Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - n° 198 - Maggio 1911)

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Artisti contemporanei - Antonio Mancini

Un'ultima conseguenza delle premesse tecniche del Mancini, è la limitazione del suo campo visuale, che non gli permette la comprensione contemporanea di molte figure alla grandezza naturale. Egli infatti si limita quasi sempre ad una, sia intera sia a mezzo busto; e talvolta delimita anche più il suo soggetto. In un mezzo busto, per esempio, mette a fuoco la testa e lascia tutto il resto in quella indecisione di luce che egli ama popolare della fantasmagoria cromatica di mille oggetti diversi, perchè rendano una colorazione ricca e, per così dire, spumante. È come una fantastica orchestrazione policroma di accompagnamento alla scientifica verità della voce del vero. Sono le opere che si riallacciano più strettamente alla tradizione del Monticelli e che qui sono rappresentate dalle illustrazioni del Ritratto del padre, del Pollivendolo, dell'Autoritratto e dell'Aurelio, e dalla tricromia, Melanconia.

L'arte del Mancini però appare più grandiosa nella comprensione sintetica della figura interamente a fuoco; ma di tale forma da molto tempo egli non presentava un complesso di opere così vasto come quello esposto quest'anno a Roma. Sono otto tele, quasi tutte eseguite per commissione del signor Otto Messinger, che ha saputo ordinare al pittore dei soggetti molto più decorativi e piacevoli di quelli, che il pubblico era solito vedersi offrire da lui, e contro i quali si mostrava costantemente ostile. Se è vero che scopo supremo dell'arte è quello di esprimere quell' "individuum" che la conoscenza scientifica ha determinato pel conto suo indefinibile, nell'angolo del salone che accoglie le opere del Mancini noi ci troviamo davanti a un gruppo di individui, così potentemente espressi nella loro plasticità e nella loro intensità coloristica, da poter affermare che lo scopo dell'arte nella espressione fisica è stato raggiunto in modo che nemmeno la pittura del passato può presentare nulla di superiore. Una volta collocatici nel giusto punto di vista, queste sue figure femminili, sia che sognino o guardino, o sorridano, o attendano, o stiano abbigliandosi, pare realmente che occupino davanti a noi uno spazio come altrettante persone vive, mentre i due gentiluomini sembrano pesare sul pavimento su cui s'ergono statuariamente.

Ciò che però non è universalmente riconosciuto all'arte del Mancini è la caratterizzazione psicologica, l'espressione cioè della personalità spirituale delle sue figure. Certo esse non possono parlarci tranquillamente con linguaggio dello sguardo e delle minuzie fisionomiche, da noi troppo lontane: ma sanno chiaramente rivelarci il loro essere intimo da tutto l'atteggiamento esteriore della loro individualità fisica, colta in un suo momento caratteristico e fuggevole. Poichè il merito insuperabile del nostro pittore è quello appunto di fissare per sempre la vivacità della visione da lui percepita nel primo istante dell' osservazione, senza ch'essa si smorzi o affievolisca durante il lungo e faticoso lavoro di esecuzione.

Tra le varie modelle che suonano o sognano da buone borghesi, e la signorina in lilla, lieta della sua giovine anima fiorita tra le eleganze della società, la differenza dell'esistenza di un giorno di gala da quella dell'abitudine è d'una evidenza palese. La signorina è caratterizzata tale non solo dall'abbigliamento, ma da tutta l'attitudine del suo essere: dalla posa elegantissima e spontanea, dalla gentilissima mano trasparente che sfiora la guancia, dalla tenerezza dell'epidermide, dalla soavità del viso, dalla delicatezza del sorriso e dello sguardo. Questo quadro è una così nitida biografia della vita della nostra società elegante, come una figura femminile del Velasquez può essere della rigida esistenza di corte del suo tempo.


E anche nei visi di quelle figure, che evidentemente sono semplici modelli, l'arte del Mancini arriva a delle vere e proprie definizioni di caratteri. Mentre la Sonatrice di liuto è un temperamento fisico, affogato nella dolcezza del lusso che la circonda, la Toeletta mostra la donna intenta alla venale cura della sua bellezza, il Costume roccocò la sana spensieratezza giovanile, e L'innamorata e la Suonatrice la ingenua bontà in due momenti diversi: nell'apparizione cioè d'una gioia attesa e nella soave persistenza del ricordo di essa. In quest'ultima specialmente è un sorriso di così delicata penetrazione da illuminare di poesia tutta un'anima femminile.

Anche i due gentiluomini, nonostante la somiglianza delle teste, presentano due aspetti chiari e diversi: la spavalda risolutezza dell'uomo d'armi e la fredda allegria del don Giovanni.

Questi costumi maschili e femminili non hanno pretensione di ricostruzioni storiche o etnografiche, ma nella loro intensa verità individuale assumono indubbiamente il valore di caratteri ambientati in una fastosa orchestrazione cromatica, valore anche più evidente nei due superbi ritratti del signor O. Messinger qui illustrati. Quello in ispecie a figura intera, ritto e rigido davanti alla portiera d'un'anticamera, nella severità delle tinte dominanti, grigio e nero, esprime tutta la fermezza inflessibile della volontà tedesca.

Purtroppo il Mancini non può vantare per le sue figure una stilizzazione di eleganza mondana quale i suoi contemporanei inglesi e francesi, o il Laslo e lo Zorn; ma a nessuno io credo verrebbe in mente di fare un processo estetico al Rembrandt o a Frans Hals perchè ignoravano le raffinatezze del Van Dyck. Può nuocere al nostro artista presso il pubblico anche la complessità veristica dei suoi individui, poiché in arte, come in letteratura, i caratteri sono sempre meno facili a capire e ad apprezzare che i tipi, come questi meno ancora delle macchiette.

A noi però sembra che la complessità individuale fisica e psichica del vero completamente resa sia sufficiente gloria ad un artista, poichè noi modestamente condividiamo l'opinione di quel grande inventore e narratore di allegorie e storie che fu Luca Giordano, il quale davanti al gruppo di ritratti del Velasquez che porta il nome di Meninas, osò proclamare che quella era "la teologia della pittura".


Leandro Ozzola                  


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