Pillole d'Arte

    
Autori   |   Opere   |   Documenti   |   Bibliografia   |   Contatti   |   Esci

 
(Fonte : Emporium - n° 90 - Giugno 1902)
Pag. 1/2

Artisti contemporanei - Vincenzo Cabianca

 
Vincenzo Cabianca si è spento serenamente in Roma il 21 di marzo, come serenamente e onestamente aveva vissuto, modesto ma tenace e glorioso odiatore di ogni accademismo ufficiale, lavoratore coscientemente sdegnoso di ogni concessione alla moda od al lucro, pittore genialissimo la cui memoria vincerà il tempo e la cui opera è sicuro decoro della nuova pittura italiana nella seconda metà del secolo XIX. Da più anni una paralisi lo aveva fieramente colpito in tutto il lato sinistro; ma poichè il male aveva quasi avuto rispetto della mano operatrice, così egli, con opportune modificazioni al cavalletto, non restò dal lavorare e dal produrre opere veramente belle, come il suggestivo quadro C'era una volta una chiesinain riva al mare, che alla terza Mostra Veneziana apparve quasi una luminosa affermazione di una forte e nuova giovinezza.

L'artista, innamorato della sua arte, non poteva morire senza un sospiro per essa. L'ultimo quadro a cui attendeva era un acquarello che egli desumeva, trasformandolo e intensificandolo come di consueto, da una freschissima impressione ritratta ad olio in Forio d'Ischia: un muro abbagliante nel sole; l'ombra, davanti, di una croce invisibile; dietro, il mare intensamente turchino aleggiato da due veline bianche. L'acquarello, condotto già bene innanzi, non aveva ancora i lievi tocchi delle vele di pace. E mentre Carlo Ferrari — il diletto discepolo che ne ha ritratte le dignitose sembianze in una calda e vigorosa tela — gli chiudeva gli occhi velati alla luce, l'ultimo sospiro del pittore fu ancora per l'arte, per le due veline bianche mancanti al quadro!
 
Era nato a Verona nel 1827; ma nella patria poco visse, come poco studiò all'Accademia di Venezia, dove pur ottenne qualche premio e frequentò a pena le classi, tanto per essere mandato a far le vacanze a casa. I due periodi più importanti della sua vita possono dirsi quello passato in Toscana e l'altro a Roma. Il primo, di lotta, di battaglia, di ricerche e di affermazione; il secondo, di raccoglimento pensoso e tenace, di esplicazione completa delle sue qualità. E però fu macchiajolo e come tale visse in intima vita col Signorini, col Cecioni, col Banti e specialmente con Nino Costa: amicizie cordiali, per quanto all'apparenza turbate da qualche nuvola, che mantenne sino alla morte.

Firenze non fu il solo centro della sua giovanile attività, fatta di sdegno contro ogni convenzionalismo e di conquista ed interpretazione del vero. Poichè fin d'allora si può dire che i suoi lavori (e la Mandriana e il Porcile al sole del '60 ne furono saggi arditissimi) fossero essenzialmente informati da quei due grandi principii del valore e del rapporto, che costituivano certamente il trionfo della nova scuola.

Così dopo aver vissuto qualche tempo alla Spezia e a Pietravigne, fu a Parigi col Signorini e col Banti; e tornato in Italia si condusse a Parma, dove nel 1864 si ammogliò, ma non restò a lungo, poichè già nel 1868 lo troviamo a Roma. Quivi rimase e fissò la sua dimora, che lasciò solo ne mesi estivi per la villeggiatura a Castiglioncello (dove si recò per nove anni consecutivi), e poi a Rocca di Papa.

Il suo arrivo a Firenze è molto briosamente descritto da Adriano Cecioni in un numero (12 luglio 1885) della Domenica del Fracassa. E ci par proprio di vederlo «giovinetto snello - nell'inverno del 1853 - di statura giusta, vestito molto pulitamente, con un piccolo cappello, un giubbino corto e i pantaloni a coscia» girar per Borgo la Croce in cerca di un pittore, Giovanni Signorini. Ma al Caffè dell'Onore, invece del padre pittore delle feste granducali, trovò il figliolo Telemaco e il Borrani. Da buoni amici si conobbero e si vollero bene e da questa amicizia derivò anche una trasformazione completa nello spirito artistico del giovane, che erasi recato a Firenze, come attratto da un bisogno di novità ideali irresistibile.

Il Signorini ed il Borrani che da prima stupivano nel guardare la pittura di lui superficiale e scolastica, ricamata con molta tinta, all'uso dell'Induno, «con dei bioccolini e delle polpettine di colore che metteva via via su la tela con la punta del pennello», non poterono tardare ad ammirarne la evoluzione verso le loro ricerche, anzi a riconoscerlo come il più appassionato e violento dei novatori.

Compresa la ragione dei rapporti e dei valori, egli la espresse con effetti di chiaroscuro che più che arditi dovevano dirsi prepotenti. Però lo stesso Cecioni ne avverte che se la natura lo avesse aiutato a vedere più giustamente il colore, avrebbe potuto persuadere chiunque che la macchia è fondamento vero della pittura.

Bisogna notare che questa osservazione è fatta da un macchiajolo fervente, già degno del plauso di G. Carducci, oltre un quarto di secolo dopo che il principio e la combriccola poterono affermarsi e trionfare della vieta e stenta accademia, della fredda rigidezza della linea, della ricerca sonora del soggetto pel soggetto. (1)

Però non crediamo inutile insistere su quello che veramente i migliori di essi intesero per macchia ed anche non intesero. Poichè la morte di Vincenzo Cabianca ci rende più liberi e disinvolti nel tributargli encomio altissimo non solo pel verace valore delle sue ricerche serene e vivide, ma anche per la fedele costanza con cui svolse — si può dire fino all'ultima agonia — i principii di battaglia animosamente accolti e perseguiti da giovane.

Molti macchiajoli crederono che macchia volesse dire abbozzo e che lo studio delle gradazioni e delle parti nella parte, servendo a rendere quest'abbozzo finito, bandisse la macchia dal quadro. Invece la macchia è base, e come tale deve restare nel quadro, senza che i particolari formali la distruggano o rendano trita. Poichè il vero resulta agli occhi da macchie di colore e di chiaroscuro, ciascuna delle quali ha un valore proprio che si misura col rapporto. Ma il vero nodo della questione e della fede dei giovani artisti italiani era in questo: che il chiaroscuro avesse una parte primaria ed assoluta, e il colorito secondaria e subordinata. L'errore era nel credere che si dovesse sacrificare l'uno all'altro; come pure errarono quei macchiajoli che, ignorando la legge del colore integralmente eguale a se stesso, lo distinsero in due differenti, quando ebbero a dipingere un muro o una strada metà in luce e metà in ombra.
 
La macchia dunque voleva essere considerata come scienza e non come abbozzo: come scienza e mezzo di sorprendere la natura com'è in uno de' suoi infiniti momenti, addestrando la mano a fissare rapidamente l'effetto complessivo, rigettando ogni sussidio di matita od altro.

Ma se altri deviarono, feroce fu la passione con cui il Cabianca attuò e proseguì il nuovo ideale. - Nel palazzo comunale di Firenze, è ora visibile a tutti un quadro del nostro pittore, che rimonta al 1868 ed è forse, e non solo per le dimensioni, la tela più importante della raccolta che Diego Martelli, l'amico e il critico geniale dei Macchiajoli, ha legata alla città di Firenze. S'intitola semplicemente Bagno fra gli scogli ed è tutta un contrasto di luci e di ombre profonde. Contro il cielo solcato di grandi nuvole bianche e che appare più luminoso per l'opposizione degli scogli foschi ed angolosi, due nude e bronzee femmine si staccano; l'una ci volge il tergo nudo, l'altra si reca il lenzuolo al seno e ride nel fissare la compagna sdraiata e seminuda scherzante col suo bambino.

Nessuna ricerca di linea bella; nè pure una gran sicurezza di scorci; ma un violento gioco di luci che rivelano bene l'innamorato del sole e la potenza coloristica della scuola veneziana. Oltre questa tela, che pare non ottenesse il favore che il pubblico pur concesse alle altre violente ricerche al Mandriano e al Porcile al sole del 1860 ed alle Monachine del 1861 — nella stessa raccolta si possono notare due studii molto più piccoli, rappresentanti un pollaio e lo sfondo di un archivolto. Benchè la impressione diretta del vero e la freschezza del colore ce li rendano simpatici, essi sono la conferma delle riserve già citate del Cecioni.

Continua - Pagina 2/2