Sassari, 12/05/1885 - Milano, 13/08/1961
Nacque a Sassari il 12 maggio 1885 da Enrico e da Giulia Villa. Era il
secondo figlio, dopo Cristina, futura concertista, e prima di Edoardo,
Marta, Guido, Ettore. Enrico, ingegnere edile, si era trasferito per
lavoro in Sardegna, dove si trovava già il fratello, o fratellastro,
Eugenio, che a Sassari aveva progettato il neorinascimentale palazzo
della Provincia (1873-80). Giulia, donna di particolare sensibilità e
temperamento cui l'artista sarebbe stato sempre profondamente legato,
aveva studiato da soprano a Firenze. Il padre di Giulia, Ignazio Villa,
scultore, architetto e scienziato, a Firenze aveva eseguito la tomba di
Stanislao Poniatowski nella chiesa di S. Marco e costruito nel 1850-52
la 'casa rossa', significativo esempio di neogotico. Mario era quindi un
figlio - o un nipote - d'arte. Nel 1886 la famiglia Sironi si trasferì a
Roma, dove Enrico, chiamato a costruire ponti e argini sul Tevere, morì
prematuramente nel 1898. Sironi si formò dunque nella capitale, dove
frequentò le scuole elementari e tecniche, dimostrando un precoce
talento per il disegno. Ancora adolescente eseguì le prime opere:
Marina (1899-1900); copie da Kitagawa Utamaro (1901) e Giovanni
Segantini (L'aratura, 1902-03), riprese dalla rivista Emporium; lavori
simbolisti influenzati da William Morris, da Aubrey Beardsley e dallo
stesso Segantini (ex libris Ars et amor, 1901-02; Il pascolo, 1902-03).
Sempre in questi anni lesse Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche, i
poeti romantici e i romanzi francesi, e studiò il pianoforte, suonando
soprattutto le opere di Richard Wagner. Nell'ottobre del 1902, in
obbedienza a quanto avrebbe voluto il padre, s'iscrisse alla facoltà di
ingegneria, ma già nel 1903 una crisi depressiva - primo episodio di un
male che lo avrebbe tormentato sempre e di cui rimane traccia nel
contemporaneo L'impiccato, un cupo ex libris influenzato da
Félicien Rops - gli impedì di continuare gli studi.
Deciso a dedicarsi alla pittura, il giovane artista ottenne l'appoggio
economico del cugino Torquato Sironi (affermato chirurgo, filantropo e
uomo politico milanese), oltre all'incoraggiamento del pittore Antonio
Discovolo, cui nel giugno del 1903 mostrò i suoi disegni, e dello
scultore Ettore Ximenes. Nell?autunno del 1903 poté così iscriversi alla
scuola libera del nudo di via Ripetta, dove ebbe tra i suoi compagni
Cipriano Efisio Oppo, futuro segretario della Quadriennale di Roma, e
Vincenzo Costantini, futuro critico, che avrebbe sposato sua sorella
Marta. Sempre in quel periodo si avvicinò alla cerchia dello scultore
simbolista Giovanni Prini e divenne amico di Gino Severini e soprattutto
di Umberto Boccioni, entrambi allievi di Giacomo Balla. Frequentò anche
lui lo studio di Balla, apprendendo la tecnica divisionista, che però
usò irregolarmente (La madre che cuce, 1905-1906), senza
infrangere la potente solidità volumetrica che sarebbe sempre stata
caratteristica del suo stile. Nel febbraio del 1905 espose per la prima
volta alla mostra della Società amatori e cultori e iniziò a collaborare
con L'Avanti della Domenica, avviando un'attività di illustratore che
continuò poi quasi tutta la vita. Subito dopo compì i primi viaggi:
nell'autunno del 1905 a Milano, ospite di Torquato; tra il maggio e
l'agosto del 1906 a Parigi, dove ritrovò Boccioni, con cui divise la
casa; nella primavera del 1907 ancora a Milano, dove si dedicò
brevemente alla scultura. Nell'estate del 1908 e dal novembre del 1910
al marzo del 1911, nonostante le ricorrenti crisi depressive, soggiornò
a Erfurt, in Turingia, presso l'amico Felix Tannenbaum, uno scultore di
religione ebraica conosciuto a Roma. La seconda permanenza in Germania e
l'amore per l'arte classica ritardarono la sua adesione al futurismo, e
probabilmente Boccioni, che l'aveva incontrato nel maggio del 1910,
rinunciò a chiedergli di far parte del movimento, vedendo la sua casa
piena di gessi greci e le sue ossessive copie da quei modelli.
Al gruppo marinettiano Sironi si avvicinò solo nel 1913, dopo aver visto
in febbraio una collettiva futurista al teatro Costanzi di Roma e aver
riflettuto soprattutto sulla scultura di Boccioni. Del futurismo, se si
eccettuano alcune iniziali scomposizioni (Dinamismo di una strada,
1913), diede sempre un'interpretazione volumetrica, in accordo con la
sua sensibilità costruttiva e architettonica. Nel marzo del 1914
partecipò allo spettacolo futurista Piedigrotta di Ferdinando Cangiullo
alla galleria Sprovieri, interpretando la parte del suonatore nano; in
aprile alla libera esposizione internazionale futurista e al grande
convegno futurista, sempre da Sprovieri. Nel 1915 si trasferì
temporaneamente a Milano ed entrò nel nucleo dirigente del movimento, al
posto di Ardengo Soffici. Realizzò in quel periodo lavori 'paroliberi'
con inserti di lettere e una Ballerina con citazioni della Sintesi
futurista della guerra di Filippo Tommaso Marinetti, collaborando anche
alla rivista Gli avvenimenti. All'entrata in guerra si arruolò con
Boccioni, Marinetti, Antonio Sant'Elia, Achille Funi, Luigi Russolo nel
battaglione volontari ciclisti, combatté nella battaglia di Dosso Casina
e in dicembre firmò il manifesto di Marinetti L'orgoglio italiano.
Agli inizi del 1916, dopo lo scioglimento del battaglione, tornò a
Milano e rivide Boccioni, che scrisse il primo articolo su di lui (I
disegni di Sironi, in Gli avvenimenti, II (1916), 6-7, p. 21). Conobbe
inoltre Margherita Sarfatti, critica che gli rimase sempre vicino, e che
già allora individuò in lui 'un'arte di sintesi' (Sarfatti, 1916, p. 5).
In ottobre, ancora sgomento per la recente morte di Boccioni (17
agosto), fu inviato a Torino per frequentare i corsi per ufficiali
fotoelettrici e nella primavera del 1917, dopo avere completato la
preparazione a Padova, partì per il fronte. Combatté in prima linea fino
al luglio del 1918, quando fu spostato all'Ufficio propaganda. Subito
dopo, grazie a una raccomandazione di Sarfatti a Ferruccio Parri (allora
componente del comando supremo), poté collaborare con Massimo
Bontempelli alla rivista per soldati Il Montello. Congedato nel marzo
del 1919, si fermò brevemente a Milano, senza però assistere
all'inaugurazione della Grande esposizione nazionale futurista, dove
esponeva quindici opere, in gran parte disegni (poco futuristi) sul tema
della guerra.
Rientrato a Roma, vide le opere metafisiche di Carlo Carrà e Giorgio De
Chirico sulla rivista Valori plastici e ne rimase influenzato. In luglio
tenne la prima personale da Anton Giulio Bragaglia, recensita
negativamente da Mario Broglio sulla stessa rivista (Mostra Sironi, in
Valori plastici, I (1919), n. 6-10, p. 30). Pochi giorni dopo si sposò
con Matilde Fabbrini, con cui era fidanzato da quattro anni, ma la
precaria situazione economica costrinse la coppia a separarsi quasi
subito: insoddisfatto dell'ambiente artistico romano, in settembre
Sironi partì per Milano, dopo aver pensato di stabilirsi a Parigi, e la
moglie poté raggiungerlo solo qualche mese dopo. "Che cosa può darmi la
città commerciante se non il ribrezzo e il bisogno di difesa contro la
sua stessa potenza ?", scrisse a Matilde nello stesso settembre (Lettere,
a cura di E. Pontiggia, 2007, p. 23). Milano dunque gli suscitava
'ribrezzo', eppure ne avvertiva tutta la 'potenza'. Dalle stesse
contrastanti sensazioni di squallore e forza, dramma e monumentalità
nacquero in questo periodo i Paesaggi urbani, periferie cittadine
imponenti come cattedrali laiche, ma cariche di un senso di tragicità e
di solitudine. Sempre nel 1919 Sironi aderì al fascismo, cui rimase
fedele fino alla fine, condividendone la dottrina (non però le leggi
razziali). Frequentò intanto il salotto di Sarfatti e nel gennaio del
1920 firmò con Funi, Leonardo Dudreville e Russolo il Manifesto
futurista: contro tutti i ritorni in pittura, che con i suoi appelli
alla costruzione della forma preannunciava in realtà il Novecento
italiano. "Si sente il bisogno di una [...] sintetica visione plastica"
sosteneva il manifesto (Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia,
2000, p. 13), esprimendo le stesse idee di sintesi che circolavano nel
salotto sarfattiano. In marzo Sironi espose per la prima volta i
paesaggi urbani in una collettiva alla galleria Arte, presentata dalla
stessa Sarfatti. "Da questo squallore meccanico della città odierna ha
saputo trarre [...] gli elementi e lo stile di una bellezza e di una
grandiosità nuove. È lui l'artista che ci insegna a scorgere, nelle
tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta 'luxe, ordre et
beauté'", osservò la scrittrice (1920, p. 73).
Nell'agosto del 1921 nacque la sua prima figlia, Aglae. Lo stesso mese
iniziò a collaborare con Il Popolo d'Italia, il quotidiano di Benito
Mussolini, disegnando vignette il cui tema era spesso fornito dal capo
del fascismo. Nel dicembre del 1922 fu tra i fondatori del Novecento
italiano, che comprendeva anche Anselmo Bucci, Dudreville, Funi, Gian
Emilio Malerba, Piero Marussig e Ubaldo Oppi. Il gruppo, che aspirava a
una 'moderna classicità', cioè a una forma classica semplificata in un
purismo sintetico, tenne la prima mostra a Milano, alla galleria Pesaro,
nel marzo del 1923. Nel 1924 si presentò alla Biennale di Venezia, ma,
per l'assenza di Oppi che aveva ottenuto una sala individuale, si
dovette ribattezzare "Sei pittori del Novecento". Sironi espose
L'architetto, L'allieva, Venere (Torino, Galleria d'arte moderna) e una
Figura non identificata. Le opere vennero notate solo da Sarfatti e
pochi altri. Il gruppo si sciolse subito dopo.
Sempre nel 1924 l'artista iniziò a lavorare per il teatro, realizzando
scene e costumi per Marionette che passione! di Rosso di San Secondo,
che andò in scena nel novembre-dicembre del 1924 al teatro del Convegno.
L'anno successivo entrò nel comitato direttivo del Novecento italiano,
che nel frattempo si era rifondato, ed espose con il gruppo alla III
Biennale romana, presentando Il povero pescatore. Da quel momento
partecipò a quasi tutte le mostre nazionali e internazionali del
movimento: nel 1926 espose alla I Mostra del Novecento italiano alla
Permanente (Solitudine, Roma, Galleria nazionale d'arte moderna,
Esopo,
Il silenzioso) e a Parigi alla galerie Carminati; nel 1927 a
Ginevra, Zurigo, Amsterdam, L'Aja; nel 1928 alla galleria Milano e alla Bellenghi;
nel 1929 alla II Mostra del Novecento italiano alla Permanente e alle
rassegne di Nizza, Ginevra, Berlino, Parigi; nel 1930 a Basilea, Berna,
Buenos Aires; nel 1931 a Stoccolma, Oslo, Helsinki. Tuttavia il suo
carattere incontentabile, le crisi depressive e l'accumulo del lavoro
(oltre alle illustrazioni e alla partecipazione ai comitati scientifici
della Biennale di Monza e delle Mostre sindacali, dal 1927 al 1931
scrisse come critico d'arte sul Popolo d'Italia) ritardavano spesso
l'invio dei quadri, come accadde alla Biennale di Venezia del 1928.
Iniziò intanto a lavorare come architetto con Giovanni Muzio,
progettando nel 1928 il padiglione del Popolo d'Italia alla Fiera
campionaria di Milano e il padiglione italiano all' Esposizione
internazionale della stampa di Colonia (suo l'innovativo ingresso in
vetro alla sala del cinematografo); nel 1929 il padiglione della Stampa
all'Esposizione internazionale di Barcellona; nel 1930 la Galleria delle
arti grafiche alla IV Triennale di Monza.
Nel 1929 nacque la sua seconda figlia, Rossana, ma intorno al 1930
conobbe la giovane Mimì Costa, alla quale, tra alterne vicende, rimase
sempre legato, e si separò da Matilde.Tra il 1929 e il 1930 attraversò
una stagione espressionista, caratterizzata da pennellate violente e
figure appena abbozzate, influenzate da Georges Rouault. Espose queste
opere, accanto a lavori precedenti, in una sala personale alla I
Quadriennale di Roma del 1931, dove, nonostante l?appoggio di Ugo
Ojetti, non ottenne premi. Ricevette invece, sempre nel 1931, il premio
Pittsburgh.
In questo periodo maturò anche il desiderio, che aveva sempre coltivato,
di tornare all'affresco, abbandonando il quadro da cavalletto. Come
teorizzò in Pittura murale (in Il Popolo d'Italia, 1° gennaio 1932),
dove definì il quadro "una forma insufficiente", e nel Manifesto della
pittura murale (firmato anche da Massimo Campigli, Carrà e Funi, in
Colonna, 1933, n. 1, pp. 10 s.), considerava l'affresco una forma d'arte
sociale, perché a disposizione di tutti e indipendente dal collezionismo
privato, dalle mostre, dal mercato. La pittura murale, inoltre,
comportava uno stile potente e non intimista. Nei suoi affreschi Sironi
diede indubbiamente espressione all'ideologia del regime, ma non creò
un'arte di propaganda per l'altezza del suo stile e per la drammaticità,
la tensione metafisica, l'atmosfera mitica e senza tempo dei suoi
soggetti. Anche se nel Manifesto della pittura murale auspicò
pericolosamente un' "Arte Fascista", dimenticando che lo stesso Mussolini
nel 1923 aveva dichiarato di non voler promuovere un'arte di Stato, le
sue opere non scaddero mai in un 'realismo fascista', sull'esempio del
'realismo socialista', sia perché Sironi disprezzava l'arte affidata ai
contenuti anziché allo stile, sia perché la sua concezione tragica della
vita era intimamente in contrasto con le esigenze propagandistiche.
Negli anni Trenta l'artista lavorò incessantemente, fino a compromettere
la sua salute, a varie opere monumentali: la vetrata La Carta del lavoro
per il ministero delle Corporazioni a Roma (1931-32); due rilievi per la
Casa dei sindacati fascisti a Milano (1930-32, distrutti); l'affresco
Il
lavoro per la V Triennale di Milano (1933, distrutto); le due grandi
tele Il lavoro nei campi: l'agricoltura e Il lavoro in città:
l'architettura per il palazzo delle Poste a Bergamo (1932-34);
l'affresco L'Italia tra le arti e le scienze nell'aula magna
dell'Università di Roma (1935); il mosaico L'Italia corporativa
(1936-37, oggi a palazzo dei Giornali, Milano); gli affreschi L'Italia,
Venezia e gli studi per Ca' Foscari a Venezia (1936-37) e Rex imperator
e Dux per la Casa madre dei mutilati a Roma (1936-38); il mosaico
La
Giustizia tra la Legge, la Forza e la Verità per il palazzo di Giustizia
di Milano (1936-39); la vetrata L'Annunciazione per la chiesa
dell'ospedale di Niguarda (1938-39); i rilievi per il palazzo del Popolo
d'Italia, sempre a Milano (1939-42).
Coerentemente con il suo ideale di un nuovo sistema dell'arte, dopo il
1932 Sironi smise di partecipare alle Quadriennali (inviò solo un
disegno a quella del 1935) e alle Biennali. Banco di prova della sua
concezione fu la Galleria della pittura murale alla V Triennale del
1933, dove invitò a cimentarsi con l'affresco i maggiori artisti
italiani, ma suscitò un vespaio di polemiche sul quotidiano Regime
fascista di Roberto Farinacci.
Nel 1934 la sua posizione gli provocò anche una denuncia del suo
gallerista Vittorio Emanuele Barbaroux, per il quale la sua assenza
dalle mostre e la mancata consegna di quadri nuovi erano una perdita
economica. Il contenzioso si compose dopo alcuni mesi: Sironi, per far
ritirare la denuncia, dovette versare una penale, impegnandosi a
riprendere a dipingere ed esporre. Il sogno della pittura murale,
comunque, influenzò anche i suoi quadri, perché a partire dagli anni
Trenta adottò spesso una composizione multicentrica, a riquadri,
governata da una spazialità da affresco prerinascimentale.
Sempre nel 1934 partecipò, con Giuseppe Terragni, al concorso per il
palazzo del Littorio di Roma, e nel 1939 a quello per il Danteum,
entrambi con esito sfortunato. S'impegnò inoltre in numerosi
allestimenti.
Allestì alcune sale della Mostra della Rivoluzione fascista (Roma,
Palazzo delle esposizioni, 1932); molte sezioni della Triennale di
Milano (1933); la sala dell'aviazione nella Grande Guerra alla mostra
dell'aeronautica italiana (1934); il salone d'onore alla Mostra
nazionale dello sport (1935); il padiglione FIAT alla Fiera campionaria
di Milano (1936); la sala dell'Italia d'oltremare all'Expo di Parigi
(1937); i pannelli per la mostra "Torino e l'autarchia" (1938) e per la
Mostra nazionale del dopolavoro a Roma (con Armando Carpanetti, 1939).
Molti furono anche i suoi progetti non realizzati, come gli affreschi
per la colonia marina di Clemente Busiri Vici a Cattolica (1935) e per
l'atrio del palazzo Liviano di Gio Ponti a Padova (1938).
Nel 1942-43, mentre lo Stato non era più in grado di commissionare opere
monumentali, Sironi tornò più regolarmente al cavalletto. Dal 1942,
influenzato da una grande mostra di Carrà a Brera, creò opere
neometafisiche, dipingendo un mondo di manichini e macerie. Convinto da
Peppino e Gino Ghiringhelli della galleria del Milione, lo stesso anno
tornò anche a esporre in una mostra, accompagnata da un testo di
Bontempelli. Nel settembre del 1943 aderì alla Repubblica di Salò e
rimase fedele alle sue convinzioni nonostante il crollo di tutto quello
in cui aveva creduto. "S'è tutto rotto in questi mesi, tutto. Non sono
rimaste che macerie e paura", scrisse in un appunto (Scritti..., a cura
di E. Camesasca, 1980, p. 330). Il 25 aprile, fermato da una brigata
partigiana, si salvò dalla fucilazione grazie a Gianni Rodari, che gli
firmò un lasciapassare.
Nel dopoguerra, dopo un processo di epurazione da cui uscì senza
condanne, iniziarono per lui "gli anni della solitudine" (Sironi. Gli
anni della solitudine, 2004), aggravati anche dallo strazio per la morte
della figlia Rossana, che si uccise a diciotto anni nel 1948. Non smise
però mai di dipingere, e in questo periodo, in cui trascorreva alcuni
mesi dell'anno a Cortina, si dedicò anche al teatro, eseguendo scene e
costumi per la Scala (Tristano e Isotta, 1947), il teatro Comunale di
Firenze (I Lombardi alla prima crociata, 1948; Don Carlos, 1950) e il
teatro romano di Ostia (Medea e Il Ciclope, 1949). Nella sua pittura
alle forme drammaticamente imponenti delle stagioni precedenti si
sostituirono spesso composizioni dalla sintassi più sfatta, vicine in
certi esiti all'informale, che culminarono nel 1960-61 nel ciclo dell'Apocalisse, simbolo di una distruzione cosmica.
Il silenzio della critica ufficiale fu interrotto dalle voci di pochi
amici (Ponti, Garibaldo Marussi, Marco Valsecchi, Agnoldomenico Pica,
autore nel 1955 del saggio Mario Sironi pittore) e da alcune mostre (una
personale a Boston, 1953, con Marino Marini; una collettiva d'arte
italiana a Kamakura, in Giappone, 1955, organizzata da Fortunato
Bellonzi e dalla Quadriennale di Roma). Lui stesso, peraltro, rifiutò
sempre di partecipare alle Biennali di Venezia. Nel 1956 fu eletto
accademico di S. Luca. I suoi ultimi anni, dopo il 1958, furono minati
dalle sofferenze per l'artrite, che lo costrinsero più volte
all'ospedale.
Colpito da una broncopolmonite, morì a Milano il 13 agosto 1961.(E.
Pontiggia - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 92 - 2018)
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