realistica, intesi di mettermi, anzi di
mantenermi, ma camminando più risolutamente, secondo le mie
forze».
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Sintesi realistica, chiama egli dunque il suo particolar
modo d'espressione riconoscendone a maestri, oltre gli
antichi in genere, quattro grandissimi latini. Vi è nella
definizione ed esemplificazione la sua abituale chiarezza e
concisione incisiva. L'una completa l'altra. Riconiate al
lume delle parole sintesi realistica l'Adamo ed Eva
della Cappella del Carmine, la Maremma e il Riposo di
Fattori, per restare agli italiani, e capirne non solo quel
che Soffici ricerca, ma anche quel che ha attuato. Niente
letteratura, cioè, niente di estraneo alla pittura presa a
sè come procedimento figurativo per linee e colori: e in
questa pittura niente di estraneo, o estetizzante, o
teorico, ma solo la convenzione originaria e fatale che
linee e colori recano con sè, per ricreare su una superficie
piana delle immagini. Quel che si dice comunemente, insomma,
dipingere con sincerità come si vede, libero da tutte le
formule tecniche messe di moda dal raziocinio critico
moderno. E quanto all'idea di sintesi essa, a mio vedere, in
questa saggezza di precetto bonario come un vecchio
proverbio, ordina solo di non far minuto, e fotografico, ma
largo e costrutto.
Detto ciò è facile intendere come ben poco resti al commento
per far gustare i quadri di Ardengo Soffici. Bisognerebbe
ridescrivere le strade bianche di polvere col bianco delle
case lungo i bordi, i campi qua bruni di zolle, là verdi
d'erbe, i poggi boscosi chiazzati di tetti rossi, il nero
spicco d'un cipresso sull'argentea nebbia degli olivi, lo
svariare dei cieli afosi o lievi, cinerei o dorati, le
conversazioni delle donne sull'uscio, le cure domestiche
intorno ai bimbi e alla cucina, rievocare in una parola la
Toscana dei poderi intorno a Firenze, nella piana, laggiù,
dell'Arno verso Poggio a Cajano lungo i declivi dominati
dalla Villa Medicea. Ma a che servirebbe? Alle parole
mancherebbe proprio quel che Soffici mette di suo nella
rappresentazione pittorica: la sobria quadratura del taglio,
il rapporto giusto dei toni, la pennellata, il segno, il
respiro: lo stile.
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Stile, intendiamoci bene, non stilizzazione: vale a dire
omogeneità e coerenza di visione tradotta sulla tela senza
deformazioni volute e calcolate. Se qualche traccia di un
proposito si avverte è nei quadri di figura, in quello
soprattutto della «Conversazione» che è un po' faticato. Ma
nei paesi l'economia dei mezzi è pari alla felice
naturalezza con la quale vengono adoperati. Colore e disegno
sono già fusi, si sente, nel gesto che li stende sulla tela,
e prima nell'occhio che li ha accolti, e prima ancora
nell'intelligenza dell'istinto che li ha goduti, ora per
ora, nella consuetudine quotidiana dei luoghi. E nei primi
piani sono un po' disfatti perché il fuoco della visione è
nella media profondità del quadro, dove acquistano tutto il
loro risalto: proprio come avviene nell'apprendere con lo
sguardo a distanza le cose. Uno stile dunque che scioglie
con stupefacente semplificazione i problemi più complicati e
si riannoda, così, agli affreschi dei primitivi come alle
tavolette dei Macchiaioli, per la sana concretezza plastica
e la riposata gamma cromatica.
Sono queste qualità rettamente italiane e toscane, che hanno
costituito il pieno successo della sala Soffici alla XV
Biennale Veneziana. Preparata senza strombazzature e
ordinata senza pretese, essa ha conquistato tutti, pubblico
e artisti, perchè tutti vi hanno sentito una umanità di
spirito che parla franco, chiaro, diritto, senza trucchi nè
compromessi. E chi dubitava dell'artista per il suo passato,
si è ricreduto, e chi non lo conosceva lo ha amato, e chi
già lo stimava, più lo ha ammirato. Ma quanta assiduità
meditata di lavoro per scoprire poco a poco il meglio di sè
stesso, e ritrovatolo in fondo forse ai ricordi della prima
giovinezza, saperne esprimere con piena maturità di
coscienza l'essenza geniale! Ardengo Soffici può vantarsi
d'esservi riuscito. La sua opera non è soltanto una bella
realtà artistica, è anche un virile ammaestramento morale.
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ANTONIO MARAINI
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