L'ho riveduto a Venezia l'aprile scorso, dopo molti anni, ma
immutato e, pare, immutabile.
- Quando riparti ?
- Quando finisce la carica.
Uno dei presenti ha osato domandate:
- Che carica ?
Michetti s'è fatto indietro con la testa, quasi per
contemplare nelle sue tre dimensioni la cubica ignoranza
dell'interlocutore, gli ha spalancato addosso i suoi grandi
occhi neri, e ha ripetuto:
- Mah... la carica, - e l'ha sillabato
con tanto stupefatta semplicità che quell'altro ha pensato a
qualche carica senatoriale, professorale, ministeriale del
celebre pittore, notissima a tutti e sfortunatamente a lui
ignota, e non ha più fiatato. Ma Michetti l'ha soccorso; ha
chiuso gli occhi come per raccogliersi prima di rivelare il
terribile mistero, poi gli ha spiegato tra paterno e
scanzonato:
- Vede, quando io vado in una città, carico dentro di me la
molla della pazienza. Ma non posso sapere quanto dura la
carica. All'improvviso la molla scatta. E allora non c' è
santi che tengano. Da un'ora all'altra, da un minuto
all'altro, io lascio tutto in asso e torno a Francavilla.
Dalle città io non parto, fuggo. Ha capito che cos'è la
carica ?
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Infatti era arrivato lì all'esposizione un giorno prima
dell'inaugurazione. Fino allora non erano giunte che le
cornici dei suoi paesaggi. La segreteria gli aveva
telegrafato e ritelegrafato per sapere almeno i titoli:
nessuna risposta. Michetti esporrà? Non esporrà? La sala che
gli era destinata aspettava, vuota. Il catalogo era stato
stampato con questa sola indicazione per quella sala:
"Quindici paesaggi abruzzesi". Fradeletto già pensava a che
cosa bisognava mettervi se mancavano i quadri di Michetti. E
finalmente Michetti è arrivato sereno, un gran rotolo sotto
il braccio.
- E i quadri ?
- Eccoli, - e ha mostrato il rotolo.
- Tutti e quindici ?
- Non bastano ?
- Ma per metterli in cornice? Per appenderli? Ci son più
poche ore.....
- Sono anche troppe, - e s'è messo da sè a lavorare
rifiutando ogni aiuto.
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Traeva dal rotolo una tempera, la stendeva sul cartone
bianco, la appuntava in quattro gesti con certe sue spille.
Due ore dopo la sala era pronta. E' passato un altro mese
prima che si risolvesse a dare i prezzi di quei paesaggi. Ad
alcuni intanto sembrava che i quadri fossero esposti troppo
in alto; ad altri che quella crudissima carta bianca su cui
egli aveva appuntato le sue tempere, le scurisse. Qualcuno
ha osato dirglielo. Michetti è stato inflessibile: era un
suo metodo, un suo ragionamento, una sua scoperta, e non
ammetteva discussioni. Lo stesso aveva fatto trent'anni fa,
nel 1881, alla grande Nazionale di Milano. Aveva telegrafato
promettendo trentacinque opere, ma chiedendo tutt'una sala
parata di tela azzurra. E arrivò all'ultimo momento con
tutte le sue opere, ma quando non trovò la tela azzurra si
rifiutò di trarle dalle casse. Ci volle del bello e del
buono a convincerlo; egli aveva la sua teoria sulla tela
azzurra e Leonardo in persona non l'avrebbe smosso.
Perchè con Michetti potete discutere, fino a un certo punto,
sulla bellezza d'una sua pittura, ma non sui vantaggi d'una
sua scoperta tecnica o meccanica. Da dieci anni, ad esempio,
egli ha dipinto poco perchè ha atteso a rendere perfetta
questa sua nuova tempera in cui il colore è sciolto con uno
speciale processo nella glicerina, e a renderla maneggevole
tanto che ha inventato anche un lungo sgocciolatoio
automatico perchè sulla carta scorra sempre un po' d'acqua e
sgrassi il colore. Adesso egli pensa che la sua tempera sia
trasparente, maneggevole, definitiva, e solo per questo ha
dipinto in poco tempo questi suoi paesaggi e ha accettato
l'invito di Venezia e li ha esposti. - Ho perduto molto
tempo per poter fare presto.
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Far presto. Un pittore che in piena accademia di
divisionisti, di puntinisti, di ricamisti faticosi, d' "ingenuisti"
grafomani capaci magari di costruire una teoria filosofica
per sorreggere quattro freghi di bianco rosso e verde e
farli credere pittura, si occupa ancora di raggiungere una
tecnica veloce fluida e sicura per dire presto e chiaramente
quel che ha da dire, è un miracolo. Anche prima che d'arte,
è un miracolo di sincerità e d'abnegazione. Di sincerità,
perchè Michetti s'affanna dietro a questi problemi tecnici
soltanto per togliere alla sua irruenza di meridionale ogni
impaccio nel mezzo d'espressione, cioè per essere più
immediato e più semplice che gli è possibile, forse in
quest'ansia di ricerche dimenticando qualche volta che non
basta un buon inchiostro per scrivere una buona poesia.
D'abnegazione, perchè di fatto pochi pittori moderni
raggiunsero tanto presto quanto lui tanta destrezza e
prontezza nel dipingere ad olio, a pastello, a guazzo, a
tempera felicemente; e di questi pochi nessuno, dopo
l'ebbrezza dei primi anni, diffidò quanto lui di questa
destrezza e continuò, come egli continua anche sessantenne,
a cercare sempre di imitare la piacevole abilità in meditata
semplicità. Il quale sforzo giustificò dieciotto anni fa
l'iperbole affettuosa di Gabriele d'Annunzio: "Egli non è
soltanto il più possente e il più felice organismo pittorico
apparso in questo secolo; ma è ben anco la più acuta
intelligenza che sia penetrata nel pieno spirito dell'Arte
moderna".
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A Tocco Casauria, in quel di Chieti, si sale dalla strada di
Popoli per bere l'ardente e limpido Centerbe che vi si
distilla dall'erbe della Majella, e per vedere la casa dov'è
nato Francesco Paolo Michetti. Della casa, veramente, dal
grande stradale bianco non si vede che una finestrella cogli
stipiti bianchi sulla facciata rosa, ma appena arriva un
forestiero, tutte le dita si tendono a quella finestrella: -
Lassù è nato Michetti! - Gli abruzzesi hanno infatti, fra i
viventi, molti uomini celebri: d'Annunzio, Michetti, Tosti e
Benedetto Croce. Ma il mastro, cioè il maestro, resta
Michetti, non solo perchè è Michetti, ma perchè non ha
lasciato mai l'Abruzzo.
Suo padre, Crispino Michetti, maestro di musica e capobanda
a Tocco, morì che Cicillo era bambino. - Ero nel negozio di
mio nonno ? narra Michetti, ? e molte persone si chinavano
su me, accarezzandomi: "Papà è morto". Morto? Non capivo.
Andai su a casa e mi sedetti in fondo alla scala. Tanta
gente saliva e scendeva e passando tutti mi facevano una
carezza. Io li guardavo curioso e orgoglioso di meritare
tante attenzioni. E della morte di mio padre non ricordo
altro.
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Aveva quattro fratelli e una sorella. Per essi, sua madre,
una romana, Aurelia Terzini, dovette risposarsi, con un
cuoco che condusse la nuova famiglia a Chieti dove Francesco
Paolo fu mandato alle tecniche. Vi insegnava disegno alla
meglio un tipografo, e il ragazzo lo seguiva anche fuori di
scuola per aver carta e matita. Tanto disegnò che a
diciassette anni, nel 1868, ottenne dalla Provincia trenta
lire al mese e corse a Napoli. L'avevano raccomandato
all'incisore Bocchini, un chietino. Proprio il giorno dopo
l'arrivo del Michetti, egli doveva andare all'Accademia per
presentare le prime prove di alcune incisioni al professore
Gabriele Smargiassi abruzzese anche lui, di Vasto, che aveva
insegnato pittura, si diceva, a Napoleone terzo, era stato
carissimo al Conte d'Aquila fratello di re Francesco, aveva
viaggiato mezza Europa e aveva venduto paesaggi storici ed
eroici a tutte le corti del mondo. Il Bocchini condusse con
sè il suo raccomandato. Lo Smargiassi, elegante, solenne,
vestito all'inglese, la barba a spazzola, li ricevè con
sussiego.
- Sa, questo è un giovanetto che viene da Chieti per
diventare un pittore....
- Comme, tu vo' fa o' pittore? Fa chiuttosto 'o
solachiaviello, - che in napoletano vuol dire calzolaio.
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Adesso il Michetti descrivendo quell'incontro commenta: ?
Quella fu la prima parola che udii dall'arte ufficiale. ?
Naturalmente all'accademia di nudo non fu ammesso. Ci si
ficcò da sè, con la sua imperturbabile sicurezza. Edoardo
Dalbono, che frequentava quell'accademia, una sera di
inverno, durante il riposo del modello, passeggiando dietro
i banchi per scaldarsi, vide in un angolo buio quel ragazzo
scuro come un mulatto, con due occhi lucidi e impertinenti,
vestito di panno turchino come un capraio.
- Perchè non andate a disegnare sui banchi ?
- E chi mi dà una tavoletta? Chi mi dà un foglio di carta da
disegno? E poi chi mi dà il permesso? Il bidello se mi vede
mi mette alla porta. - Lasciatemi vedere quel che fate,
- e il Dalbono dovè strappargli di mano il pezzo di carta da
droghiere su cui quello disegnava. Restò stupefatto, lo
invitò al suo studio, convinse suo zio Cesare Dalbono
presidente dell'Accademia ad ammetterlo ai corsi
regolarmente. E Michetti studiò, dipinse, incise, scolpì con
una furia di cui solo più tardi capì la ragione segreta:
voleva imparare tutto quel che poteva imparare, e poi
tornarsene in Abruzzo. Né imparare gli riusciva difficile,
che egli era nato per dipingere come gli uccelli son nati
per volare. Era scontroso sempre e di poche parole: pareva
temesse che, a vederlo ancora così giovane e povero e
ignoto, qualcuno potesse dubitare di lui e di tutto quel che
egli ormai era certo di poter fare. Dipingeva sopra tutto
animali perchè Palizzi li aveva messi di moda in pittura,
perché gli facevan pensare alla campagna desiderata e
lontana, infine perchè come modelli non costavano niente.
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