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Fonte : I miei ricordi - Massimo Taparelli D'Azeglio
(Capo Decimoquarto)
(Letteratura Italiana Einaudi - Edizione di riferimento : Barbera,
Firenze 1891)
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La formazione artistica di Massimo D'Azeglio
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... I miei studi in materia d’arte progredivano intanto col
medesimo fervore: a Roma nello studio di mastro Verstappen,
ed in villa dal vero. Martino Verstappen d’Anversa era uno
de’ migliori e più interessanti artisti di quell’epoca. Egli
dalla nascita mancava della mano diritta; invece della quale
ebbe solo due o tre informi dita che pur gli servirono a
tenere una tavolozza combinata apposta per lui, e dipingeva
colla sinistra. Ebbe i meriti come i difetti de’ Fiamminghi:
colore, esecuzione e poco disegno. ? Ma fu tanto il suo
amore del vero, e non del vero brutto, ma del vero bello,
tanto il suo affaticarsi a studiare in campagna ad onta di
tutti i pericoli, gl’incomodi e le fatiche, che giunse a far
quadri dotati del primo fra i meriti, quadri simpatici e che
incontravano, coi quali radunò tanto da poter vivere
convenientemente.
Quest’uomo dabbene era ottima persona, ma viveva ritirato,
fuggendo non solo le compagnie allegre, ma tutti in
generale: s’alzava col giorno, lavorava fin che ci vedeva, e
poi la sera faceva miglia e miglia per Roma, sempre solo,
coll’unico fine di scuotersi e far lavorare le gambe. La
robustezza sua esigeva gran moto, e per non perdere il
giorno, camminava la sera, piovesse o diluviasse. A questa
sua vita romitica veniva condannato da un carattere
diffidente al superlativo grado. Era venuto in Italia Dio sa
con quali idee sugl’Italiani: e non dico che sieno angioli.
Ci sono anzi, e v’erano a Roma, in ispecie allora, galeotti
a iosa d’ogni categoria; ed anche senza parlar di birbi,
gente alla quale un po’ per profittarsene, un po’ per gusto,
non sarebbe parso vero di metter in mezzo, e dar delle
corbellature (frase tecnica) ad un tufo Tedesco, e farlo
Martino: che in gergo vuol dire appunto farlo restar
minchione.
Fatto sta che, ragione o non ragione che avesse, nessuno lo
vedeva, non trattava nessuno, neppure i suoi scolari, che si
riducevano a due, un giovane romano ed io. Il detto giovane
era figlio del suo padrone di casa, lo scultore cavalier
Pacetti, ammesso, credo io, soltanto per la quasi
impossibilità di dirgli di no. Io ero stato ammesso per
motivi analoghi, ma credo che ci vedesse con quel piacere
con che gli occhi vedono il fumo della legna verde. Tutto il
vantaggio che si ricavava alla sua scuola, ecco qual era. Il
quartiere si componeva d’un’anticamera con finestroni da
studio, nella quale rimanevano esposti i suoi quadri finiti,
finché fossero mandati al loro destino. Un altro studio
nella camera vicina, dove lavorava lui, e dal quale si
passava in altre camere ignote ai mortali. Il mastio di
Castello è abbastanza ben guardato; ma non ha che far nulla
collo studio dove dipingeva il maestro.
Era sempre chiuso a catenaccio, e non s’apriva se non ogni
tanti giorni, e mai regolarmente. Veniva allora fuori il
buon Martino con una faccia di mela cotta, e due occhi
bianchi e tondi come due colonnati. Noi si stava copiando
qualche brano de’ suoi quadri. Egli si piantava dietro la
nostra sedia, guardava senza fiatare per cinque minuti, e
noi che se ne sapeva poco, che ignoravamo
metodi, regole, furberie dell’arte ? nessuno ce l’insegnava
? s’aspettava come voce d?oracolo qualche buon precetto. «Un
poco turo»: ecco la gran sentenza; e passava all?altro
scolare. Di nuovo cinque minuti di contemplazione e poi: «Un
poco pesante»; e via per i fatti suoi: ché essi e non noi
erano cagione che vedesse ogni tanto i nostri pasticci.
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Egli intendeva le relazioni da maestro a scolare all’incirca
come (salvo l?amorevolezza) l’intendevano gli antichi
pittori. Se accettava scolari, intendeva che si prestassero
gentilmente a fargli anche un po’ da servitori. Quest’idea
non mi dispiaceva poi tanto. Ci trovavo un certo che di
patriarcale e di onaccio, che escludeva ogni aspetto
umiliante. Io non so nulla, egli ne sa assai: io ho bisogno
di lui, egli non ha bisogno di me; il mio fine non è nè
l’interesse nè l?ambizione ma l’arte.? e poi, devo
confessarlo, nella mia natura uno spruzzo del Don Quichotte
c’è. Nel modo che a questi pareva d’essere un camerata di
Tristano o Lancillotto, a me pareva d’esser uno de’ tanti
allievi delle antiche scuole, i quali erano di casa del
maestro, facevano ogni cosa per lui, e lo tenevano qual
padre, ed anche qual padrone.
Per due o tre anni ho quindi, non dico spazzato o portata
l’acqua, ma aperto l’uscio di casa quando si picchiava,
ricevute e fatte ambasciate, portati quadri, e prestati in
fine tutti quei servigi, che, se erano al di sopra d’un
servitore d’ultima categoria, potevano però stimarsi al
disotto d’un discendente di tanti eroi, come d’un presidente
del Consiglio in erba. Che ne dice? facevo bene? facevo
male, accettando di essere scolare all’uso antico di Giotto,
Masaccio e simili; quando i pittori avevano bottega, famigli
e fattorini come i pizzicagnoli?
A ogni modo v’è un’osservazione che può militare in mio
favore. Se ho fatto il servitore per amor dell’arte, non
l’ho fatto, vivaddio, mai per essere aiutato a salire su per
quell’albero di cuccagna in cima al quale, invece di salami
e capponi, sono appese croci, gran cordoni, diplomi di conti
e portafogli di ministro. E mi sembra in coscienza che il
peccato di servilità non sia quello che mi metterà in guai
il giorno del Giudizio.
Per esser fedeli alle tradizioni artistiche, di quando in
quando si prendevano poi delle piccole vendette contro il
selvaggio maestro. Se, per esempio, si desiderava da
parecchi giorni la sua comparsa ? chè alle volte si scordava
per un pezzo che si fosse al mondo ? veniva deciso in
consiglio che bisognava fare un esempio. Si disponeva allora
un catafalco di cavalletti, sedie, telai in modo che non
potessero però succeder danni; e poi una spinta, e giù tutto
per le terre, che pareva rovi nasse la casa. Il povero
Martino vedeva già i suoi quadri sfondati; e, le dico io,
che sbucava fuori in un lampo!
Naturalmente era preparata la risposta al «Cosa è stato?»
ansioso che lanciava, tirando il catenaccio, nella camera
della sua esposizione. Come vede, se l?istinto birichino non
era più il padrone di casa mia, neppur però poteva dirsi
affatto fuor dell?uscio. Già un grano ne’ giovani dà grazia,
ed in me non era certamente in dose maggiore. Il mio morale
principiava a dare lontani segni di volersi maturare. Io mi
sono maturato adagissimo, non mi sono sentito diventare
uomo, non sono giunto a formarmi forti persuasioni, né a
concepire idee nette e fondate circa la maggior parte dei
fenomeni morali, sociali e politici più importanti, se non
tardissimo. Questa tardità è forse inerente al mio
intelletto: forse essa è nata dal bisogno che naturalmente
ho sempre provato di conoscere il vero, per quanto si può,
su tutto, senza potermi né contentare della probabilità, nè
rassegnare per culto all?autorità.
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A volere da sè rendersi ragione di tutto, ci vuol tempo. A
quei giorni questo lungo e spinoso lavoro lo incominciavo
appena; diciamo inoltre che non era la mia età quella del
raziocinio, ma quella dell’affetto e della passione. Io che
ero destinato a provarne delle ardentissime in più di un
genere, mi trovavo allora in un curioso stato: sentivo tutta
la forza della passione, ma senza oggetto che le desse
corpo, anima e vita. La mattina presto andavo spesso a
passeggiare ne’ boschetti di villa Borghese; avevo con me
carta, album, lapis, tutto l’occorrente sia per disegnare
che per scrivere; sedevo solo a qualche ombra, e poi non
veniva fuori nè scritto nè disegno. Aspirazioni, desideri,
presentimenti, speranze, sogni d’amore, di gloria, di
sventure, d’atti luminosi, arditi, m’accendevano
confusamente l’immaginazione ed il cuore. Era uno stato
penoso appunto, per essere senza scopo e senza uscita, ma
che destava in me un’intima gioia, per la pienezza di vita
di che m’inondava. Sbocciava nel mio essere quel fiore
misterioso che s’apre nell’anima nostra per segnarne la
primavera. È questo un gran tesoro, il maggiore di tutti a
chi ne sa profittare, perchè messaggero della più potente
tra le forze poste da Dio a disposizione dell’uomo. Ma
purtroppo dai più il tesoro si getta alle passioni, la forza
si disperde nel vano, e si conosce il danno quando è troppo
tardi! In quante cose di questo mondo chi sa non ha, e chi
ha non sa!
Io aveva appunto fatto come i più in quella mia primissima
gioventù, anticipata dalle circostanze, ma che di fatto era
adolescenza: il primo fiore dell’anima e del cuore l’avevo
calpestato nel fango; ma grazie agli esempi e all’educazione
avuta, grazie a Bidone, quella vergognosa pazzia finiva a
tempo; non era completo il pervertimento; in me la sola
corteccia era intaccata. Forse a ciò contribuiva la mia
natura, dono di Dio e non fattura mia: natura dalla quale
difficilmente si cancella quella bella, giovenile impronta
che così bene custodisce i generosi pensieri. Difatti io non
mi sono invecchiato tutto d’un pezzo. La giovinezza
dell’anima è durata in me moltissimo, mentre invecchiava il
corpo, e neppure ora la trovo spenta. Dal 60 in qua soltanto
mi comincio a sentire il cuore invecchiato. La speranza è
l’aroma che meglio lo conserva giovane, e gli anni (è questo
il loro più amaro oltraggio) ne portano con sè parecchie ad
ogni rinnovar di stagione.
Si figuri dunque che cosa dovevo essere nel 1819-20. Cercavo
una via che desse corpo e vita a quel risplendente avvenire
che mi appariva in sogno. Nella pittura immaginavo vie
nuove, nuovi concetti; non i quadri fatti colla ricetta de’
manieristi del secolo XVIII; non la minuta e scrupolosa
imitazione del vero de’ pittori nostri del tempo mio, chè,
se tutto stesse in essa, si darebbe la palma alla fotografia
sulla pittura. Allora non potevo mettere in conto
l’imitazione, neppure scrupolosa, del brutto, non avendo
ancora il realismo invaso la classe de’ paesisti. Eppure,
poichè parlo di ciò, la scuola realista nella pittura del
paese è un invenzione che fa onore all?ingegno umano.
C?era chi non aveva scintilla artistica, non sentiva il
colore, non aveva voglia di lavorare. Un balordo se ne
sarebbe rimasto umile umile dicendo: ? non ho le qualità per
diventar pittore; pazienza, e così sia: farò il falegname. ?
L’uomo di talento ha detto invece: ? Che cos?è questo
eseguire, questo comporre, questo colorire, questa pulizia
di tinta, questo lampo di vero? Tutte scioccherie dei codini
dell’arte vecchia. Ecco l’arte nuova, l’arte dell’avvenire...
E quel che ci ha servito in tavola, chi ha occhi lo vede. E
il pubblico se ’l beve. Ma lasciamo questo discorso per ora.
Troverò luogo più a proposito per parlare d’arte e
d’artisti. Discorso lungo.
Io dunque anche in arte facevo castelli in aria, e mi
pascevo di fantasie; ma siccome conoscevo dovermi prima di
tutto rendere padrone della tavolozza, dell?esecuzione,
della facoltà di colpire il vero, badavo intanto a mettere,
faticando assai, questo primo fondamento.
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Massimo Taparelli D'Azeglio
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