L'ARTE MERIDIONALE è stata in pochi giorni colpita da quattro
lutti e per essi perde in grande parte quella risonanza che
ancOra aveva nel sentimento del pubblico italiano. Achille
d'Orsi è morto l'8 di febbraio; Vincenzo Volpe, il giorno dopo;
Vincenzo Gemito, il primo di marzo; Francesco Paolo Michetti, il
cinque. Volpe che era nato nel 1855 non era una figura di primo
piano. Allievo del Morelli è stato soltanto un pittore
piacevole, chiaro, elegante, di aneddoti garbati e di ritratti,
a olio e a pastello. Buon insegnante, niente di originale ha
portato nella pittura italiana. Ma gli altri tre sono stati tre
maestri: insegnavano con le opere prima che con le parole. La
fama di Gemito s'era rinverdita in questi ultimi dieci o
quindici anni, da quando gli amici l'avevano affettuosamente
tratto fuor dalla clausura del suo studiolo e quasi dalla
follia. La sua scarna testa d'anacoreta dallo sguardo chiaro e
aggressivo, dalla gran barba incolta, quando appariva per via
suscitava meraviglia ed applausi perché la folla credeva di
ritrovarvi quel tanto di magia che è inseparabile dalla
creazione dell'arte, infiammate e apocalittiche parole gli
uscivano di bocca, ora indovinelli, ora ammonimenti. Niente egli
aveva aggiunto di notevole all'opera sua in questi anni, salvo
qualche vigoroso disegno, pesante ed inciso, ben lontana dai
suoi disegni, acquerelli, pastelli, tutti luce e moto, degli
anni giovanili. Ma i ritratti stupendi di Verdi, di Morelli, di
Michetti, del suo Masto Ciccio in veste di « Filosofo », le
piccole sculture davvero ellenistiche, lucide e guizzanti, dell'Acquaiolo
o del Pescatorello, sembravano rivivere ora che riviveva così il
loro autore.
Anche d'Orsi nato nel 1845 sei anni prima di Gemito, da molto
tempo non lavorava più; ma quando apparve a una Biennale
veneziana, una decina d'anni fa, il suo vecchio ritratto di
Filippo Palizzi, anche i giovani, secondo la moda, più
classicheggianti si dovettero inchinare davanti a quel maschio
verismo. Con ciò non vogliamo lodare i suoi Parassiti
del 1876, d'una brutalità trita ed inutile, o il Proximus
tuus del 1881 cui l'autore dette prima di tutto un valore di
propaganda sociale: opere senza stile. Ma ormai chi sapeva più
guardare il vero con tanto inesorabile perspicacia? Certo quello
non è il fine dell'arte; ma è anche certo che ne è il principio.
Lo stesso Canova prima di scolpire le Tre Grazie aveva scolpito
la testa di papa Rezzonico.
Come d'Orsi, Michetti da quasi trent'anni non dava più opere
compiute; ma la sua ascesa, dal Corpus Domini del 1877
alla Figlia di Jorio nel 1895, era stata tanto cosciente
e sicura che la sua fama era sempre circondata dal rispetto
universale, indiscussa. Si aggiunga il tenace affetto di lui
all'Abruzzo nativo, la sua vita patriarcale tra la collina e la
spiaggia di Francavilla, la sua snella figura che pareva anche
con la sorridente agilità sfidare la morte, l'amicizia che lo
legava a Gabriele d'Annunzio consacrata in pagine memorabili: e
si comprenderà la sua popolarità.
Il problema dell'arte meridionale, spenta la luce di queste
grandi figure, si fa anche più grave ed urgente. Chi se lo pone?
Chi cerca i rimedi? L'avvocato Limongelli che rappresenta in
Parlamento le scuole d'arte e che presiede all'Accademia di
Napoli? Speriamo.
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