Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Bollettino d'Arte - 1938-39 Anno I - Ottobre-Novembre)

Per F. P. Michetti - Discorso del Ministro Bottai in Francavilla al Mare il 31 Luglio XVI

 

Al Ministro Balbino Giuliano, che gli annunziava le onoranze, dall'Italia fascista preconizzate, per volere del DUCE, a Francesco Paolo Michetti, Gabriele d'Annunzio rispondeva: «È bello, che l'Italia novissima onori Francesco Paolo Michetti, troppo a lungo dimenticato e troppo bassamente disconosciuto. Egli non fu soltanto un grande pittore, ma fu anche un uomo di vasta vita mentale. Non cessò di dipingere, se non quando il suo spirito ampliatore e affannato dai suoi studi si volse a intendere il mistero di se medesimo e dell'Universo. Egli ebbe divinazioni e intuizioni, talvolta più belle delle sue più belle opere. Vorrei, che taluno dei suoi fedeli rivelasse agli italiani questo aspetto singolare della sua vita intima ».
È giusto l'ammonimento del Poeta. Ci voleva, oggi, qui, la parola di qualcuno, che avesse vissuto nel sodalizio spirituale della lunga, operosa esistenza dell'uomo Michetti. Io lo conobbi, appena, nella vigilia fascista, mentre le squadre d'Abruzzo si preparavano alla Marcia; eppoi, ancora brevemente, nei primi anni della ricostruzione. Ma d'una sua intuizione ebbi contezza, nei rapidi contatti. Mi parlava, egli, della partecipazione delle genti abruzzesi all'impresa fascista come d'un fatto naturale: proprio, un fatto di natura. Nessun popolo d'Italia era, secondo lui, più schiettamente popolo di questo d'Abruzzo; nessuno, dunque, più atto ad afferrare, d'istinto, per calore di sangue e vigore di spirito agreste, contadino, montanaro e marino, il significato popolare della Rivoluzione Fascista. C'intendiamo troppo, ormai, sul senso delle parole: « popolo » e « popolare », perchè io abbia a dilungarmi sul valore di questa sorprendente (e, in quei tempi, inedita) intuizione michettiana. Mi basti notarne la portata politica, per affermare, ancora una volta, che intuizione politica e intuizione poetica della vita d'una nazione, d'una razza, coincidono sempre negli spiriti superiori; mentre si dissociano e nella bassa politica e nella bassa arte. Chi ricerchi in queste ultime, come spesso avviene, unità di motivi tra politica e arte del nostro tempo perde (è proprio il caso di dirlo, anche se sembri, ma non lo è, un bisticcio) il proprio tempo. Tale unità è solo della grande arte rispetto alla grande politica; e viceversa. Al di sotto non v'è, che il compromesso illustrativo e il pasticcio retorico.

Non vorrei essere frainteso. Iscriviamo noi, forse, il nome di Francesco Paolo Michetti nell'elenco dei precursori del Fascismo? No. Sono arbitrii, dei quali non ci dilettiamo. Ma la pittura di Michetti, che tratteggia, definisce, colorisce i motivi etnici della terra abruzzese nel loro valore vivo e attuale, nella loro pregnante umanità, e ci dà, come nessuna pagina politica o letteraria ci aveva ancor dato, una rappresentazione collettiva del popolo d'Abruzzo, del suo costume morale e sociale, non meno che dei suoi «costumi» esteriori; la pittura di Michetti, dico, così attenta nel descrivere fisionomie, atti, gesti, così aderente al « paese » e alla terra, così precisa nella notazione, e pure sollevata da un'impetuosa fantasia, da una quasi selvaggia ispirazione, in un clima di leggenda, di mito, di trasfigurazione; questa pittura, insomma, è uno degli aspetti di quella rivoluzione di modi espressivi, tratti dalla stessa vita del popolo, attraverso cui l'Italia nuova si forma: contributo all'unità della nazione italiana.
Basta, a provarlo, volgerci a indicare il posto di Michetti nella storia della cultura italiana. Alla Mostra dei tre secoli della pittura napoletana, accanto a Morelli, a Dalbono, a Mancini, Michetti era, storicamente, al suo posto. E l'abruzzese Palizzi, con quel suo chiuso e sottomesso amore per le più umili, silenziose, naturali apparenze, pareva indicare la via, per la quale Michetti, con gli occhi pieni di sole mediterraneo e l'anima sazia delle aspirazioni inquiete della brigata artistica napoletana, doveva ritornare alla sua terra e alle sue genti d'Abruzzo.

C'erano, dunque, tutti gli elementi, per costruire correttamente il problema critico della pittura di Michetti. Ma, se la pittura di Michetti, come la poesia di D'Annunzio, ha aperto i suoi fiori e maturato i suoi frutti in più larghe contrade, in questa terra d'Abruzzo affondava salde le radici, che alimentavano di linfa vigorosa e genuina la fioritura. Per comprendere, di quell'arte, le origini terrestri, al di là delle formule critiche, bisogna percorrere attenti la strada, che dalle spiagge tirrene, attraverso la montagna, conduce a quelle adriatiche; e incontrare, nel cammino, le genti assorte, arcaicamente religiose, del Voto. Nella storia della pittura napoletana, la diversione abruzzese di Michetti rettifica la rotta precipitosa del romanticismo di Morelli, presto spento e rinserrato nei suoi stessi limiti, dopo il primo fuoco accecante ed il primo generosissimo slancio. Lo stesso Mancini, che pure più di Michetti partecipava della cultura artistica napoletana e dei suoi sforzi per diventare, da municipale e regionale, nazionale, ed europea, reagisce con la violenza visiva del suo colorismo alla letteratura romantica morelliana e preferisce abbandonare l'emozione pittorica al lampo improvviso della veduta, piuttosto che provocarla con intellettualistica esaltazione. Del resto, neppure la passione rivoluzionaria, trionfalmente appagata con l'unità della Patria, animava più quel tramonto romantico. Gli ultimi guizzi dell'antica fiamma s'attardavano a scaldare nell'animo degli artisti più meditati interessi per i nuovi problemi sociali, nel Mezzogiorno più che mai gravi ed urgenti. Questo impegno umanitario e la volontà di ricomporre, sulle macerie riarse dell'Accademia, una nuova e più salda tradizione formale conducevano necessariamente a un rinnovato realismo e, al tempo stesso, al tentativo di superarlo in un'ampia liricità umana. Da questo ambiente esce, con il romanzo verista del Verga, la pittura di Michetti.

Nella storia della cultura italiana, la diversione abruzzese di Michetti ha un significato più esteso, anche perchè per un buon tratto affianca, e finalmente incontra, il percorso umano di un altro uomo d'Abruzzo: Gabriele d'Annunzio. V'è chi pensa, che l'incontro con Gabriele d'Annunzio abbia praticamente annullato l'emancipazione stilistica di Michetti, coinvolgendolo nuovamente in una rete di interessi letterari e illustrativi. Ma, se il mondo fantastico dei due artisti s'identifica nella Figlia di Jorio, del '95, dove la pittura innegabilmente aderisce, fino ad esserne la versione grafica, all'immagine poetica dannunziana, l'incontro umano tra quelle due anime è assai più antico. Risale almeno all'83, l'anno del Voto, che rimane, indiscutibilmente, l'opera più alta e più abruzzese di Michetti. In essa è ancora la vampa romantica accesa da Morelli nella fantasia dell'allievo; e la composizione storica ad alto potenziale drammatico ha appena ceduto il posto alla più riflessiva preoccupazione sociale. E palese, anche nel contenuto, il rapporto con il Verga dei Malavoglia e il D'Annunzio di Terra Vergine e delle Novelle della Pescara. Ma la coincidenza, invece che con l'incrociarsi delle influenze letterarie, si spiega con la presenza di uno stesso problema ideale. Non più nella prospettiva lontana della storia, in forma di esempio istruttivo, ma nella realtà quotidiana, nella vita stessa del popolo si manifestava solenne l'eterno dramma dei destini umani. E non importa, che a quella scoperta conducesse un resto di enfasi romantica o una corrente importata di oratoria sociale, se la mina retorica, dopo il chiasso dell'esplosione e il disordinato crollare dei detriti polverosi, metteva a nudo una lucida vena di metallo sano e senza scorie.

Assai più che nel contenuto paesano e nei pretesti sociali, Michetti e D'Annunzio s'incontrano in una ricerca più meditata, sotterranea, ansiosa, d'una nuova limpidezza formale, che pienamente appagasse, esprimendola, l'inquietudine dei conturbanti problemi attuali. Nel Voto, Michetti già si discosta dall'identità di contenuto e di « effetto » drammatico; e, invece di dispiegare in livide luci lo scenario tragico, più pensosamente indaga il dramma dei singoli, quasi a rintracciare la storia oscura delle loro vite. Fino all'istante, in cui esse concorrono, come per l'improvviso e imperioso rivelarsi di un fato comune, nell'unica vicenda, che, in un'esaltazione di umiltà, le redime dal passato mortale e apre loro, confortante, la visione d'una possibilità eterna. Nello stile incisivo, ora martellato e pesante di evidenze realistiche, ora liberamente esaltato nell'improvviso scoppio dei colori, è impossibile non riconoscere quella stessa simultaneità d'intensità e d'insofferenza nel caratterizzare, quello stesso trascorrere rapido dall'aderenza realistica al puro impeto lirico, ch'è tipico delle prime opere di D'Annunzio, che dà loro quell'accento arcaico e quasi selvaggio, che poi si svilupperà classicamente nel panico amore del cielo, della terra e degli eroi. Questa coincidenza, non esterna, e pienamente spiegabile con il gioco delle relazioni e delle influenze letterarie, si giustifica soltanto con un'uguale flessione del sentimento, con un identico fermento umano, con unico amore: l'amore di questa terra e di queste genti d'Abruzzo, della loro antica e inflessibile moralità, del loro duro lavoro, del loro costante e devoto sacrificio, della loro arcaica solennità di vita. Il dramma romantico s'incarnava, così, in un'alta, contenuta classicità.

Dopo questo primo, rituale incontro sulla terra natale, divergono le vie dei due maestri. E non interessa confrontare il più limitato cammino di Michetti con quello, che, con ben altra certezza eroica, ha saputo percorrere D'Annunzio, fino a identificare con la propria anima e la propria passione, nell'alba prima della Rivoluzione, l'anima e la passione della Patria, se proprio in questa terra era la fonte prima di quella certezza, il segreto magico di quella forza. Non doveva Michetti seguire l'amico sulla via di quella gloria. Il suo mondo era più stretto, più sommesso il suo canto. Ma quel suo mondo era sempre il vostro mondo, il suo canto il vostro canto. Ed io vi dico, che aver profondamente compreso ed espresso, nelle nobili forme dell'arte, l'anima dell'Abruzzo, la devozione delle sue genti, l'eroismo silenzioso dei loro cuori, è stato un contributo non piccolo alla fusione ideale della Nazione, all'affermazione delle antiche virtù della nostra razza. La storia della vita di Michetti è già antica, anche se vicina nel tempo. Molte cose sono accadute. La gente d'Abruzzo le ha vissute con tutta la forza, la dedizione, la capacità di sacrificio, la religiosità profonda, che Michetti aveva in essa così intensamente sentito. V'è stata una guerra, una rivoluzione, una nuova guerra; è rinato un Impero. Se noi ripensiamo ai fatti, che hanno preceduto questo rinnovamento e l'hanno in certo modo preparato, scopriamo, che quei fatti sono tutti strettamente legati alla vita del popolo, che tendevano sempre a scoprire le più profonde e preziose energie della razza.

Tutta la storia delle più vive correnti ideali e dei fatti più significativi dell'anteguerra, della guerra, della rivoluzione, è la storia della scoperta e del riconoscimento delle virtù e delle energie del popolo italiano. È impossibile non avvertire, nell'improvviso interesse e nel fraterno amore per il popolo, le sue esigenze, le sue qualità e i suoi problemi, che sul finire del secolo scorso e sul principio del nuovo, penetrò la parte migliore della cultura, dell'arte, della letteratura italiane, un presentimento del destino, al quale quel popolo stava per esser chiamato, del sacrificio che lo attendeva, della nuova gloria che doveva sbocciarne. Non importa se, nella contingenza dei fatti, l'arida discussione del problema sociale prevalesse sull'amore umano, che l'accendeva. L'importante è, che il problema nasceva dal sentimento e non dal calcolo economico. Che così fosse è dimostrato dal fatto, che a quei problemi e a quelle esigenze erano sordi gli uomini di un governo, che pure si faceva chiamar democratico; e che soltanto dopo l'incendio risanatore della guerra, nella coscienza della vittoria del Fascismo, il problema del popolo italiano trovò la sua soluzione, e non certo in una formula economica, ma proprio nell'esaltazione delle masse affratellate e fuse in una sola volontà, in una sola passione, in un solo, altissimo scopo.

Fu, appunto, l'amore caldo per il suo popolo d'Abruzzo, che impedì a Michetti di trascendere nella questione sociale, che avrebbe inaridito le fonti del suo sentimento e spento il fuoco della sua arte. Poiché la vera comprensione, quella che nasce dall'amore e si manifesta nella partecipazione attiva e costante, non pone astratti problemi, ma rivela e impone esigenze morali. Michetti ha capito, che il popolo d'Abruzzo non poteva essere il dato di un problema; o che, per risolvere il problema, era necessario non livellare, ma esaltare le virtù di quel popolo, rivelarlo agli italiani e al mondo, scoprirne l'antica e immortale bellezza. Non facciamo il bilancio dell'opera pittorica di Michetti. Ci basta dichiarare, che Michetti, da buon abruzzese, non è venuto meno al suo compito umano. E così lo ritroviamo presente e vivo tra noi, anche se la nostra ora storica non è più la sua ora. Michetti ha assolto all'arduo compito. Pittore, egli ha, in termini strettamente pittorici, partecipato a quell'opera di rivelazione, interpretazione, raffigurazione, per cui le molte vite dell'itala gente hanno confluito in unica vita. Per ciò, la nostra generazione di lottatori politici e di soldati lo saluta ed onora nel cielo dei suoi eroi.
Giuseppe Bottai