Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - nr 192 - Dicembre 1910)

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Francesco Paolo Michetti

 
Nè l'influsso del Fortunv fu il solo influsso straniero visibile allora nelle opere del Michetti. Da dieci anni, e precisamente dall' esposizione internazionale del 1867, Parigi aveva messo alla moda i chiari e capricciosi pittori giapponesi e lo stesso Fortuny ne era stato incantato, ma solo il gruppo intorno a Manet e a Degas aveva tratto da quell'iniziazione vantaggi positivi e durevoli: la limpidezza della colorazione, la vivacità nel cogliere espressioni e movimenti fuggevoli, la libertà del comporre equilibrando il quadro solo sopra un'armonia di colori e non più sulla simmetria delle linee e sul contrappeso delle Masse. Come era avvenuto ai fontanesiani piemontesi e ai "Macchiajoli" fiorentini, che avevano studiato il paesaggio inglese di Bonington e di Constable solo sui grandi paesisti francesi del 1830, anche questa volta gl'italiani non videro o almeno non capirono i giapponesi che attraverso al Fortuny e, peggio, attraverso i suoi minori e sfarfalleggianti seguaci. Fu un delirio: illustrazioni di libri, manifesti murali, testate di giornali, copertine di romanze, mode femminili, decorazioni di intere sale, tutto parve uscir dai ventagli e dai paraventi e dalle false lacche dei bazar giapponesi di Napoli e di Roma. E pittori di ventagli, spesso come il Dalbono squisiti di brio, sorsero in ogni angolo d'Italia, schiavi del Giappone in nome della libertà. E in tutti quelli che vollero dirsi originali e moderni fu presto visibile l'odio pel color mummia e per le così dette "tinte sugose" d'una volta, la diffidenza pei gialli e l'amor per la biacca, la ricerca della luce di faccia per evitare più che fosse possibile le ombre, la passione pei toni locali ed interi e, in conclusione, il deliberato disdegno della prospettiva aerea, la mancanza di ogni profondità, tutte le figure sullo stesso piano egualmente chiare, dipinte a fior di tela. Son le parole di un pittore, di Francesco Netti, scritte appunto per l'esposizione napoletana del 1877 e del Corpus Domini di Francesco Paolo Michetti.

Il quale da quel capriccio che era venuto di moda e che corrispondeva tanto bene alla sua giovinezza, partì di corsa per mostrare in altri cento modi la sua fantasia bizzarra. Il modo più evidente furono le cornici dei quadri che egli naturalmente eseguiva da sè. Quella del Corpus Domini color di ferro, con una donna dipinta in alto avvolta in un lungo lenzuolo e un bambino in braccio alla donna, e, sotto, un uomo nudo e un disco d'ottone lucido con su una palla nera, recava scarabei, stelle marine, rosarii, crocifissi, discipline, scapolari in una confusione che voleva essere un commento del quadro e quasi una raccolta dei più singolari emblemi dell'anima abruzzese. E contro la cornice i critici si scagliarono anche più ferocemente che contro il quadro e, come sette anni dopo a Roma Nino Costa contro il Voto, i più feroci furono fin d'allora gli artisti che scrivevano d'arte, Camillo Boito e Adriano Cecioni.

Per quella moda del Giappone l'Italia rischiò addirittura di perdere il suo Michetti. Nel settembre del 1878 Antonio Fontanesi aveva, dopo meno di due anni, lasciato la cattedra di pittura all'Accademia di Tochio e se ne era tornato a Torino pel conforto degli amici e dei discepoli che il gran pubblico l'ignorava. Michetti andando ancora una volta a Parigi si fermò a Torino e andò col De Amicis a trovarlo, e il Fontanesi gli fece grandi lodi del Giappone, tanto che Michetti tornò difilato a Roma e preparò i documenti pel concorso alla cattedra lasciata libera dal Fontanesi e li presentò alla legazione giapponese. Re Umberto era salito al trono da pochi mesi. Una mattina Michetti incontrò un generale, amico suo e ajutante di campo del re, che gli consigliò d'andare, prima di partire, a salutare il sovrano. Michetti accettò e mandò a stirare e a smacchiare la sua marsina. La marsina non era tornata quando giunse l'invito nel giorno stesso, al tocco. Ed ecco il pittore partire, invece che pel Giappone, alla ricerca della sua marsina. La trova dalla stiratrice, appesa alla finestra, stillante d'acqua, che la brava donna aveva pensato, per smacchiarla, di lavarla tutta.

Michetti l'afferra bagnata com'è, corre a casa, la asciuga al fuoco come può, e se l'infila che fumava e i calzoni gli arrivavano a mezza gamba e le falde sembravano due cenci. Tira di qua, tira di là, arrivò al Quirinale in un tale stato che in anticamera i domestici gli domandarono il nome della società operaia da lui rappresentata. Fu introdotto dal re. Bisogna vedere e udite Michetti raccontare quel colloquio roteando gli occhi per imitare lo sguardo fiero di Umberto, e stirandosi colle due mani sul ventre il panciotto bagnato per fargli raggiungere la cintola dei calzoni : "— Voi, Michetti, proprio voi volete andare al Giappone ? - Maestà, vi lavorerò molto bene. - Michetti, voi non dovete andare laggiù. Il vostro posto è qui".

Michetti non volle udir altro. In fondo le parole del re gliele diceva già da molti giorni il suo cuore. Tornò a casa, regalò a qualcuno la sua marsina grinzosa, e restò in Italia. Al Giappone andò l'altro concorrente, un pittore Sangiovanni.

Così Michetti potè concorrere alle esposizioni di Torino del 1880 e di Milano del 1881. Furono quelle le prime prove in cui egli si misurò coi più austeri pittori settentrionali, col Bianchi, col Carcano, col Fontanesi il quale a Torino esponeva le Nubi e parve che nessuno, nè giurie nè pubblico, se ne avvedesse. E al romor del successo anche quelle prove sembrarono riuscir fortunatissime per Michetti. A Torino esponeva tutte pitture ad olio, i Pescatori di Ondine, i Morticini, la Domenica delle Palme che era quasi una variante del Corpus Domini, L'Impressione sull'Adriatico che è rimasta una delle sue marine più schiette e luminose su quel mare senza tramonti, infine l'Ottava che fu subito comprata dal re. A Milano espose trentaquattro quadri - teste e paesi - e la maggior parte era dipinta a pastello e a tempera. Le teste eran quasi tutte teste di giovani contadine dalle gote sode, dai capelli lisci, dalle labbra tumide, dalle orecchie rosee ornate spesso da grandi cerchi d'oro, campioni di salute e di gioventù, grandi spesso quanto il vero, così che sembravano, strette nella cornice, anche più grandi del vero, un po' sorde di luce o almeno tutte dipinte sotto un'uguale luce di studio senza che mai l'aria aperta dei loro campi le avvolgesse e le animasse, ravvivate solo da qualche sfrego di colori violenti. un giallo, un rosso, un cobalto sul fondo o nello scialle sul seno, ma modellate, pareva, a colpi di pollice e quasi scolpite. Furon vendute tutte nei primi giorni e riprodotte tutte coi pochi processi fotomeccanici che allora venivan di moda e imitate e falsificate all'infinito. La casa Danesi ne fece tutt'un album.

E poichè in quelli anni, in mezzo al così detto agone letterario balzava, anch'egli ridendo di sincerissima gioia, Gabriele d'Annunzio appena ventenne (Primo vere usciva nell'80 e la prima grande edizione sommarughiana del Canto novo composto « tra l'apide del 1881 e l'aprile del 1882 » era illustrata con disegni di Michetti), quelle belle donne parvero le muse contadine del nuovo poeta e la

. . . . bella frenante la foga de' lombi stupendi
tra le prunaje rosse giù per la china audace,
alta, schiuse le nari ferine a l'odor de la selva,
violata da'l sole, bella stornellatrice....

parve nello specchio poetico l'acceso riflesso d'un quadro michettiano.

Nessuno dei molti critici e biografi di Gabriele d'Annunzio — Croce, Morello, Borgese — ha ancora voluto studiare quanto quel poeta tutto sensi che a vent'anni era già innamorato di tutte le arti figurative e già riempiva dei loro ricordi i suoi scritti, abbia dovuto, allora e poi, all'affettuosa vicinanza del Michetti. Nei quadri del suo conterraneo già celebre molte delle figure, delle scene,dei paesi d'Abruzzo che egli poi descriveva, gli apparivano già imitate in opera d'arte, cioè già definite nei loto caratteri essenziali e ordinate in modo da produrre sul pubblico l'effetto voluto.

Certo egli già vedeva le cose con quella curiosità inesausta che in arte è propria dei grandi descrittori di paese, da Chateaubriand a Maupassant. Ma Michetti gl'insegnò a guardarle. Non basta fermarsi alla somiglianza dei temi, dal San Pantaleo alla Figlia di Jorio. Bisogna giungere più in fondo. Vincenzo Morello ha pubblicato nel suo Gabriele d'Annunzio alcune pagine d'un taccuino del poeta scritte appunto tra il 1881 e il 1882: son tutte descrizioni di paese e son tutte fatte col "delirio" coloristico del Michetti di quel tempo, segnando i varii colori di ogni cosa, d'ogni vela, d'ogni nuvola, d'ogni pianta, d'ogni foglia, con una mania pittorica minuta e continua che è rara nei poeti.

Lo stesso paesaggio visto da due persone diventa due paesaggi, ma d'Annunzio allora vide il paesaggio ha Chieti e Francavilla, dalle colline alle foci del Pescara, esattamente come lo vide Michetti, si può dite con gli occhi di lui. Poi anch'egli si fece più sobrio, più meditato e acquistò in stile quel che perdette in foga. Ed anche Michetti fece lo stesso. Così si può pensare che alla trasformazione, alla semplificazione, direi alla stilizzazione della pittura michettiana tra il 1883 e il 1895, tra il Voto e la Figlia di Jorio, abbia a sua volta contribuito l'esempio di Gabriele d'Annunzio, il quale ospite del Michetti scrisse a Francavilla, nel Convento di Santa Maria Maggiore comprato dal pittore proprio nel 1883, il Piacere (1884-1889), l'Innocente (1890-1892) e buona parte di quel Trionfò della Morte (1889-1894) che è appunto dedicato al Michetti con una prefazione nella quale è detto:
"Ti ho anche raccolta in più pagine, o Cenobiarca, l'antichissima poesia di nostra gente: quella poesia che tu primo comprendesti e che per sempre ami".

Ma torniamo all'esposizione di Milano del 1881. In quella trentina di quadri e di quadretti era sempre la stessa esuberanza, la stessa volontà di meravigliare, le stesse giapponeserie un po' di maniera in cui ai salti acrobatici di prospettiva lineare non corrispondeva sempre una educata finezza di prospettiva aerea, le stesse cornici con stelle, croci, fiori, rami di mandorlo e d'olivo che dalla cornice passavano poi dipinti sullo stesso vetro davanti al quadro, e sempre la stessa nativa strabiliarte facilità di dipingere senza un'esitazione mai, una manualità così pronta, così sagace, così gioiosa che moltiplicava nel pubblico il diletto pel tema e pei festosi colori perchè gli faceva quasi vedere di là dalla tela il volto ridente e spensierato del pittore. E il tema era sempre chiaro e definito come in un quadretto di genere, ma con pochi personaggi e con un'evidenza e una naturalezza e una grazia ignote fino allora a tutti i pittori di genere, fuorchè all'Indulto e al Favretto: ad esempio una covata di pulcini che invade la culla dove dorme un bel bimbo; un'altra covata di pulcini che pigola sulla veste della madre inginocchiata presso la culla del suo bimbo morto; una contadina fiorosa e ingemmata seguita da due innamorati, uno magro e malinconico e uno lieto che canta.

Il canto torna spesso in quelli anni, nei quadri dì Michetti: è la voce stessa dell'anima sua. Una bella contadina che in un paesaggio primaverile canta il suo amore in faccia alla pianura o al mare, è il più somigliante e sincero ritratto della sua arte. Per accompagnare le varie voci di questo canto, quell'impetuoso indugia a scegliere i gesti e i colori, e li dispone in fila conte un musicista metterebbe le note più su o più giù, sulle cinque righe della sua carta. Il primo studio delle sue Cinque ragazze che cantano è un pastello sommario dove cinque ragazze facendo catena con le belle braccia s'avanzaro sopra un declivio che taglia la scena in diagonale; la traccia e in nero lumeggiata da macchie di verde, d'azzurro e di bianco. Ma poi il tema è semplificato in un altro abbozzo a bianco e nero, con tre donne sole, separate, una a testa alta lanciando il canto al cielo, il soprano, - una a testa più bassa, il contralto, - una seria più indietro, l'accompagnamento monocorde e fisso; e le loro braccia son tese a far nell'aria quieta la via al suono. In un altro, anche posteriore, le tre cantatrici sono ferme tutte e tre, e in un angolo del disegno l'artista ha addirittura scritto le prime note del motivo...

Ma in fondo, alle esposizioni di Milano e di Torino, Michetti era ancora rimasto quello che era apparso nel Corpus Domini, e nessun quadro suo aveva superato i piccoli prodigi di pittura e di osservazione e di poesia che erano i quadri d'animali dipinti anche prima del 1877. E ormai egli aveva trent'anni. Ancora era superbo della sua giovinezza, della sua rudezza paesana, della sua frugalità spartana, della sua forza muscolare e della sua agilità. Ancora era capace di rispondere quel che aveva risposto giovanetto a un cliente il quale, avendo comprato un quadro di lui perchè l'aveva creduto del Palizzi ed essendo rimasto meravigliato che fosse invece di quel "pastorello", gli aveva chiesto: "- E voi che altro sapreste fare? — Cose centomila volte più difficili, — aveva risposto Michetti. — Per esempio? — Per esempio, questo," — e gli aveva fatto lì nel salotto due salti mortali da atterrire un ginnasta. Ma se si fosse accontentato di quello che ormai sapeva fare e di quel che tutti ormai sapevano che egli sapeva fare, sarebbe finito dove è finita, morti Toma, Morelli, Palizzi, tutta l'altra abilissima pittura napoletana: in un silenzio che par di tomba.

Per fortuna il Michetti era più prudente di quel che credevano i suoi critici e i suoi laudatori. Continuava, sì, a dipingere pastorelle e bimbi e contadini innamorati e contadine belle — di quelle contadine di cui il Millet, quando le aveva vedute dipinte dal Breton, aveva detto: Ces filles là sont trop jolies pour rester au village, — e continuava a dipingerle con una virtuosità che gli faceva anche dai critici perdonare la leziosaggine, con una evidenza e un rilievo e spesso con una poesia che le faceva dai laudatori paragonare a idillii teocritei e ad egloghe virgiliane. Ma nella solitudine della sua Francavilla dove aveva ai primi guadagni condotto la famiglia, egli sapeva ormai meditare anche sul suo avvenire e sul miglior modo d'uscire con un bel salto e con un po' di fracasso da quel mar di dolcezze. Gl'intronavano gli orecchi con la sua grazia, la sua giocondità, la sua tenerezza, la sua seduzione? Ed eccolo contro ogni aspettativa mandare a Roma per la grande esposizione del 1883 il Voto: una vasta tela, un tema lugubre, al chiuso, senza cielo, un pensiero, come già si diceva, sociale, miseria e superstizione, stupidità e sangue, una pittura rude che sente il terriccio del paesetto e che è inquadrata in una cornice stretta come una bacchetta. E dichiarò che quel quadro l'aveva dipinto in tre mesi, e in un angolo scrisse «Non finito».

Narravano tutt'i fogli che l'anno avanti, di luglio, Michetti s'era trovato a un'ora da Francavilla nel villaggio di Miglianico per godersi la festa e la processione di San Pantaleone patrono del villaggio. La testa d'argento del santo "bianca in mezzo a un gran disco solare"» (1) veniva per quel giorno tratta dal sotterraneo dove è sempre custodita dietro un cancello di bronzo, e i canonici del Capitolo avevano pensato di chiedere a un fotografo di ritrarla. Saputo che Michetti era là, gli avevano chiesto di soccorrere coi suoi consigli il fotografo. Michetti aveva acconsentito, e appena il busto d'argento era apparso sulla porta della chiesa a un cenno di lui il corteo si era fermato e s'era aperto, la macchina pronta sul suo trepiede era stata messa in fuoco, il fotografo e il pittore erano scomparsi sotto lo scialle nero e la fotografia era stata fatta, fra l'attonito silenzio dei paesani. Ma poche ore dopo era scoppiato un uragano, la grandine aveva devastato tutto il raccolto, e i paesani avevano urlato che quella era la vendetta del santo, il tangibile seguo del suo abbandono ora che una sua immagine era stata portata via da Miglianico. Nessuno aveva potuto frenarli: essi si erano scagliati alla ricerca del pittore per linciarlo.


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