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(Fonte : Fiorentina Primaverile - 1922)
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Norberto Pazzini
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Una sera lontana (era l'inverno del 1870) in una bottega dove si
lavorava da calzolaio, ma dove convenivano, anche per conversare, i
personaggi più ragguardevoli di quel paesello di Romagna, tre uomini
sedevano intorno al deschetto, foggiando scarpe, ed un ragazzo di
quattordici anni, figlio del principale. Egli s'affaticava a scolpire
con una lesina, sopra un pezzo di marmo, una figurina di Madonna. Ma la
lesina apparteneva a uno di que' due lavoranti del padre, il quale era
fermamente convinto che tale arnese dovesse servire solo per forar suole
non per scolpire Madonne; e tanto ne era convinto che in uno scatto di
ribellione contro questo abuso, esclamò rivolto al ragazzo: - Ma,
infine, che cosa credi di diventare con i tuoi bambocci?
Al quale scatto il ragazzo rispose con vivacità: «Diventerò uno il cui
figlio ne scriverà la vita».
Questo ragazzo era mio padre. Ed ora che egli è stato richiesto di
alcune note biografiche, sento il dovere di scriverle io stesso, perchè
si avveri quello che egli disse accanto ai deschetto di suo padre,
quando aveva quattordici anni. Quattro anni dopo, in una nebbiosa alba
romana, scese alla stazione di Termini un giovinetto ancora spaurito dal
lungo e faticoso viaggio notturno. Era il ragazzo che aveva scolpito la
Madonna nel marmo, adoperando quella tale lesina.
Aveva voluto venire a Roma per studiar pittura, da Verucchio, il suo
paesello nativo, quasi sul confine della repubblica di S. Marino; era
venuto solo, col borsellino scarsamente provveduto, avventurandosi a
Roma, la città che tanto fascino esercita su chi sente l'arte, per
continuare, o meglio, per intraprendere la strada che la natura gli
aveva indicata. Spinto dal desiderio di venire a Roma, egli aveva fatto
di tutto per raggranellare dei soldi che gli permettessero almeno di
fare il viaggio: imbiancò camere, dipinse pareti, intagliò ornati per
una chiesa.... Tutte le economie, tutti i lavori che potessero aiutarlo
nel suo intento, non furono risparmiati.
Prima di partire conobbe un pittore allora in voga, anche lui romagnolo,
che gli domandò se, per venire a Roma a studiare pittura, fosse disposto
a soffrire la fame. Egli rispose di si; ma questa condizione poi gli si
presentò molto più dura, nella realtà, di quel che avesse potuto
supporre da ragazzo. Non ebbe però mai un rimorso, mai uno sconforto per
avere intrapreso una via cosi penosa, ma conducente alla realizzazione
del suo sogno.
Appena giunto a Roma, fu ospitato temporaneamente da una modesta
famiglia sua compaesana, che abitava tre miglia fuori di Porta
Cavalleggeri, ove doveva recarsi a notte fatta e da ove la mattina
doveva muovere all'alba per trovarsi a Roma in tempo per le lezioni
nell'Istituto di Belle Arti. Costretto poi a guadagnar qualche cosa,
oltre allo studiare, che questo non rende nulla, dovette adattarsi a far
da servitore in casa di una famiglia titolata, ora scomparsa, che in
cambio de' suoi servizi gli accordava soltanto un bugigattolo a pian
terreno, in un cortile, una specie di sottoscala, umido e buio,
dall'apparenza di prigione. Questo è il periodo delle maggiori
sofferenze, poichè alla fame si unirono umiliazioni di ogni sorta.
Ritirandosi la sera nel suo stambugio, non avrà certo potuto far a meno
di ricordare un'altra stanza, quella di casa sua, dove le ristrettezze
dei mezzi erano vinte dalla solerzia, dall'amorevolezza della madre. E
avrà certamente pensato al suo lettino odorante di spigo e di bucato una
sera, quando coricandosi, sentì gemere sotto il peso del suo corpo una
famiglia di topi che aveva fatto il nido nella paglia del suo giaciglio.
Ebbe in quel periodo triste un amico, un padre che ancora ricorda con
venerazione. Era il P. Margarucci, gesuita, uomo di bontà e di dottrina.
Da lui ebbe conforto, da lui ebbe il pane, quando nella città grande,
nella città di sconosciuti, entrambi gli mancavano. E tutte le sere,
quando i padroni non reclamavano i suoi servizi, egli andava da lui, al
Caravita, in cerca di chi gli volesse bene e gli dicesse una parola
buona.
Ma in seguito, nel 1880, un altro amico appare nella sua vita; non un
erudito, un apostolo, ma un uomo semplice e buono, il sor Antonio, che
teneva una modesta trattoria al Vicolo d'Ascanio. Questo arrivò a
dirgli: - «Voi mangiate e bevete e non pensate al conto. Mi pagherete,
quando potrete». E mi pare che, per un trattore, questo sia il colmo!
Anima semplice e generosa del buon popolo romano, che va purtroppo
sparendo colli'imbastardirsi della razza.
Nel 1883, per un apprezzamento ingiusto di un suo professore, se ne
tornò al suo paese, dove rimase però soli pochi mesi. Tornato a Roma,
trovò lavoro, illustrando un giornale per conto di un altro, disegnando
per architetti, per dottori; frequentò così le sale incisorie, dove ebbe
commissioni di disegni anche dal celebre Panizza.
E siamo ora al momento decisivo per la sua arte, all'avvenimento che
doveva dare carattere speciale alla sua pittura: la conoscenza di Nino
Costa, nel 1885. Essa però non ebbe luogo senza difficoltà, forse per
poco benevola intenzione di gente che circondava il Maestro, e si
dovette al benevolo interessamento del conte Lemmo Rossi Scotti, se poté
avvicinarlo. Le prime parole che il Costa ebbe per lui, furono quali
nella sua modestia, egli non si sarebbe mai aspettate: «Conosco i suoi
figliuoli, di buona razza, e rari in questi tempi» - parole che sonarono
certo conforto e incoraggiamento per lui.
E d'allora in poi seguitò la sua arte sotto la guida di Nino Costa,
lavorando con alacrità in tutte le ore del giorno. Fece parte di una
società da quello fondata e che ebbe un titolo quale poteva darglielo
un'anima come quella di Costa «In arte libertas». E questa società contò
parecchi nomi della buona vecchia scuola, quali Cellini, Parisani,
Rossi, Scotti, Morani ed altri.
Così la sua arte, nata accanto a un deschetto da calzolaio, allevata
negli stenti, si delineava e assumeva forma e sicurezza sotto lo sguardo
e la carezza paterna di tanto uomo, uomo dall'anima ardente e buona,
battagliero e poeta, che sapeva farsi amare e temere e che anche ora che
dorme là, nel Pincetto del Verano, in cospetto della sua campagna romana
che egli tanto poetizzò col suo pennello, sa suscitare, con il ricordo,
il rimpianto.
E la storia è finita. meglio continua ritmica ed uguale. Gli fu scuola
una gioventù di stenti che l'abituò alle cose semplici, mentre l'arte
l'abituava ad amare il bello. In estate tutte le albe del suo paese lo
vedono desto con la cassetta de' suoi colori e col suo cavalletto; e
forse per questo i suoi quadri hanno qualcosa della freschezza, della
semplicità della rugiada.
Adalberto Pazzini.
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Opere esposte : |
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dipinti a olio
1. Silenzio (Romagna)
2. Ore Meridiane (Romagna)
3. Bosco Sacro (Roma)
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