Pillole d'Arte

    
Autori   |   Opere   |   Documenti   |   Bibliografia   |   Contatti   |   Esci

 
(Fonte : La Fiera Letteraria - nr 18 - 3 maggio 1953)

Massimo Campigli - Poesia di una volontà arcaica

Aspirazione a un mondo intatto

Non solo la poesia del nostro tempo, ma le arti figurative sembrano in particolar modo racchiudere, più spasimosa che mai, una nostalgia di beate origini. Come si sa ogni forma d'arte reca in sè l'aspirazione a una specie di infanzia splendente e incorrotta. Lo stesso gusto del ritmo e del colore, della materia preziosa, dell'armonia e della simmetria, implicito nella più elementare trama sensuale dell'ideazione artistica, già di per se comporta il ritorno ad uno stadio anteriore al realismo intellettuale, alle divisioni e opposizioni ragionative o passionali che son proprie dell'età adulta; il miracoloso cicatrizzarsi delle profonde lacerazioni che la vita irremissibilmente inferisce alla nostra sensibilità. In questo ritorno all'infanzia, in questo ricomporsi dell'indivisione originaria attraverso l'atto della creazione è il segreto dell'efficacia consolatrice dell'arte.
Ma qui si vuol dire qualcosa di più. Questa inconscia aspirazione ad un mondo coerente ed intatto, che l'arte implicitamente afferma con la sua stessa esistenza - anche e soprattutto quando toglie a suo argomento il male e il dolore - diventa a sua volta nella poesia e nella pittura d'oggi, oggetto d'ispirazione. Si ha così il paradosso che a un grado superiore di coscienza intellettuale corrisponde un sentimento meno articolato più informe e primordiale, un'emozione più selvaggia. Così la poesia ritorna all'idea lirica più immediata e senza storia, le arti figurative all'infantile e all'arcaico. Di questa volontà profonda, così propria del nostro tempo, la pittura del Campigli mi sembra esemplare. I primitivismo di Gauguin fiorisce ancora in un'aura romantica. I suoi arbusti stilizzati, i sui nudi d'indigene arieggianti gli schemi egiziani, i suoi fondi piatti, la scontrosa rudezza del suo segno non arrivano ancora a mortificare del tutto la lussuosa nostalgia dell'esotico ch'era stata cara a Chateaubriand e a Delacroix. L'interesse di Picasso per l'arte negra o messicana è un'avventura tra le molte della sua inesauribile vena di stilista e d'inventore di grandi giochi plastici. Quando alla cosiddetta "pittura popolare", all'infuori dei pochi casi genuini, chiaro è oggi il facile equivoco ironico  e sentimentale su cui essa sorge di solito. Campigli è invece tutto in questa sua volontà arcaica con un impegno così necessario da far pensare a una fissazione.
Se la critica fosse psicologica - ma, se pur della psicologia non può far a meno, è necessario che il suo discorso si svolga in un'altra zona - potrebbe farsi considerazioni interessanti sul mondo delle preferenze decise del nostro pittore, ch'egli stesso ha del resto confessato con molta chiarezza in certi suoi scritti. La cifra e il poncif sono assai più rivelatori, in arte, di quanto lo possano essere i modi avventurosi e svagati, la casualità e anonimità istintive del segno, in una parola la "sincerità". Come, in biologia, la filogenesi ripete l'ontogenesi e l'individuo riproduce nel suo ciclo vitale l'intero ciclo evolutivo della specie, così in Campigli l'immemoriale visione infantile in qualche modo ricalca quella, in altro senso immemoriale, dei cretesi o degli etruschi. Le sue figurine di donne nude o vestite, ad anfora o a clessidra, che si stagliano sul fondo di calcinoso affresco, di sabbia o di terracotta, sono in paritempo le bambole dell'età minoica e le mamme dei primi anni del novecento, col busto e le gonne a campana; di quell'epoca in cui il fanciullo scopriva assai tardi, e a stento, che anche le donne avevano le gambe.

La sua sommarietà e schematicità di forme, la creta e la sabbia di cui egli le impasta, rievocano bensì il senso delle concrete e gravi materie che sembrano entrare come elemento essenziale nella visione dei primitivi, ma incarnano in pari tempo un sogno, un mito, un'idiosincrasia individuale. E questa sua predilezione per la figura femminile "stretta in un rigido busto", rappresenta "nelle sue costanti, nella sua forma di ieri e di sempre", potrà formare il tema di un romanzo dell'infanzia segreta, rifiorito attraverso gli anni in un assorto, raffinato idoleggiamento di formule arcaiche. Ma la psicologia può soltanto illuminarci il rovescio soggettivo e muto dell'arte, la sua funzione, per così dire economica nella struttura intima dell'individuo: nulla può dirci riguardo a quella possibilità di partecipazione universale che dell'arte forma il senso intelligibile e il valore. All'estremo opposto, la trascrizione letteraria ne fa un mondo, un paesaggio di fantasia, in definitiva un puro oggetto. E noi sappiamo che l'arte di Campigli si presta fin troppo bene ad essere rievocata ed illustrata letterariamente: tutti rammentiamo le immaginose trasposizioni liriche di Raffaele Carrieri, la sua efficacia descrittiva è tale da costituire già un principio di qualificazione critica. Questa possibilità di giungere, per via psicologica o per via letteraria, al nucleo dell'arte di Campigli, è certamente un sintomo che ci rassicura della sua esistenza. La elaborazione letteraria morde su un tema che appare fin dapprincipio tenace e destinato. Dire Campigli significa evocare senza equivoco possibile una nota, una tonalità, una "cifra" estremamente definite. L'idea di un meriggio solare e cretaceo, su cui si stampano quelle sue creature rigide e sommarie, appena sbozzate; i suoi busti femminili, feticci da bersaglio o da fiera in nicchie di catacomba o di vecchia cantina; o le ariose architetture delle pettinatrici; o le sue serie di teste attonite e rotonde in vertiginosa moltiplicazione ritmica. Una tavolozza sorvegliata ed estremamente sobria, principalmente giocata sulla terra di siena cruda o bruciata, e poi sull'ocra, sul rosa, sul nero; dove un tocco di celeste, una sbavatura di verde, una riga di turchino s'insinuano talvolta con un senso di limite varcato, di gustoso ardimento. Il contorno s'imprime sulla tela con la voluta faticosità d'una traccia, o con la scabra intensità di un rilievo. L'arabesco compositivo ritorna con leggere variazioni in ogni quadro incarnandosi quasi indifferentemente in simboli diversi: la nicchia si trasforma in braccio levato, in parasole, in finestra, in due donne abbracciate. Anche l'apparente accidentalità della composizione degli elementi del quadro si chiarisce in un ritmo di geometrie distratte, quasi tracciate inizialmente dal puro automatismo della mano abbandonata a se stessa. Che la fisionomia caratteristica del suo stile è così netta da ricondurci al "tic" individuale, alla fisiologia.

L'intenzione plastica di Campigli può, sotto un certo aspetto, definirsi come un ritorno al puro ornamento. Campigli è il pittore di fronte a un muro da coprire con figure(egli è forse il solo infatti, tra i pittori nostri contemporanei, per cui la rinnovata pratica dell'affresco non abbia avuto nulla di programmatico, ma sia apparsa come una delle soluzioni naturali del suo gusto). Gli ultimi secoli di pittura ci avevano educati a considerare spiritualisticamente il quadro come la proiezione di un'immagine. Ormai separato dalla sua primitiva destinazione utilitaria, senza più memoria della sua funzione ornamentale e rituale, esso ci appariva una semplice visione del mondo esterno riflessa in uno specchio interiore e isolata in uno spazio ideale e fuori del tempo dall'incantesimo della cornice. Per Campigli, che anche in ciò interpreta le più riconoscibili tendenze dell'arte modernissima, più che evocazione di un'immagine il quadro è esso stesso un oggetto. Il quadro di Campigli è anzitutto una superficie materiale, un pezzo di muro, un mattone, una tela bianca: egli imprende a decorare questa superficie, il che non significa già nasconderla, annullarla come tale nell'immagine sovrapposta, ma, al contrario, metterla in valore nella sua freschezza e scabrosità di materia. Si sa il partito che in ogni tempo la buona pittura Ha tratto dal semplice piacere visivo o tattile dei materiali di cui è composta. Campigli, da vero figlio della nostra epoca, persegue questo gusto elementare, quasi fisiologico, dell'ornamento puro, della pura decorazione (ciò che oggi suole chiamarsi "pittura pura") come un fine in se. Ma ciò significa per lui in pari tempo ritornare al gusto oggettivo, per dir così, funzionale, dei primitivi. E non a caso il nostro artista confessò una volta di preferire, nei musei, alle sale dei capolavori "quelle delle curiosità millenarie, degli oggetti domestici, delle armi". Da qui la sua predilizione, oltre che per la forma arcaica, degli stessi mezzi più antichi e semplici per l'elaborazione tecnica della pittura: l'acqua, la sabbia, la calce; e il suo sospetto per la pittura ad olio, mezzo troppo denso e destinato a imbersi compiutamente e senza residui nell'immagine formata. E se egli, com'è oggi inevitabile, deve pur ricorrere a tal mezzo, cerca per quanto gli è possibile di alleggerirlo e di farlo dimenticare.

Di qui infine il particolare accento patetico che questa sensuale castità del mezzo tecnico induce nella pittura di Campigli. Per esso il ritrovato piacere della decorazione nella sua forma più semplice e nativa gli permette, con una giusta posizione di pochi toni, di raggiungere una insospettata intensità di valore lirico, tale da soffondere le sue sommarie attonite figure, sulla prezione tarsia del colore, di un'aureola di leggendaria regalità. La pittura di Campigli, nella topografia dell'arte contemporanea, appare situarsi nella zona di confine tra il cubismo da una parte - o meglio la sua estrema punta astrattista - il surrealismo dall'altra. Del cubismo egli ha seguito la rigida scuola, e ne ha derivato il bisogno della semplificazione geometrica, la estrema sobrietà del colore, e in generale il senso dello stile come ostacolo e costrizione, dura bensì, ma necessaria per permettergli di definirsi in una forma. La sua aspirazione inversa alla memoria incosciente potrebbe invece apparire, oggi, di gusto surrealista. Ma Campigli avversa la pittura surrealista propriamente detta che - egli dice - alle ricerche pittoriche sostituisce l'aneddoto curioso e facili trovate d'ordine letterario e di valore soggettivo: il mito personale del nostro pittore, per quanto nascosto e secreto esso appaia, anela a ritrovarsi in un mito collettivo, in radici remote,  nell'universalità. Come che sia, l'arte di Campigli gioca interamente su questo stretto limite, in una delicata reciproca contaminazione dell'accenno umano col ritmo astratto, dove il segno affabile si corregge nella linea ieratica, e questa per converso si ammorbidisce a momenti di un sottinteso terrestre e carnale, reso più fresco e scoperto dal trovarsi inserito in quel mondo immoto di fantocci di terracotta, ai pochi gesti induriti, sbocciato in quell'atmosfera arsa e nuda di geometrico cataclisma che panoramicamente esso ci presenta.
Strettissimo limite: la ripetizione quasi identica dei consueti temi, le sue figure fissate anch'esse in due o tre rigidi atteggiamenti di frequente ripetuti, l'approfondimento di pochi simboli, e forse d'uno solo; una gamma fondamentalmente monocroma, grigio o terra di siena. Dopo di aver rinunziato fin dall'inizio alle lusinghe della natura, alle risorse delle variazioni prospettiche e temporali, delle atmosfere e delle ombre, alle seduzioni del momentaneo, questa pittura tutta ricavata da un'unica fantasia, da una sola atmosfera sepolta e quasi inumana, sembrerà a riguardante disattento che venga a concludersi in una soluzione di puro gusto. Gli resteranno a mente uno stile rigorosissimo, un seno personale riconoscibile fin nei più minuti segmenti: il fascino elementarmente sensuale d'un ricco geroglifico.

Occorre, dunque, scaldare questa pittura della nostra affettuosa attenzione affinché essa si apra e ci parli. Noi possiamo sapere quale necessità la muove. La storia di oltre un secolo e mezzo di arte europea Lascia a noi pure indovinare che a fondo dell'incantevole esperienza impressionista è il disperdimento: ogni immagine suscita la fresca meraviglia d'una scoperta, ma la stessa inesauribilità delle scoperte ci desta a un certo punto il sospetto d'una appena mascherata ripetizione all'infinito. Nel mutarsi prospettico delle vegetazioni senza forma, nel gioco ingannevole dell'aria e della luce, negli innumerevoli aspetti e significati d'un volto umano ravvisiamo allora una ricchezza illusoria, e nell'artista che la persegue un Mida senza scampo. Gli antichi, tenendosi fermi al canoce e alla regola che un coerente mondo di cultura imponeva senza sforzo, eludevano in un ordine umano e ovvio le tentazioni del caos. Oggi la ricerca si compie un una cerchia assai più ristretta, nella monade culturale del singolo, che si apre soltanto con l'intelligenza e l'amore.
Campigli si difende negando l'informe natura alle soglie di un tempio che, ormai deserto d'ogni dio conosciuto, si presta ad essere popolato dei suoi idoli privati, costruiti attingendo alle sorgenti dell'ermetico mito personale. Le sue bambole di pietra e di creta, talora delicatamente affocate, come cotte ad un forno di vasaio, ch'egli orna di gioielli e di fregi quasi vagheggiando la solenne fissità dei primitivi, ma senza rinunciare alla ricchezza di raffinate allusioni d'un artista d'oggi, costituiscono una galleria di feticci destinati, nell'inconscia volontà del pittore, a caricarsi d'una più intensa virtù emotiva di quanto non sia possibile alla semplice immagine naturale. Così i suoi empori, le sue finestre, le sue nicchie, le sue scale, i pochi elementi purificati e ridotti a semplice segno d'una realtà appena suggerita, sono le indicazioni, tradotte nei termini d'una riconoscibilità sommaria, d'una sorta di magico luogo interiore, che poteva forse esprimersi ugualmente in un astratto arabesco. Così l'immagine si stacca sul flusso inefferrabile delle apparenze e diventa oggetto, in questo senso forse Raffaello Franchi ha parlato della squisita "solidità" delle pitture di Campigli. Stanco di miraggi, il nostro pittore sente il bisogno di un segno concreto, che termini l'erramento delle immagini e dei pensieri con una presenza tangibile e immota. Egli crea così gli idoli d'una sorta di personale religione evocativa, che immerge le sue radici nel sottosuolo dell'esperienza infantile, riassumendo perciò stesso nella pacata nostalgia d'un moderno il beato eden originario, liberamente reinventato sulla traccia dei frammenti che ce ne rimangono: figure corrose, vasi, fregi, delicata polvere.


Sergio Solmi