{\rtf1\ansi\ansicpg1252\deff0\deflang1040{\fonttbl{\f0\fnil\fcharset0 Arial;}}
\viewkind4\uc1\pard\fs24 Fra Napoli e Parigi: I Palizzi e la poetica della - MACCHIA -
\par
\par di MARIANTONIETTA PICONE PETRUSA (da www.arteecarte.it)
\par
\par
\par Filippo Palizzi - Olanda,1855 - olio su tela,cm. 49,5 x 77,5
\par
\par Per un\rquote adeguata ricostruzione, nella storia europea, della svolta "borghese" di met\'e0 Ottocento (che in arte coincide con l\rquote inizio dell\rquote et\'e0 del Realismo) \'e8 ormai usuale considerare come vero spartiacque epocale il 1848, con i suoi moti. Con riferimento alla situazione francese, \'e8 uscito pochi anni or sono un testo di Georgel sul clima generale del 1848 e sui suoi riflessi nel campo delle arti e della politica culturale ufficiale, da cui emerge la figura di Charles Blanc (fondatore della prestigiosa "Gazette des Beaux Arts", che poi diventer\'e0 il noto teorico della Grammaire des Arts), il quale, appena nominato direttore delle Belle Arti, sostenne in prima persona i paesaggisti della Scuola di Barbizon, ben conosciuti per la loro militanza politica. La situazione italiana, come \'e8 noto, non \'e8 in tutto paragonabile a quella francese, in quanto l\rquote ondata rivoluzionaria non si color\'f2 di accenti proletari o saintsimoniani, ma assunse la pi\'f9 modesta configurazione di una violenta protesta per rivendicare la Costituzione; a ogni modo, i moti italiani del 1848, se non avevano velleit\'e0 di un sovvertimento sociale, andavano tuttavia a preparare tutti quei fermenti ideali che avrebbero dato origine al processo unitario. Tuttavia, in Italia come negli altri paesi europei, si coglie nelle testimonianze vive di quei giorni un comune desiderio di libert\'e0, quasi uno spirito di rifondazione, che, anche quando i moti saranno domati e riassorbiti in un rinnovato e pi\'f9 forte assetto "borghese", costituir\'e0 il seme positivo e progressista dei modelli di societ\'e0 che si vengono delineando. In questo processo, che vede coniugati i concetti di "modernit\'e0" e "libert\'e0" in una prospettiva riformatrice innanzitutto dei valori etici, il mondo dell\rquote arte e quello della letteratura non hanno avuto un posto secondario.
\par Non \'e8 dunque irrilevante la circostanza per cui troviamo a combattere sulle barricate del 1848 la maggior parte degli artisti del Meridione impegnati in un\rquote azione di rinnovamento dell\rquote arte, tanto nel suo linguaggio, quanto nelle sue iconograf\'ece e molto presto anche nei suoi organismi, da quelli didattici a quelli espositivi e mercantili. Filippo Palizzi, Domenico Morelli, Francesco Saverio Altamura e Achille Vertunni furono fra questi; alcuni di loro pagarono con il carcere o con l\rquote esilio questa avventura.
\par Altamura speriment\'f2 sia il carcere, nel 1848 a Santa Maria Apparente, sia, subito dopo, l\rquote esilio volontario a Firenze. Furono due esperienze decisive anche per le sorti dell\rquote arte meridionale: a Firenze egli avrebbe fatto da tramite, assieme a Morelli, fra le ricerche pi\'f9 "all\rquote avanguardia" dei napoletani e dei toscani; in carcere, precedentemente, ebbe l\rquote opportunit\'e0 di conoscere personaggi che si sarebbero rivelati importanti per la politica culturale napoletana postunitaria, da Carlo Poerio al duca di San Donato, a Gioacchino Lequile, marchese di Saluzzo, a Mariano d\rquote Ayala.
\par Tornando al 1848, troviamo un resoconto cronachistico di quegli avvenimenti, fedele e quasi ingenuo a un tempo, in tre dipinti di collezione privata di Filippo Palizzi (due a Napoli, provenienti dalla famosa collezione Portolano, e uno a Torre del Greco) che rappresentano le barricate con i soldati, la citt\'e0 di Napoli imbandierata, la concitazione della folla . L\rquote adesione di Filippo agli ideali liberali emerge con nettezza sia da queste prove, sia dai dipinti di soggetto garibaldino eseguiti intorno ali 1860, cos\'ec come da una famosa lettera del 1848, dai toni infiammati ed entusiastici, indirizzata al fratello Giuseppe, trasferitosi in Francia nel 1844:
\par "Carissimo Peppino, Viva l\rquote Italia! Viva Pio IX! Viva il Regno delle due Sicilie! Viva la Costituzione! Viva il Re Ferdinando II, goda con noi fratellino: Viva, Viva! Saba... II febbraio abbiamo avuto la sospirata Costituzione che ci era stata promessa dal 25 gennaio. Eccoci liberi! Gli Italiani sono tutti uniti, formano una famiglia, si chiamano fratelli caldi di amor patrio si preparano a sostenere i loro diritti e la gloria della quale sono stati sempre i figli prediletti. Tu lasciasti la tua Italia, in uno stato deplorevole, quasi abitata da uomini morti..
\par L\rquote Italia \'e8 un leone che il peso delle catene aveva reso servo, e muto. Ma nessuno gli ha potuto togliere il coraggio e gli artigli. Ora sorge con impeto. Ha rotto le catene e il suo ruggito risuona vittorioso su tutta l\rquote Europa. Gli italiani sono animati da una sola fiamma, una fiamma che per estinguerla bisognano fiumi di sangue. Se tu sapessi i particolari di ci\'f2 che \'e8 avvenuto nel nostro regno, rimarresti attonito! Ti do un\rquote idea. Qui, dopo la riforma del sommo Pio IX e degli altri principi italiani il nostro re decise di non fare nessuna piccola riforma
\par
\par
\par Filippo Palizzi
\par Ritratto di uomo nel bosco
\par 1856
\par olio su tela,cm. 39 x 39
\par nei suoi domini. Intanto negli animi di tutti s\rquote ingrossavano l\rquote idea di restare dietro gli altri stati italiani e la necessit\'e0 delle riforme, onde renderci meno schiavi al duro governo che ci opprimeva, riemp\'ec il regno di malcontento. Nelle menti di tutti bollivano sentimenti liberali. Il rigore della polizia ci mise con le spalle al muro, ma l\rquote opinione generale a passi di gigante camminava e finalmente cominci\'f2 a manifestarsi ora con manoscritti, ora con proteste in stampa ora con scritti affissi si nelle strade, ecc... La Calabria si rivolta, col\'e0 ci furono tristissime conseguenze, centinaia furono arrestati e mandati all\rquote ergastolo senza contare le vittime."
\par La lettera prosegue per varie pagine con una minuta illustrazione degli avvenimenti in Sicilia e a Napoli, dove si sperava che potesse bastare una dimostrazione popolare, finch\'e9 fu chiaro che la libert\'e0 si compra "col sangue". Palizzi conclude con la descrizione dell\rquote esplosione di gioia del popolo napoletano quando, finalmente, la Costituzione viene concessa. Colpiscono in questa lettera gli accesi sentimenti patriottici e il senso pieno di appartenenza a un\rquote Italia che, divisa politicamente, era tuttavia avvertita come una sul piano culturale e storco oltre che etnico, antropologico. C\rquote\'e8 come un senso di orgoglio, capace di determinare una sorta di riscatto rispetto alle tante umiliazioni sofferte nella storia. Quegli avvenimenti sembravano sconfessare chi, come Mare Monnier, in un celebre articolo, aveva insinuato che l\rquote Italia fosse "una terra di morti"; l\rquote accenno di Filippo al fratello che aveva lasciato l\rquote Italia "quasi abitata da uomini morti" \'e8 un rinvio abbastanza esplicito a questo testo provocatorio di Monnier, che all\rquote epoca fece scalpore e fer\'ec l\rquote orgoglio d\'ec tanti italiani.
\par Mi sono dilungata su questo rammento perch\'e9 \'e8 qui che comincia veramente la storia del rinnovamento del discorso artistico in Italia, cui i fratelli Palizzi hanno dato un contributo non secondario. I primi accenni di una sostanziale ,"riforma" dell\rquote arte tradizionale nel Meridione avevano trovato alimento teorico e ideologico negli insegnamenti d\'ec Francesco De Sanctis che aveva contribuito a creare negli ambienti intellettuali napoletani un clima particolare, fatto di istanze civili, ammodernamento dei linguaggi artistici, fossero essi letterari e pittorici, e ribellismo antiaccademico. Su questo terreno si giustifica il lungo e tormentato rapporto fra Domenico Morelli e Filippo Palizzi, in vario modo legati ad altri personaggi che gravitavano nell\rquote orbita desanctisiana come Luigi La Vista e Pasquale Villari, anch\rquote essi partecipi, con gli hegeliani Camillo De Meis e Diomede Marvasi, dei moti del 1848.
\par Tentativi di rinnovamento attraverso un azione antiaccademica si erano gi\'e0 profilati negli anni quaranta, a opera di scuole private aperte da artisti come Francesco Oliva, Michele De Napoli e soprattutto il teramano Giuseppe Bonolis (1800-1851) presso il quale studi\'f2 per breve tempo Filippo Palizzi, dopo che ebbe lasciato, deluso, l\rquote Accademia. In realt\'e0 anche questi pittori erano di formazione accademica, e nei fatti le loro scuole non s\'ec discostarono molto dal genere d\'ec insegnamento che si praticava nel Reale Istituto di Belle Arti. Fu tuttavia molto importante, soprattutto nella scuola del Bonolis, la presa di posizione teorica. Qui si predicava infatti il ritorno a una pittura dal vero, e fra i docenti figurava Federico Quercia, che insegnava "estetica" tenendo conto delle nuove teorie letterarie di orientamento hegeliano di Francesco De Sanctis. La novit\'e0 di tale scuola stava nella valutazione dell\rquote opera in base a un concetto di "insieme" che mentre richiamava da vicino l\rquote unit\'e0 d\'ec "forma" e "contenuto" portata avanti dal De Sanctis sembrava anticipare le note e fortunate formulazioni teoriche di Vittorio Imbriani sulla "macchia"\rquote . Nel campo artistico e letterario l\rquote insegnamento del De Sanctis si trov\'f2 dunque a funzionare da base teorica ed etica per la rivoluzione realista, fornendole contemporaneamente motivazioni ideologiche, che puntavano prima verso il costituzionalismo, poi verso l\rquote Unit\'e0, e linguistico-formali, che rivalutavano il dato empirico dell\rquote opera d\rquote arte concreta come momento di convergenza dell\rquote idea e della sua traduzione formale. II punto d\rquote arrivo delle formulazioni teoriche di De Sanctis intorno al Realismo si avr\'e0 nel 1858 quando affermer\'e0 che "la forma non \'e8 un\rquote idea, ma una cosa; e perci\'f2 il poeta ha innanzi delle cose e non delle idee".
\par Mediatore presso gli artisti delle nuove concezioni hegeliane del De Sanctis fu proprio Imbriani con la sua teoria della "macchia, elaborata in concomitanza con le proposizioni teoriche dei Macchiaioli toscani. Per Imbriani la "macchia" \'e8 un "accordo di toni, cio\'e8 di ombra e di luce, atto a suscitare nell\rquote animo un qualsivoglia sentimento esaltando la fantasia fino alla produttivit\'e0"; per sua stessa ammissione, egli, nel proporre questa formulazione nella recensione della quinta Promotrice, partiva dall\rquote osservazione delle opere di Palizzi.
\par Dunque \'e8 in Filippo Palizzi, pi\'f9 che in Morelli che dobbiamo rintracciare l\rquote origine della macchia napoletana, la quale, costituendo essa stessa il punto di convergenza di "forma" e "contenuto", induceva a un rovesciamento dell\rquote "ideale" nel "reale", secondo le indicazioni desanctisiane, caricandosi di istanze etico-politiche e di una decisa presa di posizione antiaccademica. \'c8 su questa base che la meticolosa e ostinata ricerca del "vero" palizziana (anche se non approd\'f2 mai ai contenuti sociali del Realismo, per rimanere nell\rquote ambito di un orientamento esclusivamente naturalistica) assunse un significato ideale alto e un carattere fortemente polemico rispetto alle forme d\rquote arte ufficiale.
\par
\par Giuseppe Palizzi
\par La foresta di Fontaineblueau Caccia al cervo
\par olio su tela,cm. 80 x 98,5
\par La scelta di abbandonare la "figura" o almeno di declassarla per ritrarre quasi esclusivamente paesaggi e animali, e fra questi non solo il "nobile" cavallo, ma anche e soprattutto il pi\'f9 umile asinello, acquistava il sapore di una vera ribellione con implicazioni complesse di ordine ideologico, in una direzione libertaria e democratica, che si chiarir\'e0 alcuni anni dopo attraverso vari interventi di artisti e critici; qui ricordiamo la recensione di Netti all\rquote Esposizione universale di Parigi del 1867 e un intervento famoso di Telemaco Signorini sulla pittura di paesaggio nel "Gazzettino delle arti e del disegno", sempre nel 1867: "Lasciate le astrazioni di un bello divino l\rquote umanit\'e0 sentendosi figlia della ietta che copriva, palpit\'f2 per la natura animale, vegetale e minerale, e avuta dalla scienza le intime ragioni della loro esistenza, ritrov\'f2 nella materia se stessa. Pertanto, grazie al genere del paesaggio,\'85. parola artistica che finora ha parlato all\rquote erudito archeologo, o al professore di estetica, diventa una parola per tutti; cosicch\'e9 i Attici mostrano che non \'e8 un indizio di decadenza comee finora si \'e0 gridato, la prevalenza della pittura di gene, e del paesaggio".
\par E che per Filippo Palizzi questa scelta avesse un chiaro carattere antiaccademico e il valore di un\rquote indicazione d\'ec modernit\'e0 risulta evidente, oltre che dall\rquote autobiografia (o meglio dalle varie redazioni, tutte parziali, della sua autobiografia) soprattutto dallo scritto intitolato Un artista fatto dall\rquote Istituto di Belle Arti. Si tratta di un testo non datato ma risalente probabilmente al 1860, anno in cui si era accentuata in lui l\rquote insofferenza per l\rquote Accademia al punto che, assieme a Saro Cucinotto, un incisore siciliano suo amico, aveva fondato un giornale denominato "L\rquote arte moderna"", dal sottotitolo molto significativo "Foglio da pubblicarsi liriche non si sciolga il Reale Istituto di Belle Arti", In questo scritto, oltre a condannare il fondamento stesso dell\rquote insegnamento accademico teso a formare un artista "corretto", in grado di "non fare errori" (principio secondo lui sbagliatissimo "creatore di infinite mediocrit\'e0"), rivolge all\rquote Accademia un\rquote accusa ancora pi\'f9 grave, quella di "allontanare l\rquote artista dalla societ\'e0 e dai suoi tempi": La societ\'e0 scorre per la via sotto le finestre dell\rquote Istituto e sonnechioso, fermo al suo posto disegna gli antichi, disprezza tutto ci\'f2 che \'e8 moderno: il soprabito, il cappello, i pantaloni, le vesti, vive in un altro mondo, non vede che il nudo e le pieghe.
\par A questo punto immaginare con una certa attitudine teatrale, una scena divertente in cui descrive un allievo dell\rquote Accademia il quale, avendo disegnato per anni solo nasi, gambe e partiti di pieghe, si trova impacciato nel fare un ritratto in abiti moderni, non sa da dove cominciare e vorrebbe eliminare i nastri, le trine e risolvere tutto con un bel mantello che ripropone le solite pieghe. Pertanto, Palizzi conclude il suo discorso in questo modo: "Posteri pi\'f9 lontani vengo a voi con la mia mente per dirvi che resterete meraviglia, nel vedere gli artisti dell\rquote epoca del telegrafo, del sapone, della fotografia e di tante altre invenzioni e soprattutto di quel sentimento irresistibile che spinge l\rquote umanit\'e0 al progresso, rivolgersi al passato pi\'f9 remoto".
\par Sembra di avvertire l\rquote eco di quanto pochi anni prima aveva sostenuto Courbet in un celebre articolo, considerato come il manifesto del Realismo, in cui, a quanti lo avevano invitato ad aprire una scuola, rispondeva che l\rquote arte non si poteva insegnare e che al massimo si poteva collaborare in una bottega (dello stesso avviso nella sostanza era anche Palizzi), e arrivava ad affermare che "l\rquote arte o il talento [...] non dovrebbero essere per un artista che il mezzo di applicare le sue facolt\'e0 personali alle idee e alle cose dell\rquote epoca in cui vive" ; e pi\'f9
\par
\par Nicola Palizzi
\par Melfi dopo il terremoto,1851
\par olio su tela,36,5 x 54,5
\par avanti, ribadendo questa necessit\'e0 di essere contemporaneo di se stesso, sosteneva che "gli artisti di un\rquote epoca sono assolutamente incompetenti a rappresentare le cose di un\rquote epoca passata o futura"; e ancora: "II bello, come la verit\'e0, \'e8 legato al tempo in cui si vive e all\rquote individuo che \'e8 in grado di percepirlo". Del resto, precedentemente, fin dal Salon del 1846, anche Baudelaire (che poi si sarebbe scagliato contro la prosaicit\'e0 dei pittori realisti) aveva affermato che era tempo di cogliere il "lato epico" "nelle nostre cravatte e nelle nostre scarpe lucide". Potremmo continuare mettendo in fila i pensieri di Cecioni, di Fontanesi, di Fattori per trovare altri punti di significativa convergenza ideologica, tra gli anni cinquanta e i settanta, su questi che sono i punti cardine del Realismo europeo. Sul piano teorico, dunque, possiamo registrare una piena sintonia dei Palizzi con gli esponenti pi\'f9 interessanti del Realismo italiano ed europeo, e un loro debito importante contratto a livello di formazione ideale con la scuola del De Sanctis. Rimane ora da capire quando si profila nei Palizzi questa esigenza di verit\'e0 e secondo quali modelli si traduce in pittura, il che significa soffermarsi su alcuni passaggi fondamentali della loro formazione. Innanzitutto c\rquote\'e8 da ribadire lo stretto legame tra i fratelli, fondato su una condivisione di esperienze e di modi di sentire, anche se poi ciascuno ha percorso una sua strada.
\par Sappiamo che da ragazzini si divertivano a realizzare pastori in creta per il presepe, e per quel che concerne Filippo anche che, quando stava ancora a Vasto, si imbatt\'e9 in alcuni ingegneri di ponti e strade e fu irresistibilmente attratto dagli strumenti da loro adoperati per eseguire rilievi precisi. Su queste prime esperienze, che attestano delle qualit\'e0 "naturali" con una generica propensione per una certa precisione (Filippo soprattutto), si innestano le esperienze in Accademia a Napoli, dove prima Giuseppe nel 1835, poi Filippo nel 1837 e Nicola nel 1842, si succederanno. Chi dei tre ha resistito di pi\'f9 in Accademia, a contatto con Smargiassi, pittore originario anche lui di Vasto e dedito a una pittura di paesaggio del tutto convenzionale, \'e8 stato Nicola; mentre sia Giuseppe sia Filippo avevano abbandonato presto il campo degli "studi artistici ufficiali". Dei due, Giuseppe aveva fatto in tempo a conoscere Pitloo e il suo insegna mento volto verso una pittura dal vero, di cui avrebbe fatto tesoro, anche se le poche opere superstiti di questi anni di apprendistato ce lo rivelano orientato tanto verso una pittura allineata ai modelli della Scuola di Posillipo ma secondo una interpretazione molto rigida che lo avvicina a pittori di secondo piano, come Salvatore e Gioacchino Giusti (vedi Casa rustica; Napoli, Museo di Capodimonte). quanto al paesaggismo storico alla D\rquote Azeglio (vedi L\rquote "Incontro di Torquato Tasso e Marco Sciama", 1841, cat. 9), molto lontano dall\rquote ultimo Pitloo.
\par Tale esperienza, che, con i suoi retaggi classicistici, poteva facilmente aprire le porte delle esposizioni biennali del Real Museo Borbonico, era condivisa da un altro giovane promettente, spesso associato, non del tutto correttamente, alla Scuola di Posillipo, Beniamina De Francesco. In questi anni i percorsi dei giovane Giuseppe Palizzi e di De Francesco sono paralleli, li accomunano le stesse curiosit\'e0 e le stesse incertezze; entrambi conoscono gli esiti dei Posillipisti, ma non se ne lasciano soggiogare, nel tentativo di sperimentare una pittura fatta di brani di verit\'e0 dentro la cornice romantica del paesaggio storico, tornato prepotentemente di moda.
\par I primi paesaggi appartenenti a questo genere finora rintracciati a Napoli risalgono al 1837-1838, e, curiosamente, il modello non \'e8 Smargiassi, che solo pi\'f9 tardi adatt\'f2 la sua tecnica del paesaggio di composizione al genere storico, ma probabilmente D\rquote Azeglio, che non avevano potuto incontrare a Napoli nel 1827 (fig. 37) perch\'e9 troppo giovani, ma che certamente conoscevano, in quanto personaggio noto in Italia, anche grazie al legame con Manzoni, e che poteva essere facilmente raggiunto a Roma. Proprio qui del resto si trovava per il suo Pensionato del 1837 Beniamino De Francesco che quindi pu\'f2 essere considerato un tramite. De Francesco, la cui fama \'e8 stata affidata soprattutto all\rquote estrema cura, quasi da botanico, con la quale ha reso la vegetazione nei suoi studi (che purtroppo non ci sono pervenuti) e in seguito nei suoi paesaggi d\rquote invenzione, tanto da essere definito da Morelli un "realista" fu tra i primi a decidere di sfuggire al difficile rapporto con Smargiassi e l\rquote ambiente ufficiale dell\rquote Accademia, recandosi in Francia nel 1842, seguito a ruota nel 1844 da Giuseppe Palizzi, con il quale presumibilmente mantenne un duraturo rapporto di amicizia, se dopo qualche anno, alla data del 1851 e poi ancora nel giugno 1859, risultava risiedere presso Palizzi, all\rquote indirizzo parigino di Rue de Clichy, 27. In Francia c\rquote erano gi\'e0 stati lo stesso Smargiassi nel 1826 e, dal 1841 al 1844, Consalvo Carelli. Al di l\'e0 del successo che entrambi ebbero negli ambienti aristocratici, tanto da dover soddisfare varie commissioni, il soggiorno parigino non modific\'f2 in modo significativo il percorso di ricerca pittorica in Smargiassi, mentre corrobor\'f2 in Carelli un\rquote idea di pittura dal vero quale era gi\'e0 stata proposta da Pitloo e Gigante, ma con un apporto pi\'f9 preciso (anche sul piano tecnico) della scuola francese deprivata da Valenciennes, che non prescindeva mai da un concetto di armonia classicheggiante, se non classica (fig. 39).
\par
\par Nicola Palizzi
\par Rocce,1867
\par olio su tela,cm. 36,5 x 53
\par Nel caso di De Francesco assistiamo, invece, a un vero dramma, in quanto il pittore arriv\'f2 a coniugare paesaggio storico e paesaggio di composizione con studi dal vero che andavano ben al d\'ec l\'e0 di quelli praticati e insegnati da Smargiassi, su una strada addirittura neofiamminga, ricca di inflessioni nordiche, ma si rese perfettamente conto che quel percorso era senza via d\rquote uscita. Probabilmente, approdando in Francia, avvert\'ec presto di essere sorpassato e di non avere la forza di adeguarsi alle novit\'e0; il conte d\rquote Espagnac, che avrebbe redatto il catalogo delle opere del pittore dopo la sua morte, ci informa che nel 1892, in risposta ad una lettera dell\rquote avvocato Tambone di Napoli piena di adulazione, De Francesco aveva scritto di non sapere se veramente potesse meritare quelle lodi e che per questo aveva rallentato la sua presenza nelle esposizioni e si era quasi autocondannato all\rquote oblio. Tuttavia, lo ritroviamo ancora sia nelle mostre borboniche, dove spediva i suoi dipinti, sia in vati Salon parigini; l\rquote ultimo cui partecip\'f2 \'e8 quello del 1866, un anno prima di morire. Come molti pittori, faceva fatica a ottenere commissioni ufficiali e ricorreva alla pratica molto in voga delle "raccomandazioni". Presso le Archives Nationales di Parigi \'e8 conservata tutta la documentazione che riguarda le varie commissioni statali francesi, sollecitate dal pittore e da vari membri dell\rquote aristocrazia, sia italiana, sia francese. Fra i nomi che compaiono troviamo il duca di Serra Capriola, ambasciatore a Parigi, il marchese di Riario Sforza e un probabile protettore francese di De Francesco, il signor de la Moufsaj\'e9 nato De Chelfonteunet (che lo ospita nel 1848), i quali si danno da fare per la prima commissione, quella del 1844, relativa al Paesaggio storico, Petrarca e Laura (destinato al Museo d\rquote Angers), che verr\'e0 perfezionata e saldata nel pagamento dei 1.500 franchi pattuiti solo nel 1849. Successivamente andr\'e0 meglio con il mandato di acquisto del dicembre del 1848 per un Paesaggio, pagato 1000 franchi e destinato al Museo di Saint Quentin, ma esposto al Salon solo nel 1849. Tra coloro che raccomandato De Francesco incontriamo poi nel 1852 il signor Cottrau, probabilmente il pittore di paesaggi romantici Felice Cottrau, francese di origine ma con forti legami a Napoli, per un Paesaggio, pagato 1800 franchi, di cui abbiamo qualche informazione attraverso la nota di un ispettore che doveva giudicare il quadro prima del saldo nell\rquote aprile 1853: "Cet artiste est en vaie de progr\'e8s: son ex\'e9cution est plus large que l\rquote ordinaire et l\rquote effet g\'e9n\'e9ral de le tableau est bien senti. Les figure, d\rquote une assez grand dimension (les Satin, femme, au tombeau) cent arrang\'e9es et prime, d\rquote une mani\'e8re satisfaisante".
\par Ancora sei anni intercorrono infine tra la commissione del dipinto La morte di Mos\'e8 destinato (nel 1854) alla Galleria d\rquote Apollo al Louvre (ma assegnato nel 1870 alla chiesa di Duri, le Pal\'e8stel / Creuse) e il saldo dei 1.500 franchi pattuiti, che avviene solo nell\rquote aprile del 1860. Tuttavia, seppur limitata rispetto alle novit\'e0 dei barbizonnier prima e di un Courbet o Millet subito dopo, la ricerca di De Francesco non doveva essere proprio senza meriti, se Corot acquist\'f2 da lui tre quadretti per la sua collezione, e altri due, fra i quali Paesaggio con Enea e la Sibilla (cat. 2), li volle lo scultore danese Thorvaldsen.
\par A differenza di De Francesco, Giuseppe Palizzi, appena arrivato in Francia, fu pronto a cogliere il senso delle novit\'e0 e ad adottarle, facendo poi da tramite (primo in Italia) con i fratelli e, attraverso di loro, con altri artisti italiani. A ragione, quindi, Filippo Palizzi, in una celebre lettera indirizzata al principe Filangieri nel 1888, in occasione del dono (al Museo Civico a lui intitolato) del ritratto fatto al fratello Giuseppe, spieg\'f2 che aveva particolare piacere a donare quel dipinto alla citt\'e0, perch\'e9 raffigurava il primo vero "riformatore" della pittura di paesaggio in Italia. Documenti ed epistolari in
\par
\par Nicola Palizzi
\par Paesaggio,1858
\par olio su tela,cm. 18 x 23
\par parte pubblicati negli ultimi quindici anni ci chiariscono gli scambi continui tra i fratelli; se in una prima fase Giuseppe costituisce l\rquote elemento trainante, Filippo cooperer\'e0 nell\rquote individuare delle soluzioni pittoriche felici e diverr\'e0 a sua volta una sorta di "agente propagatore" della lezione di Barbizon a Napoli e nel resto d\rquote Italia. Altri artisti italiani di l\'ec a pochi anni avrebbero percorso piste parallele, arrivando a individuare soluzioni nuove, scaturite da un diretto, personale colloquio con la natura, fuori dai dettami dell\rquote Accademia. Anche per loro fu fondamentale l\rquote incontro diretto o mediato con i barbizonnier; valgano per tutti gli esempi di Serafino De Tivoli, che apparteneva al gruppo toscano dei macchiaioli, e del giovane Fontanesi, attraverso la mediazione dello svizzero Calame .
\par Anche per Giuseppe Palizzi i primi anni a Parigi sono molto duri, ai limiti della fame, a giudicare dal tono delle lettere ai familiari. In lui colpisce poi lo spaesamento di chi viene a contatto per la prima volta con la grande metropoli e ha paura di esserne stritolato; tuttavia, non rinuncia a invitare il fratello Nicola, perch\'e9 sa che quella \'e8 la scelta vincente: Parigi \'e8 un mostro che ingoia quadri, talenti, artisti, opinioni, rinomanze, fatiche, entusiasmo, tutto e lo polverizza. Ci\'f2 \'e8 causato un po' dal fanatismo, ma disgraziatamente l\rquote arte qui riceve questo trattamento. "Spero che un giorno verrai anche tu qui".
\par E dunque comprensibile la sua decisione di trasferirsi in campagna a Barbizon (anche se avr\'e0 sempre un recapito parigino) e di dipingere nella foresta di Fontainebleau. Era questa una scelta che condivideva con Rousseau, Troyon, Duprez e Diaz, che dal 1870 avevano dato vita alla Scuola di Barbizon. Con loro Giuseppe strinse rapporti diretti, mettendo a disposizione addirittura le sue doti di cuoco. In un profilo stilato in una pubblicazione dell\rquote Hotel Drouot (dove passarono tante sue opere e dove soprattutto Filippo mise in vendita tutto quanto restava nell\rquote atelier del fratello dopo la sua morte) si riporta il soprannome di cui godeva nella societ\'e0 parigina, le Sylvain e Fontainebleau e, a proposito della famosa "pagliara" che era stato autorizzato a costruirsi nella foresta, si riferisce quanto segue: [Fontainebleu] "C\rquote etait d\'ect M. de Lauzieres Themines , son domaine son amour, la passion de sa vie. Pour y rester, plus longtemps, il s\rquote etait construit en plein dessous bois une hutte plafonne\'e8 de planches, toitur\'e8e de mousse, digne de servir danne a un faune.. d\rquote atelier \'e0 un Berchem".
\par Anche se gli inizi furono duri, Giuseppe Palizzi non ebbe incertezze sulla via pittorica da seguire, e nel 1848 arriv\'f2 la prima commissione ufficiale per La vall\'e9e de Chevreuse (poi destinata al Museo d\rquote Autun), senza che avesse utilizzato raccomandazioni particolari, delle quali tra l\rquote altro per le sue modeste origini non avrebbe potuto disporre, a differenza di De Francesco che era di famiglia nobile. Tuttavia, in una lettera a Charles Blanc, direttore delle Belle Arti, datata 14 settembre 1848 (in cui chiedeva un anticipo di 750 franchi su 1500 per effettuare un viaggio in Asia al fine di studiarne il paesaggio e poter cos\'ec soddisfare una commissione, un progetto che poi non realizzer\'e0), Palizzi parla dell\rquote acquisto della Vall\'e9e de Chevreuse da parte del governo francese ,su proposta dello stesso Blanc. Se cos\'ec fosse, questa circostanza farebbe rientrare l\rquote acquisto del dipinto di Giuseppe Palizzi nella politica illuminata e progressista (almeno a questa data) di Charles Blanc rispetto alla Scuola di Barbizon, cui l\rquote artista abruzzese veniva di fatto assimilato.
\par Le commissioni statali successive, nel 1891 per Le retour do march\'e9 (Musei des Langres, Haute Marne); nel 1853 per Des beliers (destinato nel 1888 all\rquote Ambasciata di Francia a Berna); nel 1856 per Les beliers de Rambouillet e Les moutons et les brebis de Rambouillet fino all\rquote acquisto finale di questi due dipinti e la loro assegnazione nel 1863 (dopo l\rquote esposizione al Salon di quell\rquote anno) al Museo di Compi\'e8gne, vedono le quotazioni ufficiali di Palizzi salire gradatamente dai 1500 franchi della prima ai 4.000 (per ciascun dipinto) dell\rquote ultima. Quando Filippo, nel 1855, decide di partire per Parigi, stimolato dai racconti di Giuseppe e dai progressi che ha potuto direttamente constatare nel fratello, in occasione del suo breve ritorno a Napoli nel 1854, lo trova ormai inserito nella societ\'e0 francese e in condizioni economiche non pi\'f9 disperate. L\rquote atto ufficiale di "consacrazione" sar\'e0 il conferimento della Legion d\rquote Onore nel 1859, un riconoscimento concesso poche volte a stranieri. Ne abbiamo un vivace resoconto da Aldino Aldini, che in un lunghissimo articolo sul giornale "L\rquote Omnibus" ricapitola tutta la cartiera di Giuseppe in Francia fino a quella data, a cominciare dal suo arrivo e dalla reazione al cospetto della moderna pittura francese dei
\par
\par
\par Nicola Palizzi
\par I mietitori,1858
\par olio su tela, cm 35 x 44
\par Duprez, dei Diaz, dei Decamps: Palizzi ne fu crudelmente sconfortato "..., misuri lo spazio che gli restava a percorrere per raggiungerli e se non desistette non torn\'f2 indietro vuol dire che era nato nelle terre degli antichi Bruzii e che tra questa gente la perseveranza \'e8 tale che ha un certo senso di ostinazione ... Palizzi cap\'ec subito che aveva, finalmente calcata una via falsa, se non pel disegno che essendo la riproduzione esatta del vero non pu\'f2 esser di varia indole, est, aut non est almeno pel colorito, pel modo di vedere e soprattutto pel magistero direi quasi pel meccanismo dell\rquote arte, che mancavagli compiutamente ... Bisognava far punto e da capo, tirare una linea sul passato, e ricominciare. Egli se ne and\'f2 a Fontainebleau ove lavor\'f2 per otto mesi continui, dieci o dodici ore al giorno, come un benedettino, credo volesse copiare tutti gli alberi della foresta!"; l\rquote artista torn\'f2 a Parigi, ma si rinchiuse nel suo studio, e li, fermo al lavoro. Nelle rare ore di riposo andava al Louvre o visitava i contemporanei pi\'f9 celebri. Fece passare cinque lunghi anni prima d\rquote osar di esporre, un suo quadro! Finalmente nel 1848 si risolvette ed espose la Valle di Chevreuse, il tentativo fu felice. Il Giur\'ec allarg\'f2 il quadro nella sala d\rquote onore; il governo ne fece l\rquote acquisto e l\rquote autore ottenne la medaglia d\rquote oro di seconda classe "L\rquote aurora spuntava tarda, ma splendida".
\par L\rquote articolo continua enumerando tutti gli acquisti successivi fatti dallo Stato francese fino alla decorazione con la Legion d\rquote Onore. La parte su Giuseppe si conclude con la descrizione del suo atelier parigino, probabilmente proprio nel corso del 1859 trasferito da Rue de Clichy a Rue d\rquote Amsterdam, che ci conferma il nuovo status di artista benestante ormai raggiunto: "Un grazioso chalet, accosto alla casa di Alessandro Dumas padre. Lo studio \'e8 direi quasi diviso in due: una parte \'e8 una vastissima sala, tappezzata di begli arazzi istoriati, ed al basso tutta coperta di bozzetti; l\rquote altra met\'e0 \'e8 un confortevole ed elegante quartierino, con salotto, camera, scrittoio, dipendenze ecc... Le suppellettili sono antiche ad intaglio, e ve n\rquote ha di bellissime. Le pareti sono coperte di cuoio impresso e dorato; gli \'e8 un ricordo di Victor Hugo".
\par Mentre Giuseppe Palizzi trovava, grazie ai barbizonnier, la sua personale cifra nell\rquote affrontare la pittura dal vero a contatto con la natura, seguiamo il percorso del fratello Filippo fino al suo primo viaggio a Parigi nel 1855. La formazione di Filippo \'e8 pi\'f9 complessa di quanto Domenico Morelli, nel suo famoso testo commemorativo ci voglia far credere. Questa "manipolazione" morelliana, a mio avviso, \'e8 strettamente correlata al rapporto intenso, ma anche sotterraneamente conflittuale fra i due artisti. Morelli dice a chiare lettere che tutto quello che ha appreso in termini di una pittura aderente alla realt\'e0 lo deve a Palizzi, arrivando ad ammettere la mano di Filippo nella fattura del brano di natura morta con la scodella nel suo famoso dipinto giovanile Gli iconoclasti (1851). Ma, detto questo, ha tutto l\rquote interesse a limitare al massimo l\rquote apporto culturale del suo amico, rivale, chiudendolo dentro un rapporto esclusivo e quasi naif con la natura, per avocare implicitamente a s\'e9 i "grandi" collegamenti con la storia e con il mondo culturale dei "grandi" circuiti europei. Di qui l\rquote immagine, clich\'e9, spesso ripetuta per i realisti di varie epoche, del pittore "senza maestri" e in definitiva di una pittura "senza stile".
\par Invece, guardando con pi\'f9 attenzione alla produzione giovanile di Filippo, notiamo che per la sua formazione si \'e8 servito senza dubbio delle incisioni dei pi\'f9 importanti artisti, e non solo di quelli del passato, ma anche di quelli contemporanei. Intanto proprio da Morelli apprendiamo che durante i due mesi di Accademia Palizzi non si accontentava di ricopiare sommariamente le immagini nei suoi studi, ma ricopiava i singoli tratti delle incisioni in secondo luogo troviamo nei dipinti giovanili tracce di una cultura composita e variegata, frutto di molte curiosit\'e0. Ad esempio, egli doveva certamente conoscere, attraverso le incisioni, qualcosa della produzione di Delacroix, ben prima di partire per la Francia: ne affiorano richiami nell\rquote impeto del cavallo dell\rquote Ettore Fieramosca del 1856, ma anche in qualche opera pi\'f9 antica come Pastore che beve ai bordi di una vasca, esposto nella Mostra borbonica del 1841 e che propongo di identificare con il Pastorello caduto bocconi dell\rquote Accademia di Belle Arti di Napoli. Anzi, dir\'f2 di pi\'f9: alla corretta identificazione del soggetto sono stata guidata proprio da Delacroix, che nel 1824 aveva realizzato "astore romano che si disseta, esposto poi nel 1829 e tradotto in litografia da Mouilleron. In questo dipinto il pastore romano \'e8 colto dal pittore in un atteggiamento molto simile a quello del Pastorello di Filippo Palizzi, che ha la bocca aperta (come quello di Delacroix) proprio perch\'e9 si sta dissetando a una fonte, non raffigurata nello studio parziale del pittore napoletano. Un\rquote altra componente nota e gi\'e0 ampiamente segnalata dagli studi \'e8 quella neoclassica sullo stile di L\'e9opold Robert, soprattutto per i soggetti di genere: questo prestito appare evidente in opere come Il maggiore e il suo pendant, di pertinenza del Palazzo Reale di Napoli, dove la compostezza e la saldezza neoclassiche alla Robert riscattano la "bassezza" del genere. La componente neoclassica mette in evidenza la tendenza di Filippo a una certa meticolosit\'e0 nell\rquote esecuzione che ci viene ribadita anche da un suo interesse per l\rquote arte anglosassone e nordica; in un gruppo di opere che sta emergendo sul mercato sono sempre pi\'f9 numerosi gli echi delle stampe inglesi, soprattutto quando fra gli animali sono ritratti i cavalli. Naturalmente per l\rquote animalistica i modelli olandesi di Potter e Berchem erano addirittura ovvi.
\par Nel caso di Filippo si pu\'f2 anche ipotizzare che questi modelli secenteschi possano essere stati richiamati grazie alla conoscenza della produzione di olandesi pi\'f9 moderni, come Teelink e Verstappen, amici di Pitloo, che da Roma, ove risiedevano, si erano spesso recati a Napoli, o anche di qualche francese nel genere di Brascassat, che sappiamo rientrate negli interessi anche dell\rquote odiato Smargiassi, ma solo alla data del 1857, quando richiede di acquistare per la scuola "due bellissime stampe disegnate in litografia dal signor Brascassat che offrono nella larghezza di palmi 3 e mezzo campagne con cacce di vacche e di cani vivamente espressi. Modelli siffatti mancavano alla
\par
\par Michele Cammarano
\par Il Campidoglio
\par olio su tela,cm. 70 x 115
\par scuola". Questo spiegherebbe nelle prime prove dell\rquote animalistica d\'ec Palizzi una certa innegabile "durezza" di contorni e un uso della luce penetrante, ma freddo; mentre alcune rappresentazioni ingenue e quasi decorative di animali sorpresi in pose forzate e innaturali (comuni anche a pittori come Cobianchi) ancora fino ai primi anni cinquanta (dal 1855-1856 scompariranno del tutto dalla sua pittura) sono da mettere in relazione proprio con l\rquote animalistica pi\'f9 tradizionale sei-settecentesca. A questo proposito bisogna ricordare che l\rquote occhio acuto di Francis Napier aveva accortamente individuato un possibile modello in quel Domenico Brandi (1682 1736) i cui dipinti con animali decoravano la casa della marchesa di Vasto, e proprio per questa collocazione potevano essere alla portata del giovanissimo Filippo. Gli interessi settecenteschi di Filippo si estendono anche al modello hackertiano del paesaggio, di cui mostra di tener conto ancora alla data del 1851 nel dipinto II Real sito di Carditello acquistato da Casa Reale e ora a Capodimonte .
\par L\rquote attrazione per il regno animale lo conduce anche a curiosare nel mondo della fisiognomica. Un suo schizzo conservato a Vasto in cui allinea i profili di vari animali con quelli di esseri umani, accompagnando ciascuna corrispondenza con la definizione di un carattere psicologico, rimanda in modo inequivocabile al famoso resto dello psicologo, teologo e scrittore svizzero Johann Kaspar Lavater, Frammenti fisiognomici per promuovere la conoscenza e l\rquote amore dell\rquote uomo (1775 11778). Qui Lavater, partendo dalla convinzione che ogni granello di sabbia del mondo contiene tutta intera la grandezza di Dio e del Creato, cerca di rintracciare nei segni esteriori del corpo i segreti dell\rquote anima, dando cos\'ec vita a una fisiognomica, diventata molto popolare, di carattere moralistico, in base alla quale la virt\'f9 abbellisce e il vizio deforma; partendo poi da un concetto di armonia del Creato di tipo religioso, cerca la radice di determinati temperamenti umani nella corrispondenza ai tratti somatici nell\rquote uomo e nei vari animali. Negli studi, cos\'ec numerosi, che dedicher\'e0 in seguito agli animali, Palizzi dimostrer\'e0 nei fatti di aver superato questa visione del mondo umano e naturale. Tuttavia \'e8 importante vedere da dove era partito, per capire meglio la sua esigenza di sistematizzazione. Questa, che nella fase iniziale si affida a un testo famosissimo, ma in realt\'e0 pseudoscientifico, negli anni della maturit\'e0, proprio attraverso il metodo empirico dell\rquote osservazione diretta, trover\'e0 spazio nei suoi appunti privati, dando vita a una sorta di piccolo trattato, in forma di frammenti, di una scienza che allora non esisteva, e cio\'e8 l\rquote etologia. Sono indimenticabili le pagine dedicate al bove malato o ai bufali impegnati a rinfrescarsi negli stagni d\rquote estate, o al suo quasi onnipresente "ciucciarello", verso cui esprime tenerezza e riconoscenza (era convinto che gli
\par
\par Michele Cammarano
\par Paesaggio invernale o giornata triste,1861
\par olio su tela,cm. 78 x 64
\par portasse fortuna). Da queste pagine traspare un grande rispetto per il mondo animale, che non \'e8 pi\'f9 umiliato a rappresentare i difetti della psicologia umana anche perch\'e9 ogni animale ha la sua, e i "ritratti" che Palizzi dedica loro sono l\rquote occasione per scoprirla. Di questi retaggi settecenteschi, tuttavia, egli mantiene vivo il senso forte della natura e di una sua intrinseca carica religiosa, pur senza forzature e moralismi. Proprio la volont\'e0 di penetrare nel dato naturale in profondit\'e0, con un occhio acuto e amorevole insieme, gli fa amare la pittura nordica. Di questa ammira la precisione ottica, la limpidezza della resa, come ci appare chiaro da alcune lettere che scrive a Giuseppe di ritorno dal noto viaggio a Parigi, in Olanda, Belgio e varie citt\'e0 d\rquote Italia nel 1855; due nomi colpiscono: Riedel, che conosce a Roma per la prima volta, e Catel, di cui parla come di una vecchia conoscenza.
\par A questo punto \'e8 arrivato il momento di valutare il mutamento del registro pittorico, a causa dell\rquote esperienza francese, prima in Giuseppe, poi in Filippo e infine in Nicola, cui andrebbe aggiunto anche il quarto fratello Francesco Paolo Palizzi, del quale qui non si tratta, perch\'e9 dedito soprattutto al genere della "natura morta".
\par Certamente la parte sostanziale dello studio di Amalia Mezzetti su Giuseppe Palizzi \'e8 rimasta fino a oggi insuperata, cos\'ec come insuperato \'e8 il giudizio globale sulla sua ricerca, compresa la valutazione positiva di una certa qual ostentata "trascuratezza" del ductus pittorico che forse \'e8 l\rquote elemento pi\'f9 vistoso di collegamento tra Giuseppe Palizzi e i barbizonnier. Se il contatto con Troyon e Rosa Bonheur lo convincono presto della bont\'e0 della nuova formula, da loro inaugurata, di abbinamento del paesaggio con l\rquote animalistica, sar\'e0 da Dupr\'e9, Daubigny e in parte anche da Rousseau che trarr\'e0 le maggiori suggestioni in relazione alle modalit\'e0 di stesura del colore e al rinnovamento della tavolozza, con un approfondimento della ricerca coloristica nella gamma dei verdi e il progressivo abbandono delle terre e dei bruni rossicci tanto amati rispettivamente da Fergola e Smargiassi. Per lungo tempo nelle ricostruzioni storiche dell\rquote arte napoletana si \'e8 considerata la Scuola di Posillipo come il principale riferimento per gli svolgimenti della pittura di paesaggio a Napoli nel resto del seco lo XIX e anche oltre. De Rinaldis prima, seguito da Ortolani e da Causa poi, hanno invece giustamente posto delle cesure tra la maniera "liquida", "chiarista" di Gigante e la ricerca di impasto, di una materia corposa da parte dei Palizzi. Questo \'e8 senza dubbio un punto centrale, e inserisce di fatto la ricerca dei Palizzi, e a seguire quella di Cammarano, della Scuola di Resina e dei numerosi artisti che a loro si sono ispirati, dentro uno spettro culturale pi\'f9 moderno, che ha progressivamente abbandonato i modelli settecenteschi per accogliere nel suo orizzonte la Scuola di Barbizon e Combet e approdare in Italia, negli anni cinquanta e sessanta, alla sperimentazione di un tipo di pittura "a corpo", che verr\'e0 definendosi come "macchia". Questo termine ha generato confusione, in quanto a volte si parla di "macchia", anche per Gigante. La macchia di Gigante \'e8 tutta via quella acquerellata, di impianto sostanzialmente tonale, opposta nei suoi valori a quella che vedr\'e0 Firenze e Napoli come i pi\'f9 importanti centri italiani di sperimentazione fra gli anni cinquanta e i settanta. Naturalmente questo non significa che gli artisti delle generazioni pi\'f9 giovani fossero in polemica con l\rquote anziano maestro. La polemica era con i professori d\rquote accademia; con Gigante rimane un colloquio aperto e un rapporto umanamente intenso, se dobbiamo giudicare da una bella lettera che nel 1872 il vecchio pittore scrive a Giuseppe Palizzi, in cui, ringraziandolo per avergli procurato in Francia dei colori di ottima qualit\'e0, lo invita ad aspettarlo a Napoli per recarsi a dipingere insieme a Sorrento e tradendo un\rquote irrequietezza giovanile progetta di andare a Firenze e sogna di tornare a Parigi, ma riconoscendo di non poterselo permettere per l\rquote et\'e0 si accontenta di viaggiare... con l\rquote immaginazione eccitata da un testo letterario.
\par Per valutare l\rquote impano che aveva sul pubblico la nuova pittura "dal vero" ormai sempre pi\'f9 identificata con la pittura che noi oggi definiamo di "macchia", leggiamo uno stralcio della recensione d\'ec Calo Tito Dalbono all\rquote ultima Mostra borbonica, tenutasi nel 1859. La sua penna a volte severa e un po\rquote reazionaria, spesso per\'f2 penetrante e mai banale, esprime bene la reazione di una buona parte del pubblico colto, ma di formazione e ideologia tradizionali. Egli parte da considerazioni sui "pittori stranieri", ma estende poi il discorso a tutta la pittura "dal verro" esprimendo preoccupazione verso i giovani che
\par
\par
\par Giuseppe Palizzi
\par Scena campestre
\par olio su tela,cm. 76 x 102
\par potrebbero essere attratti dalla nuova moda: "Alcuni pittori stranieri, che in arte non seppero render conto di altro che dell\rquote effetto impresero a dar evidenza ai dipinti col grosso del colore. [...] i diversi piani, le parti ritonde o sporgenti come le rientranti [...] tutto dev\rquote esser fatto in pittura sopra una superficie: chi altera questa superficie rendendola viziosamente scabra come une rupe, \'e8 un artista che non ha fede nei diretti mezzi dell\rquote arte e si appoggia agli obliqui. [...] Se la pittura \'e8 imitazione del vero, il vero \'e8 di sua natura finito [...]. Ogni quadro di cavalletto deve potersi vedere vicino e dalla giusta distanza. Un quadro non \'e8 un trasparente, n\'e9 una scena teatrale, e il pittore di quadri e non di scene non ha diritto a dire: "Non vi avvicinate al mio quadro, se lo volete vedere"; ci\'f2 posto, una scuola che non insegna a finire e conta i passi a chi deve guardare, \'e8 una scuola di convenzione peggiore d\rquote ogni altra \'e8 una scuola di scenografo".
\par Come sappiamo, l\rquote accusa d\'ec fare una pittura non finita si trasciner\'e0 a lungo e colpir\'e0 pi\'f9 tardi gli Impressionisti, ma il problema s\'ec pone ora, al tempo del Realismo, e costituisce una sorta di frontiera che divider\'e0 i "novatori" dai rappresentanti della vecchia scuola. Sul piano critico, Baudelaire, in occasione del Salon del 1845, aveva operato una distinzione importante tra quadro "finito" e quadro "compiuto"; il quadro finito, nel senso di rifinito, leccato, poteva non essere compiuto, e viceversa un quadro compiuto poteva anche solo essere abbozzato. Anche Filippo Palizzi, in una lettera molto importante, da me gi\'e0 altre volte citata, all\rquote amico milanese Eleuterio Pagliano a commento della prima Esposizione nazionale di Firenze del 1861 parla delle due opposte scuole, la vecchia e la nuova, e di come i vecchi considerino "bozzi" i dipinti realizzati con studi dal vero: "l\rquote Esposizione \'e8 un caos di Passato, Presente ed Avvenire. Di opere buone poche, di mediocri molte, di pessime moltissime. L\rquote avvenire promette benissimo se si avr\'e0 giudizio [..] la pittura che si fa presentemente spinge l\rquote arte in un avvenire brillantissimo per la pittura della nostra Italia e questa viene rappresentata dalla giovent\'f9. La pittura passata, sebbene rappresentata da uomini di talento, cade al paragone, e cade in un modo cos\'ec precipitoso che con tutte le sue qualit\'e0 non potr\'e0 mai risorgere. Dunque \'e8 la giovent\'f9 che ninfa coi suoi tentativi, colle sue ricerche ad una via vera, semplice, ed anche colla imitazione della pittura, di buoni artisti moderni".
\par Poi, con l\rquote animo di dare dei consigli a Pagliano, passa a commentare con una certa severit\'e0 i suoi dipinti presenti in mostra e conclude: "Quello che bisogna cercare ora nella piuma moderna, sono le finezze e la totalit\'e0, e vi posso dire francamente che queste qualit\'e0 mancano e i Vecchi dicono che sano bonzi perch\'e9 loro non vedono pi\'f9 oltre ma per\'f2 vedono che i loro quadri non sono n\'e8 quei bozzi e n\'e9 hanno finezze e totalit\'e0".
\par Con i concetti di "finezze" e "totalit\'e0" siamo giunti alla definizione di "macchia" da parte di Filippo, dove "totalit\'e0" \'e8 l\rquote impressione d\rquote insieme propria della "macchia"; tuttavia, la "totalit\'e0" deve essere completata dalle "finezze", ossia dalla tesa delle sottigliezze percettive: qui c\rquote\'e8 tutto Filippo Palizzi, con la sua attenzione micrografica agli effetti di luce, giudicata eccessiva, fin quasi alla pedanteria, da alcuni suoi contemporanei come Cammarano, che manifest\'f2 apertamente le sue critiche, o gli artisti della Scuola di Resina, che invece se ne distaccarono tacitamente. Tuttavia sappiamo che nell\rquote ambiente dei Macchiaioli, grazie ad Altamura, Palizzi godeva di una buona reputazione, e nei suoi soggiorni a Firenze fu sempre ben accolto. Dallo studio dei Taccuini palizziani conservati a Chieti apprendiamo, ad esempio, che nella sosta a Firenze del 1855-59 si era incontratto, tra gli altri, con Fattori. A questa permanenza conferiscono grande importanza Piero e Francesca Dini nel loro importante studio su Martelli, in quanto Palizzi poteva rafforzare le testimonianze di Altamura, Morelli e De Tivoli sulle novit\'e0 francesi, esibendo non solo dei racconti, ma delle prove pittoriche, dal momento che gi\'e0 da alcuni anni si stava arrovellando assieme al fratello Giuseppe intorno alla nuova via della ricerca artistica. In effetti, sappiamo che proprio in quel viaggio di ritorno dalla Francia Filippo portava con s\'e9 il "bottino" degli studi francesi dei vari Vernet, Duprez, Daubigny e altri, poi confluiti nella donazione Palizzi all\rquote Accademia di Belle Arti di Napoli.
\par Occasione di incontro con gli artisti fiorentini sar\'e0 poi la prima Esposizione nazionale di Firenze del 1861. Sono gi\'e0 note le vicende di questa mostra da cui Palizzi volle tenersi prudentemente distante, in obbedienza a un
\par
\par Michele Cammarano
\par Il valico di Chiunzi
\par olio su tela, 38,5x53 cm
\par rigore che gli faceva rifiutare qualunque forma di compromesso. Effettivamente quella mostra, proprio perch\'e9 era la prima a carattere nazionale, dovendo raccordate tante realt\'e0 diverse, era nata all\rquote insegna del compromesso. L\rquote assenza di Filippo aliment\'f2 la curiosit\'e0 verso di lui e gli garant\'ec un vero successo, quando decise di esporre una dozzina di opere nello studio fiorentino di Altamura. Le polemiche che accompagnarono tutta la mostra, fino al rifiuto dei premi da parte di alcuni artisti giovani, fra i quali anche Morelli, in quanto non condividevano i criteri utilizzati dal giuri, alimentarono di fatto un clima di contrapposizione fra vecchia e nuova scuola. Fu in questo quadro che Martelli defin\'ec la "macchia" un\rquote "arma di battaglia". E in questa "arma" si riconobbero vari napoletani (Morelli, Altamura, Abbati e indirettamente anche i Palizzi), assieme a tanti artisti italiani che per varie vicende avevano gravitato, magari anche solo per breve tempo, sulla Toscana e sui suoi circoli (dal veronese Cabianca al giovane ferrarese Bold\'ecni dal romano Costa al veneziano Zandomeneghi). Intorno alla poetica della "macchia" si deline\'f2 quello che felicemente Maltese ha definito come il "momento unitario della pittura italiana".
\par Dopo di allora le occasioni di incontro e d\'ec confronto tra napoletani e toscani si moltiplicarono; basta sfogliare i cataloghi delle Promotrici, sia fiorentine, sia napoletane, per individuare alcuni manipoli di artisti moderni che si spostavano regolarmente da un\rquote esposizione all\rquote altra.
\par Nel corso degli anni sessanta la differenza sul modo di intendere la "macchia" fra Palizzi e Morelli, ma anche fra quest\rquote ultimo e i toscani, si approfond\'ec. La "macchia" palizziana si fondava sull\rquote analisi della luce in con trapposizione all\rquote ombra ed era frutto di un\rquote osservazione diretta, simile nella sostanza alle prime ricerche macchiaiole fiorentine, orientate secondo Signorini fino ai primi anni sessanta verso una "esagerazione del chiaroscuro"; quella di Morelli, invece, proveniva dalla pratica dei bozzetti della pittura di storia e puntava a una visione abbreviata che coglieva la scena tutta insieme e secondo una costruzione per macchie subordinata all\rquote intonazione violenta e "a effetto" di un particolare colorato che costituiva la nota alta. D\rquote altra parte, se la seriet\'e0 dell\rquote indagine luministica e la sobriet\'e0 delle gamme cromatiche adottate furono un tratto comune a Filippo Palizzi e ai Macchiaioli toscani, questo emerge soprattutto negli studi ad abbozzo di Filippo Palizzi (fig. 48); mentre, quando si arriva allo studio finito o all\rquote opera compiuta, certamente l\rquote attenzione palizziana ai dettagli ristabiliva le distanze (fig. 46).
\par Una problematica simile si profila anche quando proviamo a confrontare fra loro gli esiti linguistici delle ricerche pittoriche dei tre fratelli. Le loro scelte divergeranno, dal momento che intenderanno in tre modi diversi l\rquote invito dei barbizonnier a un rapporto diretto e sincero con la natura, dimostrando proprio in questa autonomia di aver inteso fino in fondo quella lezione, che non si traduceva nell\rquote imposizione di un "modello esclusivo". Giuseppe, soprattutto, fino alla fine degli anni sessanta utilizzer\'e0 una pittura scabra e volutamente poco rifinita, per poi avvicinarsi invece di pi\'f9 a Filippo e assottigliare la sua pennellata, acquistando nelle fasi pi\'f9 tarde della sua produzione delle "finezze" che precedentemente non aveva (qui vedi la differenza, dal punto di vista dell\rquote andamento delle pennellate, fra due opere in catalogo: Paesaggio con gregge e Scena campestre, (rispettivamente cat. 44 e 45). Filippo invece, all\rquote indomani del suo primo viaggio in Francia, estender\'e0 il suo interesse per le indagini luministiche in una direzione sperimentale e arriver\'e0 a occuparsi anche di problemi fotografici e in particolare della tecnica del clich\'e9-verte (allora detta "eliotipia"), che aveva appreso direttamente dai pittori di Barbizon, i quali la utilizzavano negli anni cinquanta cos\'ec come Corot, Courbet e altri (fig. 49). Sappiamo che Filippo impar\'f2 a prepararsi le lastre da solo, per mettere in pratica questa tecnica a met\'e0 strada fra l\rquote incisione e la fotografia, ma abbiamo anche una lettera in cui chiede al fratello d\'ec spedirgli delle lastre gi\'e0 preparate per eseguire le sue stampe eliotipiche. Naturalmente questo tipo d\'ec sperimentazione non faceva che acuire la sua attenzione alla "totalit\'e0" e alle "finezze".
\par Diverso sar\'e0 il percorso di Nicola, per certi versi forse pi\'f9 tortuoso. Possiamo individuare vari passaggi, da un paesaggio romantico alla Smargiassi, di cui era stato allievo, a una pittura di reportage che negli stessi anni interpretava secondo due intonazioni diverse, una pi\'f9 ufficiale quasi da annalista alla Fergola, ad esempio nel dipinto con
\par
\par
\par Giuseppe Palizzi
\par le Manovre al Poligono di Bagnoli (Caserta, Palazzo Reale; fig. 10); oppure secondo una cifra pi\'f9 libera e anche pittoricamente pi\'f9 sintetica, ad esempio in Melfi dopo il terremoto del 1851. Parallelamente sperimentava anche l\rquote impostazione della veduta panoramica a una certa distanza con toni rosati e una composizione "gradevole", secondo la formula di successo della Scuola di Posillipo, in opere come la Veduta di Capri da Massalubrense di cui esistono una versione nelle collezioni del Comune di Vasto e altre redazioni simili in collezioni private. Arrivato ai primi anni cinquanta, Nicola, che aveva gi\'e0 dato prova di amare una pittura piuttosto sintetica e corposa, accentua questa caratteristica approfondendo il dato spaziale. Non \'e8 improbabile che abbia studiato qualcuno degli esponenti della scuola di Posillipo, come il belga Vervloet e forse in qualche occasione anche Ducl\'e8re (confronta, ad esempio, Piazza del Sedile di Porto) per arrivare a proporre, oltre alla ben nota Piazza Orsini a Benevento, anche la veduta di Avellino proveniente da una collezione privata, insieme con un dipinto della Pinacoteca Comunale di Vasto, Posillipo a Benevento. In tutte queste opere la visione costruita in modo chiaro e sintetico, attraverso la luce colore che crea delle vere e proprie scansioni dello spazio prospettico, costituir\'e0 un precedente importante per le successive sperimentazioni tanto di Cammarano, quanto della Scuola di Resina. Un\rquote opera come Veduta di Casacalenda di Marco De Gregorio sembra derivare direttamente, sia per la concezione dello spazio sia per il modo ingenuo di raffigurare i personaggi che animano la veduta cittadina, da dipinti come Posillipo a Benevento. Anche per Nicola il viaggio a Parigi segner\'e0 una svolta, che tuttavia si presenta all\rquote insegna di un approfondimento dell\rquote aspetto pi\'f9 sintetico e costruttivo della sua ricerca. Opere come Paesaggio, I mietitori e Rocce, costituiscono un punto d\rquote arrivo molto moderno che si situa ben pi\'f9 avanti delle ricerche dei suoi stessi fratelli, sulla via di quella pittura "a corpo", o se si vuole "a toppe" per dirla con un espressione usata da Calo Siviero, adottata in funzione costruttiva da Michele Cammarano, non a caso allievo di Nicola. Proprio questa pittura costituir\'e0 la molla che spinger\'e0 Cammarano a conoscere Courbet, per poi diventare la base della loro intesa. Prima che riemergessero le memorie di Cammarano andate disperse il ricordo di questo incontro memorabile ci era stato tramandato da Michele Biancale, che era riuscito a consultare le migliaia di pagine del pittore. Cammarano narra di aver appreso dell\rquote esistenza di un artista interessante e singolare come Courbet dal critico francese Chenavard che aveva conosciuto a Roma. Fu dopo questo colloquio che cominci\'f2 a coltivare l\rquote idea di conoscere di persona il pittore transalpino, finch\'e9 nel 1870 si decise a partire per Parigi. Mi piace concludere questo mio intervento proprio con le parole di Cammarano, che ci racconta la semplicit\'e0 e la naturalezza di questo straordinario incontro:
\par "era mio obbligo vedere e rendermi conto della Scuola francese, rappresentata alla Galleria del Luxembourg [...]. Potei ammirare e riflettere a lungo la tela d\rquote un artista che m\rquote interessava. A Roma ne avevo sentito parlare con entusiasmo, Courbet un ardito pittore, ribelle a tutte le precedenti scuole, nemico dichiarato delle Accademie ed accademici, fu per parecchi anni perseguitato da questi, ed alle insolenze che Courbet gli sputava in faccia seppero cambiarlo acerbamente; le tele di Courbet erano sempre rifiutate dalla Giuda del Salone se talora raramente accettate erano la risata dei suoi detrattori; Courbet non se ne dava pena, la guerra ad oltranza non lo avviliva, Chenavard che lo aveva conosciuto da vicino me ne aveva parlata molto a Roma, e con un sorriso grazioso me lo diceva un uomo che lottava senza darsi carico dei suoi nemici, e dipingeva con merito or paesaggi or figure di grandezza naturale in larghe tele, una pittura personale che non rassomigliava a nessuno. Courbet aveva una turba d\rquote artisti che lo seguivano accettando con entusiasmo le sue opere, altri s\rquote intende lo beffavano certo dopo non pochi anni fin\'ec per essere accettato al Salon, ed or tra le beffe, or tra le considerazioni giunse ad essere riconosciuto e rispettato. Vidi adunque il sua paesaggio "La remise des chevreuils" che fu acquistato dal Governo e posto al Luxembourg. Il quadro \'e8 un bosco con vecchi piante verdi, umide, folte erbe e, ...appare alcun sentiero, qualche fossa con acqua un gruppetto di capri girano pel bosco solitario; quella tela \'e8 un capo d\rquote opera, vi si respira la luce, l\rquote aria si sente la tranquilla solitudine dell\rquote abbandonata foresta; quella pittura mi interess\'f2 al punto da
\par
\par Michele Cammarano
\par Chiacchiere in piazza in Priscinula, 1865
\par Olio su tela 100x74,5 cm.
\par decidermi a conoscere personalmente l\rquote autore, e lo feci. Seppi del suo indirizzo, quartiere S. Michel Rue de Hauteleuille, mi si disse dal portiere che avrei potuto vederlo verso le 10 a.m. ; all\rquote ora indicata mi vi recai. Courbet era sull\rquote uscio del suo studio infilando la chiave nella serratura, francamente mi presento dichiarando il mio desiderio di conoscerlo, avendo visto le sue pitture, Courbet con modi semplici mi chiese del mio paese e, sapendomi italiano, di professione pittore ed invitandomi a passar nel suo studio mi diceva: "Ebbene, venite, vedrete le mie tele e vedrete una pittura che voi altri Italiani non conoscete e comprendete poco". L\rquote esordio non mi fece n\'e9 caldo n\'e9 freddo; dalle descrizioni io conoscevo il carattere dell\rquote uomo, dunque alcuna meraviglia. Courbet era un bell\rquote uomo, forse presso i 50 anni, alto, pingue, un colorito che provava una buona, salda salute, un portamento semplice e buono, qualche cosa che s\rquote avvicinava al contadino, alcuna cortesia francese. Lo studio semplicissimo, alcuna eleganza, un vecchio solaio, poche sedie, cavalletti, tele disseminare per lo studio, delle scatole ricolme di tubi di colore, grosse tavolozze, alcun pennello, io sapevo gi\'e0 ch\rquote egli eseguiva l\rquote arte sua mai col pennello, ma con le lamette, cio\'e8 con i coltelli da tavolozza, ed a colpo me ne resi conto quando osservai le sue pittore che andava mostrandomi or l'una or l\rquote altra sul cavalletto: vidi delle campagne, delle marine, e due studi di teste, ritratti dei suoi amici, mi mostr\'f2 una figura nuda di donna, la modella era una donna non giovane, grassa, una specie di montagna di carne, allungata su un divano bianco, con un enorme ventaglio bianco a fiorami colorati e foglie, nella mano sinistra e si dava aria. Le pitture mi interessarono sommamente, il nudo sopratutto, la carne con franca interpretazione, fresco il colorito, raggiante la limpidezza della luce, e tutte coteste tele trattate del pari coi coltelli, e confesso che anche per la decisa assenza del pennello le finezze del modellato risultavano preziose per disegno e precisione. Io fui contento aver conosciuto quell\rquote artista, credo non gli facessi cattiva impressione e spesso a causa dei miei laudativi giudizi Courbet si compiacque meco dicendomi: "Ah voi comprendete la mia arte, tanto meglio! resterete a Parigi: cercate uno studio in questo quartiere e sappiate che questo \'e8 il quartiere des avanti; venez ce soir \'e0 prendre votre repas o\'f9 je me rends, vous trouverez une bonne compagnie, des gents serieux, et ce que l\rquote on vous donnera c\rquote est une bonne cuisine, tout est nature!" La semplicit\'e0 e bonomia di Courbet mi rassicur\'f2 abbastanza; difatti la sera alle 6 p.m. mi recai al Restaurant indicato nei pressi della Rue de Hamefeuille ed era un cenacolo di tutti amici, quindi... era pubblico, una sola sala, una sola lunga tavola ed il pasto servivasi uguale per tutti. Arrivai con Courbet, tutti si alzarono al suo arrivo, ed erano persone simpatiche, seri [sic], gentili, uomini di spirito. Courbet mi present\'f2 con semplici parole; disse a tutti ch\rquote io fossi un pittore italiano, sedetti fra loro; dopo cena si discorse, ed io fui consolato per essermi imbattuto fra gente tanto garbata ed intelligente.
\par
\par
\par }
|