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					|  Ma per fortuna il pittore, avvertito, già correva giù per la 
					collina al gran trotto del suo cavallo verso Francavilla. Da 
					quel che aveva veduto nella chiesa prima che San Pantaleone 
					uscisse al sole e soffrisse le indiscrezioni 
					dell'obbiettivo, egli aveva tratto il soggetto del quadro: 
					il busto del santo sopra un tappeto in terra tra sei 
					candelieri, i contadini la lingua per terra, striscianti e 
					sanguinanti dalla soglia della chiesa fino all'idolo che 
					abbracciavano singhiozzando e tremendo, il prete sereno e 
					sorridente sotto il gran piviale, inginocchiato lì presso 
					con l'aspersorio in mano, e dietro a lui la folla, uomini, 
					donne, vecchie, spose, infermi, bambini, tutti con un cero 
					in mano, l'anima negli occhi, estatici e dolenti. 
 Si badi. Una più tragica visione della vita paesana era 
					anche in Italia, nell'aria. Giovanni Verga aveva pubblicato 
					nell'80 la Vita dei Campi e nell'81 I Malavoglia 
					e si doveva parlar di verismo, nel senso francese e 
					pessimistico, anche al caffè di Pescara. In arte Millet, 
					morto nel 1875, cominciava ad essere conosciuto anche da noi 
					ed esaltato tanto che trovava degl'imitatori (a modo loro, 
					s'intende) perfino nella mite Toscana e che da qualcuno era 
					già proposto come il solo possibile contravveleno 
					all'ubbriacatura spagnola dei minuscoli epigoni fortuniani. 
					E d'Orsi aveva esposto a Torino, tre anni prima, il 
					Proximus tuus e due anni prima, a Milano, Patini, un 
					abruzzese, L'erede; e anche attorno ad essi, 
					imitazioni e plagi che non avevano avuto paura di ripetere 
					magari lo stesso titolo della statua o della pittura 
					imitata.
 
 Si noti ancora. La trasformazione del Michetti è nel Voto 
					meno profonda di quel che si disse allora. Il soggetto 
					brutale è nuovo, ma la pittura resta la stessa: la stessa 
					luminosità dei singoli oggetti senza l'unità della luce 
					ambiente, lo stesso balzar in avanti di certe figure del 
					fondo, la stessa minuzia di certi particolari e lo stesso 
					sprezzo per certi altri, a capriccio, senza una logica 
					visibile, così che al quadro mancavano ancora il centro e 
					l'equilibrio, la stessa importanza data alla figura umana 
					fin nei suoi ornamenti e nei suoi fronzoli, la stessa 
					sommaria e fiacca pittura deí fondi, insomma la stessa 
					visibile ostentazione della propria maestria senza 
					un'austera ricerca di stile, che stile è rinuncia, 
					semplificazione, misura. Come nel Corpus Domini, come 
					nell'Ottava, come nei Morticini, anche nel 
Voto, dopo la prima ammirazione, si poteva sentire che il pittore avrebbe 
					prodotto nello spettatore capace una più intensa emozione di 
					gioja, di pena, di ribrezzo, se si fosse meno disperso e 
					avesse voluto scegliere.
 
 
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					|  L'economia dell'attenzione è in pittura come in letteratura 
					una condizione per la intensità dell'emozione. E, da 
					Tintoretto a Millet, da Rembrandt a Boecklin, tutti i 
					pittori di sentimento e di passione hanno obbedito, 
					sapendolo o non sapendolo, a questa legge del minimo mezzo. 
					Michetti ancora non vi obbediva. Si poteva dire che egli 
					amava ancora sè stesso, la sua mano prodigiosa, la sua 
					acutezza d'osservazione più dell'arte, e preferiva ancora 
					far ammirare le proprie qualità di pittore più che il suo 
					quadro. Dal quale l'anima sua restava fuori. Nelle altre sue 
					opere, o la letizia primaverile o l'ebbrezza amorosa o la 
					tristezza autunnale o la nostalgia davanti a un tramonto sul 
					mare, eran visibili e comunicative anche se in quelle 
					maggiori e più affollate l'efficacia era stata, come ho 
					detto, diminuíta dalla dispesione delle parti. Ma qui, 
					creando il 
Voto, che aveva egli sentito? Aveva forse, come più tardi nel Trionfo 
					della Morte Giorgio Aurispa davanti a uno spettacolo 
					simile, provato dentro quella chiesa "il disgusto per la 
					bestia immonda strisciante nella polvere consacrata"? 
					Esperimentando quella "aderenza materiale con lo strato 
					infimo della sua razza" aveva egli arretrato d'orrore o 
					aveva sorriso di scetticismo o aveva tremato per un 
					improvviso contagio di bestialità e di superstizione? Non si 
					capiva. Egli aveva dipinto quelle cinquanta figure del suo 
					quadro oggettivamente come si diceva in quelli anni in cui 
					si credeva nella favola d'un'arte oggettiva, cioè 
					macchinalmente (una macchina prodigiosa e perfetta, 
					s'intende) tanto che la pittura, ripeto, era stupefacente, 
					ma non il quadro. 
 
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					|  Quella pittura, pezzo per pezzo, figura per figura, superava 
					per la varietà delle figure, la verità delle espressioni, il 
					vigore del disegno tutto quel che il "mago" aveva fatto fino 
					allora. E per questo gli studi che l'accompagnavano furono 
					tutti venduti in pochi giorni, a mille lire l'uno, e il 
					primo l'acquistò un pittore spagnolo, il Pradilla, e 
					ringraziò Michetti del regalo: lode pericolosa che voleva 
					inutilmente ricondurlo fra gli stanchi seguaci del Fortuny. 
					Alma Tadema scrisse allora a Domenico Morelli: "Michetti 
					est tout bonnement admirable: j'en suis fou". Ad inni 
					universali si opposero da un lato pochi "costaroli", o 
					discepoli di Nino Costa il quale in quelli anni si sforzava 
					di ricondurre l'arte italiana sugli ammaestramenti inglesi a 
					una semplicità e a un'ingenuità da primitivi e che appunto 
					l'anno dopo nella stessa Roma finiva a raccogliere il suo 
					gruppo nella società In arte libertas. L'articolo 
					romanescamente violento e inutilmente scortese che il Costa 
					scrisse contro il Voto partì da quel programma e fece 
					perciò un grande rumore. E il rumore crebbe quando la 
					commissione incaricata dal ministro delle compere ufficiali 
					
					(2) comprò tutto per quarantasettemila 
					lire — il Refugium peccatorum del Nono, il Bosco 
					di Castagni del Boggiani, il Mulino a Verona del 
					Bezzi, il Viaggio triste del Faccioli, un ritratto 
					del Tallone, ma non il Voto del Michetti. Poichè col 
					Michetti erano stati esclusi dalle compere anche il 
					Favretto, il Delleani, il Fattori, il Carcano, il Tito, il 
					Rossano, fu un urlo generale, da Torino a Napoli. I più 
					severi e meditati articoli in quella girandola di polemiche 
					furono scritti da Luigi Chirtani sul Corriere della Sera. 
 Ettore Ferrari portò la questione alla Camera e Guido 
					Baccelli ministro dell'Istruzione nominò sei deputati - 
					Odescalchi pel Lazio, Martini per la Toscana, de Riseis per 
					le province dette napoletane, Crispi per la Sicilia, Perazzi 
					per tutta l'alta Italia, Salaris per la Sardegna — perchè 
					distribuissero (oh le idee artistiche del parlamento 
					italiano...) altre centocinquantamila lire in tre parti 
					uguali, una per l'Italia settentrionale, una per quella 
					centrale, una pel resto! E la commissione comprò finalmente 
					per quarantamila lire il Voto di Michetti. Lo sforzo 
					fu tanto che da allora, in ventisette anni, il governo non è 
					riuscito a comprare altro di lui che una Pastorella, una non 
					felice variante di quella della collezione Rotondo.
 
 
 |  
					|  Nino Costa in quel suo articolo fra molte iniquità aveva 
					scritto queste parole giuste: "Gran peccato che un uomo 
					tanto ben dotato dalla natura non sappia essere più 
					semplice, per la coscienza della propria forza". Non so se 
					il Michetti leggesse o, se lo lesse, meditasse questo 
					giudizio. Ho già indicato altre cause e altri esempi che 
					poterono subito dopo il Voto 
					spingerlo verso una semplificazione e verso una ricerca di 
					stile più vigile e più severa. Certo egli col Voto 
					aveva nella piena maturità del suo ingegno mostrato la 
					sincera volontà di rinnovarsi magari restando per qualche 
					anno in disparte. A Torino nel 1884 non espose che 
					acqueforti, scenette di campagna già da lui incise a Parigi 
					nella casa Cadart e pubblicate dal giornale L'Art chè 
					all'Istituto di Napoli egli aveva studiato anche incisione 
					con Aloisio Juvara: a Venezia nel 1887, fra alcuni dei 
					quadretti idillici che l'avevan condotto alla fama, non 
					mandò di nuovo che un ritratto — il ritratto della signora 
					Maria Bernadacki. Al ritratto si era dato in quelli anni con 
					passione e ne aveva fatti a olio del re, della regina, della 
					principessa Odescalchi (pel principe Baldassare Odescalchi 
					aveva dipinto anche un Innocenzo XI che fu donato al 
					Papa) e, a pastello, di sua moglie, di sua suocera, del 
					d'Annunzio. D'Annunzio nel 1893 scrisse che i ritratti del 
					re e della regina erano vere pagine storiche comparabili 
					certo nella bellezza al Francesco I di Tiziano, al 
Giulio II di Rafaele, all'Almirante Pareja del Velasquez, al 
					William Waram di Hans Holbein. I paragoni erano un poco 
					contradditori e molto pericolosi: erano di maniera quanto 
					quel "Rafaele". E quelle due tele oggi nella galleria 
					veneziana d'arte moderna non sembrano più a nessuno degre ne 
					di Tiziano nè del miglior Michetti. Ma il poeta che per un 
					altro ritratto di Umberto aveva egli stesso indossato 
					l'uniforme reale e aveva posato davanti a Michetti per la 
					figura del re, vedeva giusto quando scorgeva in quei 
					ritratti e negli altri di quelli anni e nelle teste che poi 
					Michetti espose a Roma nel giugno del 1893, l'inizio per lui 
					di un periodo più tranquillo e più lucido, una maggior 
					purezza di pittura, uno sforzo costante a nascondere la 
					propria sapienza, a raggiungere una più schietta semplicità. 
 L'effetto di questi propositi fu finalmente la grande 
					tempera della Figlia di Jorio che apparve alla prima 
					biennale di Venezia nel 1895 e che adesso è purtroppo nella 
					Galleria Nazionale di Berlino, col Ritorno e con 
					L'Ora triste 
					di Giovanni Segantini.
 
 
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					|  Alle falde della Majella che biancheggia nel fondo, lungo un 
					ciglione, sul sentiero fangoso, passa la figlia di Jorio 
					(Jorio in abruzzese è Gregorio), la "cagna randagia", il 
					capo ammantato dal suo mantello rosso color di bucchero; 
					sull'orlo del ciglione sei uomini, giovani e vecchi, la 
					guardano cupidi e chi ride e chi ghigna e chi l'ammira 
					estatico; l'ultimo in piedi è decapitato dalla cornice 
					
					(3), un ramo nudo di mandorlo tende da 
					sinistra pochi fiori verso la bella desiderata, ma non si 
					vede l'albero che lo sostiene. 
 Da venti anni Michetti pensava a quel tema che più tardi, 
					nel 1904, suggerì a Gabriele d'Annunzio la sua tragedia 
					pastorale. Prima ne aveva fatto un disegno ravvivato da due 
					o tre colori, intitolato La rejetta, e la donna vi 
					passava davanti a gruppi d'uomini e di donne che 
					confabulavano in aria dí mistero fuori d'un villaggio di cui 
					si intravvedevano tra gli alberi le prime case. In un altro 
					disegno sul quale era scritto Passione, scena umana, 
					una gran folla era fuori d'una chiesa e, proprio nel centro, 
					in un vuoto di ostilità, si vedeva passare una donna, curva 
					sotto uno sciale nero, con una mano sulla faccia, e il 
					tendone rialzato a metà sulla porta maggiore del tempio 
					recava — proprio così... — la parola 
Caritas. Pian piano la scena si era semplificata, i costumi eran 
					diventati precisamente quelli di Orsogna, un caratteristico 
					paesotto in quel d'Ortona rinomato per una pittoresca 
					processione detta "dei Talami"; e non erano restati in 
					cospetto della Figlia di Jorio sopra una ripa verde 
					che cinque uomini: questa piccola tempera fu esposta a 
					Milano nel 1881. Ma in nessuno di questi e degli altri studi 
					e quadri preparatori, appariva ancora lo sfondo della 
					montagna azzurra e bianca, - alone niveo di purezza su quel 
					rosso peccato e quelle brame. E in nessuno — quel che più 
					importa — la pittura era squadrata con pochi piani e con 
					tanta fermezza e con tanta larghezza come nel quadro. La 
					donna e il giovane seduto nel mezzo del quadro e l'uomo 
					senza testa e un'altra mezza figura di donna che appare 
					ferma a destra, con una secchia sul capo, sembrarono 
					addirittura dipinte da un pittore a fresco che avesse 
					studiato Masaccio o Pier della Francesca e la loro pittura 
					statuaria. Niente fronzoli, niente particolari inutili: quel 
					che si doveva dire e niente altro. E l'uomo decapitato e la 
					donna tagliata a metà e il ramo di mandorlo senza tronco 
					pareva che fossero lì per dichiarare questa intenzione del 
					pittore di parlar breve e limpido, senza una sillaba di più 
					del necessario. Solo nel terreno schizzato con poca 
					consistenza era l'ultimo ricordo del Michetti beato di 
					mostrare la propria bravura.
 
 
 |  
					|  L'anno dopo egli vendeva — dicesi — per trecentomila lire al 
					signor Ernesto Seeger di Berlino quel quadro e tutto quello 
					che aveva nello studio — quadri ad olio e a tempera, e casse 
					e casse di pastelli e di guazzi, di appunti e di simili. 
					Quando nel 1889 partivo per Berlino per andare a vedere la 
					mostra di tutte quelle opere, egli mi disse: - Troverai là 
					tutto il mio lavoro di venti anni. Le pareti, le casse, le 
					tavole del mio studio sono vuote. Ricomincio da capo, — e 
					sorrideva agile e sano, soddisfatto di quella seconda 
					giovinezza, felice di ritrovarsi davanti alla vita con occhi 
					nuovi e con un bel sole di gloria sull'aperto orizzonte. 
 A Berlino la Figlia di Jrio del 1895 era esposta di 
					contro al Corpus Domini del 1877. Tra quei due poli 
					era chiusa tutta la nobilissima vita di questo solitario che 
					aveva lavorato per venti anni a domare la facilità e 
					l'irruenza del suo genio e a trovargli uno stile: una vita e 
					un esempio.
 
 Perchè da allora Michetti non ha più esposto un dipinto che 
					continuasse la matura e virile bellezza di quella sua 
					tempera? Il quadro l'Offerta che fu donato dalle dame 
					e dai gentiluomini di Corte alla nuova regina d'Italia per 
					le sue nozze, i disegni per la Bibbia d'Amsterdam esposti a 
					Roma nel 1902, d'una forza tragica contenuta con tanta 
					fermezza nella osservazione del vero che parvero, meno il 
					Saul, troppo realistici in un momento in cui la pittura 
					religiosa già tornava mistica e fantastica, sono sembrati 
					passatempi per chi a quarantaquattro anni aveva costruito 
					quel monumento. D'altra parte le due grandi tempere esposte 
					a Parigi nel 1900, I Serpenti e Gli Storpii, 
					parvero un ritorno alle intemperanze dei primi anni. 
					Raffigurava la prima una processione attraverso un prato 
					verdissimo, sullo sfondo d'una chiesa dal portico alto e 
					affrescato, con confraternite di uomini e gruppi di donne e 
					di bimbi in vesti violentemente policrome, tutti cinti di 
					serpi verdastri e sul collo, sulle braccia, sulle croci, sui 
					ceri; e la seconda, alcuni selvaggi episodi del 
					pellegrinaggio di Casalbordino già descritto dal d'Annunzio 
					nel Trionfo della Morte, cioè sotto un ripone giallo 
					e riarso cinque o sei gruppi di storpii mostruosi e 
					d'infermi protesi verso la croce che passa, spasimanti a 
					implorare il miracolo. V'erano i soliti suoi pezzi 
					d'incomparabile bravura, ma v'era anche quella sua antica 
					ostentata noncuranza per la prospettiva lineare, per l'unità 
					della luce, per la composizione o almeno per 
					quell'equilibrio dei colori e delle masse che forma il 
					quadro e toglie allo spettatore il fastidio di sentirsi 
					davanti a un frammento, a un'opera inorganica che potrebbe 
					continuare ancora per metri o essere senza danno 
					dell'effetto tagliata ancora in frammenti minori. E, del 
					resto, da allora, silenzio.
 
 
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					| La psicologia degli artisti vivi è difficile a definirsi. 
					Quella degli antichi è più facile non solo perchè tutte le 
					opere vi stan davanti alla mente e tutte le ipotesi sono 
					lecite e anzi le più ardite e scortesi hanno il miglior 
					successo, ma anche perchè gli artisti sulle cui vicende lo 
					psicologo o lo storico o il critico s'affaccendano, son 
					dalla morte costretti a tacere. Invece sull'apparente 
					inerzia di Francesco Paolo Michetti non è chi non dica la 
					sua. E v'è chi ne dà la colpa alla sua clausura in 
					provincia, anzi in campagna, lontano dalle lotte e dalla 
					concitazione e dall'emulazione delle città. E v'è chi la 
					attribuisce a una specie di disgusto per l'arte venutogli 
					dalla stessa facilità con cui ormai egli lavorava, perchè il 
					piacere di creare vien solo dal dolore della gestazione. E 
					v'è chi trae da qualche frase pessimistica del Michetti la 
					conclusione che dopo il 1896, dopo Adua, e dopo la 
					rassegnazione con cui gli italiani sembrano aver accolto la 
					sconfitta, egli ormai disperi dell'avvenire della patria, e 
					il lavoro gli sembri faticoso davanti a un pubblico sempre 
					più meschino e sempre più egoista. E v'è anche fra gli 
					artisti più giovani chi dice che il Michetti, tenutosi 
					lontano a parole e a fatti da tutti i più recenti dibattiti 
					sulla tecnica e sugli ideali della pittura — dibattiti che, 
					del resto, sono un plagio tardivo di quelli di venti e 
					trent'anni fa in Francia - , non abbia più voglia di esporre 
					quadri per sentirsi, nel pieno vigor dell'ingegno, 
					proclamare un superstite.... Tutte ipotesi e probabilmente 
					tutte ciancie. 
 Michetti, certo, non se ne cura e forse nemmeno le sa. Su 
					lui come sul suo d'Annunzio, chi li conosce da vicino, sa 
					che è da savio non fare profezie perchè oggi essi sono, come 
					venti anni fa, capaci di far ammutolire critici e profeti 
					con una opera sola, inattesa, e oggi, conte vent'anni fa, 
					una cosa sola sembra impossibile a guardarli e a udirli: che 
					invecchino. Intanto Michetti continua a vivere, a studiare, 
					a cercare, a meditare in un'attivissima pace nella sua 
					Francavilla tra la collina e il mare presso la sua donna 
					Annunziata, moglie e madre esemplare, presso la sua bella e 
					dolce figliola Aurelia dai capelli neri, presso il suo 
					Sandro che si è impiantato lassù tutt'un laboratorio di 
					chimica e di meccanica. E nella cella del Convento di Santa 
					Maria Maggiore dove Gabriele d'Annunzio tant'anni fa ha 
					scritto il Piacere e ha sognato la sua Elena Muti 
					sotto la coperta di seta fina "d'un colore azzurro disfatto" 
					ricamata niente meno che coi dodici segni dello Zodiaco e 
					proveniente niente meno che dal corredo di Bianca Maria 
					Sforza, le buone e sane donne di casa Michetti hanno posto 
					una macchina da cucire e cuciono i loro semplici lini 
					profumati di spigo.....
 
 
 
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					| Ugo Ojetti 
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