Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, 1928-29)

Quattro lutti nell'arte meridionale

L'ARTE MERIDIONALE è stata in pochi giorni colpita da quattro lutti e per essi perde in grande parte quella risonanza che ancOra aveva nel sentimento del pubblico italiano. Achille d'Orsi è morto l'8 di febbraio; Vincenzo Volpe, il giorno dopo; Vincenzo Gemito, il primo di marzo; Francesco Paolo Michetti, il cinque. Volpe che era nato nel 1855 non era una figura di primo piano. Allievo del Morelli è stato soltanto un pittore piacevole, chiaro, elegante, di aneddoti garbati e di ritratti, a olio e a pastello. Buon insegnante, niente di originale ha portato nella pittura italiana. Ma gli altri tre sono stati tre maestri: insegnavano con le opere prima che con le parole. La fama di Gemito s'era rinverdita in questi ultimi dieci o quindici anni, da quando gli amici l'avevano affettuosamente tratto fuor dalla clausura del suo studiolo e quasi dalla follia. La sua scarna testa d'anacoreta dallo sguardo chiaro e aggressivo, dalla gran barba incolta, quando appariva per via suscitava meraviglia ed applausi perché la folla credeva di ritrovarvi quel tanto di magia che è inseparabile dalla creazione dell'arte, infiammate e apocalittiche parole gli uscivano di bocca, ora indovinelli, ora ammonimenti. Niente egli aveva aggiunto di notevole all'opera sua in questi anni, salvo qualche vigoroso disegno, pesante ed inciso, ben lontana dai suoi disegni, acquerelli, pastelli, tutti luce e moto, degli anni giovanili. Ma i ritratti stupendi di Verdi, di Morelli, di Michetti, del suo Masto Ciccio in veste di « Filosofo », le piccole sculture davvero ellenistiche, lucide e guizzanti, dell'Acquaiolo o del Pescatorello, sembravano rivivere ora che riviveva così il loro autore.

Anche d'Orsi nato nel 1845 sei anni prima di Gemito, da molto tempo non lavorava più; ma quando apparve a una Biennale veneziana, una decina d'anni fa, il suo vecchio ritratto di Filippo Palizzi, anche i giovani, secondo la moda, più classicheggianti si dovettero inchinare davanti a quel maschio verismo. Con ciò non vogliamo lodare i suoi Parassiti del 1876, d'una brutalità trita ed inutile, o il Proximus tuus del 1881 cui l'autore dette prima di tutto un valore di propaganda sociale: opere senza stile. Ma ormai chi sapeva più guardare il vero con tanto inesorabile perspicacia? Certo quello non è il fine dell'arte; ma è anche certo che ne è il principio. Lo stesso Canova prima di scolpire le Tre Grazie aveva scolpito la testa di papa Rezzonico.

Come d'Orsi, Michetti da quasi trent'anni non dava più opere compiute; ma la sua ascesa, dal Corpus Domini del 1877 alla Figlia di Jorio nel 1895, era stata tanto cosciente e sicura che la sua fama era sempre circondata dal rispetto universale, indiscussa. Si aggiunga il tenace affetto di lui all'Abruzzo nativo, la sua vita patriarcale tra la collina e la spiaggia di Francavilla, la sua snella figura che pareva anche con la sorridente agilità sfidare la morte, l'amicizia che lo legava a Gabriele d'Annunzio consacrata in pagine memorabili: e si comprenderà la sua popolarità.

Il problema dell'arte meridionale, spenta la luce di queste grandi figure, si fa anche più grave ed urgente. Chi se lo pone? Chi cerca i rimedi? L'avvocato Limongelli che rappresenta in Parlamento le scuole d'arte e che presiede all'Accademia di Napoli? Speriamo.