|
(Fonte : Albo artistico napoletano - 1853)
|
|
GALLERIA DEL PRINCIPE DI SANT'ANTIMO (RUFFO)
Francesco Hayez - I Vespri Siciliani
|
|
I. Nel visitare le sale de' patrizi
napoletani ci avviene assai spesso di trovarvi raccolte le
opere degli antichi pittori, ma non così facilmente quelle
della pittura moderna. Le opere degli antichi, e
particolarmente dei pittori che diedero maggior fama alla
scuola napoletana, accumulate nel giro di molti anni in
quelle case illustri per dovizie e natali, rimangono ancora
oggi come ornamento in molte di esse, e si direbbe meglio
come testimonio di una grandezza passata. Ma sono in
piccolissimo numero coloro i quali allo splendore che viene
dagli avi uniscano quell'amore per le arti belle che è una
prova chiarissima di quella rara gentilezza di spiriti la
quale tanto più risplende negli uomini, quanto sono maggiori
le grandezze e gli onori conceduti ad essi dalla fortuna.
Non pare giusto ai compilatori di un'opera quale è la
nostra, rivolta a divulgare le glorie dei nostri artisti
viventi , il tacere la lode di coloro che amano le arti e
gli artisti. Perchè se a me non piace di chiamarli con quei
vecchi nomi di mecenati e protettori, nomi che furono
oggimai tanto profusi dagli adulatori plebei, si possono con
troppa ragione chiamare spiriti gentili e eletti. I nomi
loro troveranno il dovuto luogo in questi fogli; tanto più
dovuto, quanto che essi non hanno avuto molti esempi da
imitare in mezzo ai fortunati del mondo, ma solamente, si
sono levati su gli altri per un certo amore del bello che li
rende così diversi dal volgo de' loro eguali. Darà principio
dunque a questa sommaria descrizione delle gallerie
napoletane il Principe di Sant'Antimo, Antonio Buffo, il
quale nelle sue case ha raccolto molte opere di antichi e
moderni, non solo pittori ma scultori. Noi parleremo de'
soli moderni per tenerci pia strettamente allo scopo del
libro; e per non eccedere i confini segnati, non parleremo
di tutte, ma di sole poche opere che ci parvero le più
belle.
II. E primo ad essere menzionato sarà un
quadro di Francesco Hayez, non solamente perchè la fama
dell'artista domanda ch' esso venga preferito agli altri, ma
perchè la sua pittura è di quella tale bellezza che lo
scrittore si compiace nel ricordarla, e vorrebbe quasi
trasfondere negli altri il sentimento da lui provato nel
riguardarla. L'avvenimento rappresentato richiama alla mente
quella scena di sangue che inondò la Sicilia nel secolo
decimoterzo e rapì per sempre la corona dell'isola al primo
Angioino il quale troppo sordo alla voce del Pontefice che
lo ammoniva, ed a quella della sua propria coscienza, vide
sedere su quel trono un principe aragonese raccoglitore del
guanto gettato da Corradino. Non è già che in questo quadro
sia rappresentato il famoso vespro, ma quel piccolo
avvenimento che parve come l'occasione ed annunzio della
gran fiamma, avvenimento che tutte le storie del tempo ci
danno per vero. La scena presenta una parte dei campi che
cingono Palermo e propriamente quella verso settentrione la
quale si distende fino all'Oreto, e che oggi non troveresti
come l'ha figurata il pittore, oggi che il volgere de'
secoli l'ha convertita da lieta in mesta, ed è ingombrata da
un ampio cimitero. Ma nel modo com'è rappresentato
dall'Hayez questo luogo e tutto ridente di naturali
bellezze, e tutto gremito di popolo che vedi parte andar
vagando, e parte sedere qua e la per tutta la campagna, come
per festa e diporto. Il martedì dopo Pasqua andavano i
Palermitani ad un tempio fuori le mura, ed il popolo già
tanto stanco di piangere dimenticava per poco le insolenze
francesi e la barbarie del vincitore. Ma fu breve l'oblio
perchè venne assai presto chi le ricordò ad essi, ed i
francesi sopravvenuti, si frammischiarono in mezzo a loro,
entrando licenziosamente a parte nelle stanze e nei
banchetti. Respinti piu volte si tennero offesi, e gridando
come per pretesto che i siciliani dovevano avere armi
nascoste per le quali si facevano così baldanzosi,
incominciarono a ricercarli sotto le vesti. Un di costoro
spinse audacemente le mani negli abiti di una giovinetta che
tutti gli storici dicono di natali più che civili; gridò il
marito, ed un giovine uscito della folla, o per amore o per
parentela che lo legasse a quella donna, o per odio fino
allora represso contro i dominatori, uccide il francese e
poi cade egli pure ucciso. E qui incominciano le stragi che
si diffondono rapidamente per tutta l'isola e che non è
nostro scopo di raccontare.
Questo l'avvenimento preso a figurare dall'artista, onde
vedi il duro contrasto di quel gruppo bellissimo e pieno di
dolore che ti apparisce in mezzo del quadro col rimanente di
quella scena di gioia, e vedi il dramma rappresentato così
vivamente come sogliono rappresentarlo i grandi maestri. Io
non mi porrò ad annoverare ad una ad una le parti di questa
pittura, ma dirò solamente che essendo questo il solo quadro
che abbiamo in Napoli della mano di questo autore, è pure
bastante esso solo a farlo riconoscere, com'egli è, uno de'
principi della moderna pittura italiana.
|
III. Veramente colui che non è artista
quando sia chiamato a parlare di un quadro, non ha bisogno,
anzi non deve entrare in certe minute ragioni dell'arte,
alla qual cosa si offenderebbero forse giustamente gli
artisti ed egli troverebbe poco disposti e poco contenti i
lettori. Ma la bellezza e grandezza dell'argomento, la
maestria del pittore nel formarne il concetto, la
disposizione e la concordia delle parti, e la verità della
scena, delle persone, delle passioni espresse sono tali cose
sulle quali si può e deve versare lo scrittore. Ed un
artista il quale avesse adempiuto a tutti questi suoi
doveri, non so quale altro ne potrebbe avere che fosse più
importante di questi. Ora in questo quadro dell'Hayez si
trovano così perfettamente intese tutte queste parti che io
non so vedere quale altra rimanga dove il critico che sia
artista possa trovar molto a ridire; se pure non fosse nella
parte puramente meccanica ovvero in certe regole convenute
nelle quali sono così forti alcuni artisti mediocri, e si
fanno così baldanzosi. Generazione de' pedanti chiamo io
quella così tenera del passato che ravviverebbe i cadaveri
se potesse ed ucciderebbe chi nasce, com'eran coloro che al
vedere la Scuola d'Atene, la Trasfigurazione ed il Giudizio
avrebbero cancellati Raffaello e Michelangelo dal numero
degli artisti, e non volevano riconoscere nè i Caracci nè il
Zampieri perchè in essi la ispirazione dell'antico pareva
temperata dall'indole del tempo. Volendo aggiustare a questa
gente un conveniente castigo, sarei quasi per mandarli in
quella bolgia del poeta dove i condannati vanno attorno con
la faccia rivolta indietro. Io so bene che nei tempi di
corruzione questo ritorno al passato è stato sempre un
lodevole anzi inevitabile principio di ogni restaurazione,
nè vorrei essere ingrato ad nomini sommi, quali furono fra
gli altri Antonio Canova e Vincenzo Camuccini; perchè essi
restaurando in certo modo l'arte antica intendevano di
salvare l'arte moderna dalla barbarie, e ne meritarono la
giusta lode de' contemporanei e la riconoscenza degli
avvenire, forse più come distruttori di una trista e vecchia
scuola che come fondatori della nuova.
Ma oggi essendo cessato il bisogno delle arti alle quali
soccorse con tanta felicità di successo il magnanimo esempio
di quei due e di altri italiani, a me sembra che
quell'artista il quale non sappia pigliare le sue
ispirazioni dal suo secolo mostrerà bene di aver fredda la
mente ed il cuore. Nè con queste ispirazioni del secolo io
intendo di lodare un'altra specie di pittori odierni i quali
si studiano di tradurre nella nostra la pittura francese,
appunto come sogliono praticare i pessimi traduttori in
letteratura. Or io perchè potrei non essere facilmente
inteso da chi non vuole intendermi, mi spedirò meglio con un
esempio, dicendo che io vorrei il mio pittore egualmente
lontano dai due contrari e ch'egli cercasse di appartenere a
quella nubile schiera nella quale è annoverato così
giustamente Francesco Hayez. E questa schiera che io dico,
non è perduta dietro al culto tradizionale di un'arte
passata, non è rinnegatrice del progresso, non vuol
conoscere nei soli secoli decimoquarto o decimoquinto
l'ultima espressione dell'arte. Questa schiera che io dico
non vuole che la forma faccia impedimento al pensiero, ed
affretta col desiderio e coll'opera avvenire di quell'arte
grandiosa e potente la quale per esser tale non deve uscire
dalle officine de' retori.
IV. Ora per far ritorno al quadro
dell'Hayez non so veramente se questo sia un lavoro della
mia immaginazione, ma a me par quasi di vedere non solamente
nel pietoso gruppo della donna e del suo offensore e
difensori, ma in tutto il movimento del quadro, il grande
effetto che doveva seguitare quell'avvenimento. Il cielo e
sgombro di nubi, ma vaporoso come il cielo siciliano ed
improntato di quella tinta calda che molte volte anche in
primavera ti fa sentire le vicine spiagge africane. L'andare
di quella gente mostra l'indolenza e l'ozio dei paesi del
mezzogiorno i quali nel far gli uomini tali, sogliono farli
ancora così facili ad ogni movimento, e così difficili alla
perseveranza nel bene o nel male. Ma tutte le parti del
quadro che sono così belle ciascuna, debbono cedere alla
bellezza di quel gruppo principale, ed in mezzo a questo,
niente più incantevole della donna svenuta e sostenuta dal
marito. E sebbene io so pure che quella fisonomia non
ricordi a punto la Sicilia nè per tinte nè per forma, a
tutti piace di vedere nel tipo di quella donna un tal misto
di soavità e di rassegnazione che la farebbe credere uno dei
due geni della Tempesta e dell'Amleto, Miranda ed Ofelia. O
se queste gli sembrassero troppo fantastiche, potrebbe
ravvisare in essa quasi Angiolina o Medora o qualcun'altra
di quelle angeliche creature dipinte da Giorgio Byron. Il
volto leggiadrissimo, e le braccia nude e parte del seno che
lascia vedere nel suo abbandono sono compiuti con una tale
diligenza che non si potrebbe di meglio. Nè la troppa
vicinanza nuocerebbe a chi molto si approssimasse a quel
dipinto.
Avviene pure assai spesso che una delle due cause
opposte, o la franchezza o la imperizia della mano tolga
alquanto alla diligenza del lavoro, ed io conosco
singolarmente molti de' giovani che la imperizia vogliono
nascondere sotto il velo di franchezza. E credo non inutile
il dir questo parlando dell'Hayez il quale, se mostra quella
speditezza della mano maestra nelle parti accessorie del
quadro, discende alla più minuta perfezione in quelle che la
richiedono, come per esempio sono quelle parti del corpo
umano che le vesti lasciano vedere, e ad un artista che la
moderna pittura storica italiana saluta come capo di scuola,
non poteva essere una minore ricchezza di scienza nel
rappresentarle. La scuola che si chiama classica vorrebbe
che la pittura e la scoltura non uscissero mai dal nudo,
dubitando pure che l'autore del quadro o della statua
potesse dissimulare la sua ignoranza sotto i drappi e le
pieghe. Ma si potrà domandare esperimento e prova di nudo a
Francesco Hayez quando si vegga questo quadro, o la Maria
Stuarda, o Pietro l'Eremita? E poi bastano veramente le
vesti a nascondere la imperizia dell'artista? Giovarono
forse nelle sale francesi a Leopoldo Robert ed a molti suoi
concittadini perchè venisse negata ad essi la lode di
compositori e coloritori eccellenti, e conceduta quella di
eccellenti disegnatori del nudo che raramente meritarono i
francesi? Trovo in questo proposito raccontato dell'Hayez
che nei priori suoi tempi era guardato con sorriso di
sprezzo dall'antica scuola, la quale vedendo pure la
bellezza innegabile de'suoi quadri lo chiamava incapace di
dipingere il nudo, e scambiare ne'suoi quadri le piccole con
le grandi dimensioni. Ma egli allora dipinse di grandezza
più che naturale un Ajace sbattuto della tempesta e spiegò
tanta pompa di dottrina in fatto di nudo, che le turbe ne
ammutolirono.
V. Stanno intorno alla donna molte
persone affollate, alcune che forse le appartengono, alcune
concorse all'inaspettato avvenimento. Indietro a tutti un
pescatore volgendo le spalle agli altri invoca colle braccia
levate in alto il soccorso della gente che si trova sparsa
per la campagna. Appiè della donna giace caduto sulle
ginocchia il francese, e dirimpetto ad esso il giovine
feritore che stringe ancora la spada tinta di sangue, e ad
entrambi vedi per opposte ragioni il volto livido e fiero.
Puoi ammirare in tutto il gruppo una tal varietà e bellezza
di teste che solo i pittori come l'Hayez possono darle.
Credo difficile a chi scrive l'esprimere con parole quella
parte di bellezza in una pittura la quale si può vedere dal
senso educato al bello. Nessuno mi negherà che ogni nostro
senso abbia bisogno di una speciale educazione per intendere
il bello di ogni arte; quel bello che non risiede solamente
nella imitazione del vero e ch'esso cercherebbe invano nella
scuola fiamminga o tulle quelle scuole le quali sono una
traduzion letterale della natura e niente altro. E se io
dovessi appuntare qualche cosa nel quadro, forse direi che
alcuni si mostrano intorno alla donna troppo indifferenti
spettatori, ma questa nota ancorchè vera non toglierebbe
nulla alle altre bellezze grandissime dell'opera. Nè quello
the ho detto del disegno sarà meno di quello del colorito.
Voi, Francesco Hayez, vi mostrate bene emulo della scuola
maravigliosa che fioriva un tempo in quella parte superiore
d'Italia dove avete dato alla luce le più belle opere del
vostro pennello: la scuola veneziana. Chi vede quel vostro
cielo, quei vostri campi, quelle vostre carni, quella vostra
luce sempre mi darà ragione se nel guardare i vostri quadri
io mi ricordo di Tiziano e di Paolo. Ma ditemi, avete voi
abbracciato ciecamente l'esempio di quella scuola ed avete
rigettato quella di Michelangelo e di Raffaello? Avete voi
seguitato quella scuola che parla tutto al senso ovvero
quella che parla tutto all'intelletto? Quella che sacrifica
tutto al disegno o tutto al colorito ? Ci pare che tutte le
scuole d'Italia abbiano concorso a farvi tale; e noi siamo
persuasi che nelle scienze, nelle lettere , nelle arti è
tanto colpevole il rinnegare quanto l'abbracciare una sola
tradizione del tempo passato. Le scuole diverse non debbono
andare perdute; esse sono tutti elementi dai quali la scuola
moderna dove trarre vita e vigore.
|
|
Cesare Dalbono
|
|
|
|
|
|