Pillole d'Arte

    
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(Fonte : La Stampa 10-11-1933)

Vittorio Corcos (necrologio)

 Vittorio Corcos, (Livorno, 4 ottobre 1859 ? Firenze, 8 novembre 1933) di cui è stata annunciata ieri la morte, fu uno spirito elegante nella persona, nella vita e nell'arte. Nato a Livorno, quando più ferveva la battaglia dei «macchiaioli», passò la sua giovinezza in Francia, dove si formò la sua visione artistica: quella di un'arte facile e piacevole, qualcosa tra il Bouguereau e lo Chaplin, fatta più per lusingare le grazie muliebri che per esprimere una nuova idea in una tecnica audace. Ed ebbe successo. Ma il primo a riconoscere le manchevolezze di quell'arte e di quella tecnica è pur sempre stato lo stesso Corcos, perché in lui vi erano due personaggi distinti: il ritrattista mondano che sapeva con molta sapienza contentare le clienti più difficili, senza pur deviare dal buon gusto e da quella eleganza che gli era propria, e l'artista critico ed acuto che dalla nativa Toscana, in quell'ambiente speciale in cui aveva trascorso i primi anni, derivava quel senso profondo e quel sicuro giudizio estetico che facevano di lui un cosi piacevole conversatore. Questo secondo personaggio era meno conosciuto dal grosso pubblico, ma infinitamente apprezzato dal suoi amici, i quali contavano tra i più avversi alla sua maniera e tra i più intransigenti contro le formule estetiche da lui seguite.

Così, per esempio, egli ebbe tra i più fedeli frequentatori della sua casa quel Telemaco Signorini, così fondamentalmente diverso da lui e così implacabilmente demolitore di tutte le formule che non fossero le sue formule d'arte; e, pure, di Vittorio Corcos il Signorini fu amico ed estimatore, appunto perché ne conosceva l'intimo pensiero. Del resto non bisogna dimenticare che il Corcos fu uno di quei ritrattisti quali ve ne sono sempre stati - e taluni grandissimi anche - in ogni secolo ed in ogni nazione, perché accanto ad un Tiziano v'è sempre stato un Bronzino, ed accanto ad un Chardin una Vigée Lebrun. Questi pittori, che io chiamerei i pittori della moda, si compiacquero di esaltare soprattutto l'eleganza esterna della donna, il che non vuol dire che fossero di un rango inferiore, perché anche l'eleganza muliebre assume in certi momenti l'importanza di una funzione rappresentativa. Ora il Corcos fu, ai giorni nostri, uno di quei pittori; e la serie dei suoi ritratti rimarrà documento di quel che era tra la fine del 19° ed il principio del 20° secolo la nuova società italiana, con le sue eleganze un po' artificiose e le sue pomposità dovute più ad una frettolosa ricchezza che ad un lungo raffinamento di secoli.

Ma, d'altra parte, quando fu libero di esprimere tutta la sua arte - come in certe figure virili che sono alla «Leonardo» di Firenze, o come l'indimenticabile ritratto della Regina Margherita - ci dette un esempio di quello che avrebbe saputo e potuto fare. Il ritratto della Regina Margherita, dipinto nel suo ambiente familiare, è tra i migliori che siano stati fatti di quella Sovrana: paragonatelo con quello, tanto decantato, del Mochetti, e vedrete quanto questi sia superficiale ed appariscente in confronto alla racchiusa intimità della tela del pittore livornese. Egli è che la Regina Margherita aveva lasciato ogni libertà di azione al suo ritrattista e questi l'aveva resa così come l'aveva veduta, tra i suoi mobili ed i suoi ninnoli, nelle stanze del Quirinale. Racchiusa intimità, si è detto, ma squisita sovranità, sempre. Perché il Corcos fu, soprattutto, uno spirito aristocratico: in lui non vi era niente di quella esuberanza scapigliata che fu di moda tra taluni artisti della sua epoca: sia che esprimesse un giudizio, sia che affermasse un principio, sia che combattesse una opinione contraria alla sua, non usciva mai da quella compostezza di persona per bene, che fu la sua caratteristica principale.

Mi ricordo sempre di una lezione che egli dette in tempo di guerra a certi ufficiali stranieri con i quali viaggiava nel medesimo scompartimento ferroviario. Egli era vestito a lutto per la perdita recente di un suo figlio adorato, morto al fronte, ed i due ufficiali, credendo che la loro lingua non fosse compresa da quel compagno di viaggio, parlavano con molta leggerezza della guerra nostra, dicendo che, in fondo, il fronte italiano era un fronte da burla e che da noi non c'erano stati morti. Il Corcos li lasciò dire, poi quando ebbero finito, rivolgendosi a loro nella loro lingua, che parlava alla perfezione, disse con tono gentilissimo, ma reciso: "Vedete, signori, io porto il lutto per un figlio che ho perduto al fronte, e quello che voi dite è falso ed ingiusto; voi siete molto giovani e permettete ad uno assai più vecchio di voi di darvi un consiglio: siate cauti nel vostri giudizi, per evitare di dir cose non vere, che vi faranno torto e che potranno anche riuscire crudeli come nel caso presente". I due non seppero che rispondere e si scusarono; poi, alla prima fermata, scesero e non si fecero più vedere. La corretta ed anche cortese lezioncina di Vittorio Corcos aveva ottenuto maggior effetto che non l'apostrofe più violenta. Né, facendo così, aveva fatto cosa diversa da quello che era il suo temperamento; perché egli apparteneva a quella categoria di gentiluomini - un po' sorpassata oggi - per i quali la parola gentile, l'atteggiamento elegante, l'attenzione cortese, sono veramente naturali come una seconda natura.

Uno degli ultimi ritratti da lui dipinti, fu quello di una giovanissima ed elettissima Principessa Reale: costei fu così contenta dell'opera sua che lo volle avere ospite nel suo palco, una sera di rappresentazione musicale. Il Corcos vi andò e fu ricevuto con quella grazia che è propria della gentil signora; ma, dopo un po' di tempo, egli si accorse che ella era nervosa e che, nonostante l'attenzione prestata alla scena, aveva qualche piccolo movimento che dimostrava come le mancasse qualcosa: Vittorio Corcos capì e, senza averne l'aria, si tolse di tasca il portasigarette e lo porse alla sua ospite regale, che lo accettò con un sorriso di riconoscenza. E Corcos uomo, era tutto in questa attenzione discreta e di buon gusto. Discrezione e buon gusto: si potrebbe dire che tutta la sua vita si possa compendiare in queste due parole, perché nessun artista mai cercò, meno di lui, l'imbonimento rumoroso e l'esibizionismo vano. Egli lavorava, sì, per il guadagno necessario alla vita, ma, anche, per il piacere che questo lavoro gli procurava; piacere intimo, di buon operaio - nel senso più nobile della parola - per il quale la perfezione raggiunta è il premio più ambito alla sua fatica: tanto che il giorno in cui non ha potuto più lavorare, è morto. Qualche mese fa i medici, allarmati da certi sintomi che in lui si andavano manifestando, gli avevano ordinato il più assoluto riposo. "No, amico mio - diceva ad un suo intimo che lo incoraggiava, facendogli osservare che, dopo tutto, la sua opera era già vasta e che un po' di quiete sarebbe stata per lui assai benefica. - No, amico mio: viver senza più dipingere?  È impossibile ! Sento che il riposo mi ucciderà...". Ed è stato profeta.

Diego Angeli