Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, 1926-27)
 

IL PITTORE FELICE CARENA

 
Di Felice Carena ha già scritto su «Dedalo», Ugo Ojetti due volte: la prima per esaminare il complesso della sua personalità quale s'era venuta formando dagli anni giovanili sino allo schiudersi della maturità; la seconda in occasione della sua nomina a professore nell'Istituto di Belle Arti di Firenze, quando nuovi germi sembravano maturare nella sua arte. Oggi che questi germi sono sbocciati e fioriscono tutta una grande sala della XV Biennale Veneziana, mostrando nel pittore uno dei più compiuti maestri della Italia d'oggi, si può ben tornare su di lui per completarne e, diciamo, aggiornarne la conoscenza. Cosa è dunque che di sin qui sconosciuto ci si rivela in Felice Carena a questa sua ricomparsa dopo anni di lavoro silenzioso lontano dalle esposizioni? I soggetti? No, ché composizioni religiose, spunti campestri, nature morte e ritratti sono tutti già stati trattati da lui. La materia pittorica? Nemmeno, ché il gusto degli smalti lavorati, densi, sugosi gli è proprio da tempo, a fermare vigorosamente disegno e colori. L' impostazione idealistica del quadro? Neanche quella, ché nelle minuzie d'una imitazione realistica non è mai caduto a traverso tutta la sua nobile carriera d'artista.

E allora? Allora la novità di queste cinquanta tele, grandi o piccine, non proviene da elementi esterni quali siano, ma da una elaborazione intima, e profonda di certezze che l'artista recava in sé e che a poco a poco si sono schiuse sino a comporsi in una mirabile armonia.  

Felice Carena è una di quelle nature complesse che ignorano le improvvisazioni facili e repentine. Sensibilissimo a tutti gli stimoli, egli assimila dalla vita e dall'arte le più fuggevoli emozioni ed esperienze, che distilla sino a farne un nutrimento vitale pel suo spirito. Subisce così il mondo ambiente, l'esistenza, gli affetti, più che dominarli. Da ciò il senso di malinconia profonda che s'esprime da lui come uomo e come artista; una malinconia che degenera spesso in sfiducia delle proprie forze, e in un bisogno di protezione, di aiuto. Ma da ciò, anche la profonda risonanza della sua anima che moltiplica e arricchisce di echi pronti a destarsi ogni richiamo dei sensi o della fantasia: echi che una intelligenza fine e raffinata dalle più noboli aspirazinni disciplina, coordina, indirizza all'opera di creazione. E in questa, tanto tormento interiore finalmente si placa, quasi trovi nelle finzioni dell'arte un rifugio e una difesa, alla quotidiana vicenda delle necessità e degli uomini.

Ecco perché tutta l'arte di Felice Carena sin dagli inizi esula dal reale e contingente in una sfera di sogno; ecco perché gli fu caro Carrière dapprima, con la sua poetica interpretazione delle tenerezze materne, e poi Gauguin per l'illusione di riattingere ad una primitività di paradiso terrestre, ed ora Poussin come misura d'un ordine estetico recato pur nella natura; ecco perché la sfera dei suoi sogni è quella di un romanticismo fervido di pietà umana, di verginità agreste e di bellezza formale, intese religiosamente. Discutere quindi di contenuto originale o moderno dinanzi ad un'arte così fatta, non si può nel modo che s'usa per tutti. Dato un temperamento di tanto complessa formazione, bisogna ammettere a priori la legittimità di tutti gli elementi svariatissimi che hanno concorso a farlo singolare, e solo al lume di questi commisurarlo.
Museo, è stato detto dinanzi alla sala Carena; decorazione, è stato ribadito; e solo dei pezzi di pittura minori, a preferenza dei maggiori, hanno trovato in taluni pittori pieno consenso. Questo forse perché non vi si trova rappresentato alcun aspetto riconoscibile della nostra vita odierna, quale ci ha abituati a vedere la pittura contemporanea, dal motivo episodico del quadro verista, allo studio ambientale del quadro impressionista. Ma neppure vi si trova alcun richiamo preciso a fatti storici o mitologici, con partito preso di costumi o caratteri che sappiano di riesumazione colturale. No, il mondo che vi è evocato sfugge a qualsiasi localizzazione e determinazione fissa. Può essere di oggi, di ieri e di domani. È il dominio fantastico della poesia direi «senza tempo tinta», ove tutto diventa attuale pur sapendo d'universale e d'eterno, perchè l'essere umano vi reca la giovinezza immutabile del suo corpo ignudo, e le stagioni vi si avvicendano sotto il perenne svariare dei cieli. In questa atmosfera fisica la figura, gli animali, le piante rifuggono dall'assoggettarsi ad una realtà tipica e classificabile, riassunti come sono nei tratti essenziali della specie, e persino i sentimenti che hanno dettato l'opera, si generalizzano in stati d'animo vaghi, riassuntivi di mille sfumature, più che specificarsi in una situazione. Né i ritratti o le nature morte si sottraggono a tale intendimento, ché anche qui ogni elemento sembra spogliarsi del contingente, per fissarsi in una luce e una forma d'assoluto. E quando infine il tema religioso sembra voler costringere entro l'ambito di un fatto l'artista, pure allora egli lo fa suo e vi spazia dentro, incurante d'ogni veridicità di luogo o di tempo.

Ma tutto ciò non è, ripeto, Museo o Decorazione nel senso di qualcosa di imbalsamato o di convenzionale che si voglia dargli, perché non deriva da fredde elucubrazioni di su le fotografie, né si attua in pasticci artificiosi. No. È vita, rintracciabile tutt'ora sul posto, riflessa in uno specchio stilistico che la trasforma in arte. E chi s'affretti ad accusarmi di materialismo critico alla Taine per il riferimento puntuale, ricordi Piranesi, tanto per dire uno fra tanti rievocatori di Roma, e quello che Roma fu per lui.

Ebbene, altrettanto è stata per Carena la campagna romana, e meglio ancora la Sabina di quella zona, che subito dopo Tivoli s'ingolfa tra valli e picchi montuosi verso Subiaco. Siamo alle porte della città, della civiltà, ed è come un angolo sperduto di vita primordiale. Bellissimo tutto, il paese e la gente. Gli abitati si arrampicano su le vette come rocche connaturate al sasso, l'Aniene schiuma e precipita nel fondo di orridi improvvisi, vigneti ed oliveti si stendono sui radi ripiani. Basta appena spostarsi perché le prospettive cambino all'infinito. Ma tutte hanno una grandiosità rupestre e selvaggia che poche strade venano de' lor nastri polverosi, e rari passanti animano di canti fermi come nelle musiche antiche. In quella quiete già Orazio cercò riparo nella sua villetta sulla Digenta ed i secoli ben poco debbono avervi mutato da allora. Come allora le greggi di pecore e le mandrie di cavalli s'aggirano pei pascoli sotto l'occhio dei pastori o il pungolo dei butteri; come allora, gli asinelli o i bovi portano e riportano dal lavoro i villani; come allora la giornata scorre nelle occupazioni miti dei campi, quasi riti sacri. E l'automobile che vi fa traversare di volo questo dimenticato lembo d'altri tempi, vi sembra un anacronismo irriverente.

Del resto non v'è bisogno proprio di descrizioni. Guardate i quadri di Carena e vedrete o riconoscerete il paese ove egli ha trovato sè stesso. L'interno della «Cena in Emaus», potrebbe essere la casa, che so io, di Gigi Moro, con la tavola per la partita in vista della stalla; lo scenario di «Serenità», il luogo di sosta per una merenda dopo il bagno, con una Pasquarosa o Natalina, bei nomi freschi come l'aria frizzante del posto; le stoviglie e le frutta delle «nature morte», dovizie colte allora nell'orto e posate sulla rustica mensa dalle mani di Marietta; le tende tese fra gli alberi, ripari per le sieste degli uomini stanchi o delle donne intente alle pulizie nei ruscelli, mentre le groppe dei cavalli luccicano tonde al sole. La veridicità di codeste figurazioni è innegabile per chi conosca un poco quei luoghi. O si vorrà negarla soltanto perchè mancano ad esse le minuzie analitiche, le toppe a' vestiti e i chiodi alle scarpe, care agli acquarellisti di via Margutta? Ma allora bisognerà considerare una colpa l'aver dipinto con alto spirito quanto altri era uso render pedestremente a scopo commerciale.

  Via, via... A questo punto chiarite le fonti vive della sua ispirazione, mi pare che si possa cominciare non più a giustificare Carena della colpa del Museo e della Decorazione, bensì a lodarlo d'ambedue. Egli, in ultima analisi, ha sentito la superba nobiltà di luoghi ricchi di memorie, la saggezza antica di una gente laboriosa, sana, bella, ha superato cioè la caducità sempre misera del presente se lo si guardi con l'occhio incredulo del fariseo; e con la fervida fede del poeta ha risospinto quel lembo di vita rustica e patriarcale nei miti donde sembra essere uscita. Però i suoi contadini sono diventati Apostoli probi e fraterni, le sue donne Susanne dalle carni immortalmente giovani, i suoi fondi paesistici anfiteatri di mirabili architetture naturali sotto soli benigni. E senza perder nulla, badiamo bene, della loro umanita a modo delle arcadie settecentesche; anzi conservandone tutta la elementare naturalità. In altre parole, sono diventati tali in virtù dell'arte che li fonde in uno stampo ove di loro s'esprime solo quel che è durevole e universale. La soda struttura di un torso eretto a cogliere un frutto, tornito e rastremato come il fusto di una colonna splendida di luce; il gesto della pietà reverente verso una salma diletta; la massa solenne dei monti che rivelano l'ossatura intima e fondamentale della regione. Sotto il qual punto di vista la coerenza della tecnica pittorica con la fantasia creatrice è perfetta.
 
  E qui cogliamo, alla fine, proprio quel che è nuovo e definitivo nella evoluzione ultima di Felice Carena. Egli è riuscito insomma ad adeguare sè stesso in quanto pittore al suo sogno in quanto uomo. Quel che di inattuato restava ancora nella sua composizione, di enfatico nel suo colore, di spasmodico nel suo disegno è scomparso, per dar luogo ad una corrispondenza esatta di tutti questi elementi, in un valore unitario di sintesi figurativa. Composizione colore e disegno sono tutti concepiti ed attuati di getto con l'immagine che configurano e il sentimento che esprimono. Questo è il segreto del fatto, notato con felice similitudine da Emilio Cecchi, quando parla di una omogeneità di materia tale da far pensare al lievitare liscio ed uguale del vetro soffiato. Soffiati veramente sono questi quadri, con la colma convessità delle loro figure sui primi piani, e il concavo arco dei loro cieli, dei loro golfi a includere vastità respiranti di luce. Nel ritmo del soffio che li ha creati è tanto equilibrio e padronanza, che più non senti la fatica operosa dell'impartir loro la vita. E solo chi abbia seguito l'ascesa dell'artista, può misurare quale diuturno sforzo debba essergli costato lo spaziare, così, in zone di peso ben bilicato la composizione, il semplificare in linee riassuntive d'ogni dettaglio il disegno, il castigare nelle tonalità sobrie delle terre il colore, e l'aver saputo dare a tutto ciò una forza d'espansione, che fa giganteggiare anche il più povero vasetto rustico di fiori nel riquadro d'un nudo fondo Unito, monumentalmente.

Felice Carena ha potuto tanto, proprio in grazia di quella complessità d'animo che dapprincipio gli riconoscemmo. Senza di essa, senza le infinite sfaccettature della sua sensibilità e della sua cultura, la disciplina delle ragionate rinuncie ai facili sfoggi, avrebbe finito col diventare aridità povera. Invece, sotto la stesura dei suoi smalti si sentono sottintese infinite esperienze che tralucono palpitando, come sotto un'acqua fonda i mille misteri marini delle profondità abissali: non diversamente da quanto vi fanno provare i nostri grandi maestri della classicità.

E per questo egli, romantico di temperamento, classico di aspirazioni, può esser considerato un loro degno continuatore; il più degno forse della presente generazione e di quelle che l'hanno immediatamente preceduta. Alla nuova Italia spetta adesso di sapersi valere dell'opera sua, per qualche grande composizione eroica di decorazione architettonica. Felice Carena ad essa bene è maturo.




ANTONIO MARAINI