A forza di guardarla, era riuscito a ipnotizzare una
gallina. Nel retrobottega di un venditore di tele da quadri,
Meniello, al Largo Mercatello, Michetti la piantava sopra
una tavola e con una bacchetta le voltava la testa a destra
e a sinistra secondo il bisogno. Un giorno la principessa di
Fondi venne a vedere il prodigio, comprò la pittura, la
mostrò al Morelli, il quale volle esporla e le trovò lui
stesso la cornice. Fu il primo quadro di Michetti che
apparve in pubblico.
Intanto altri collezionisti si disputavano tutto quel
ch'egli faceva: più pronti e più fortunati di tutti Edoardo
Dalbono e don Paolo Rotondo, un mecenate di cuore e di gusto
la cui raccolta è ora pel testamento di Beniamino Rotondo
passata al museo di San Martino. Io mi rammento di aver
veduto nel 1899 a Berlino, quando in quell'Accademia Reale
furono esposte trecentoventicinque opere del Michetti,
Willelm Leibl chino sopra una di quelle meraviglie esclamare
stupito: - Wie hat er das gemacht? Wie hat er das gemalt? -
Finì a scolpire. Dalbono ha una terracotta di lui che pare
di Gemito, e a Parigi nel '78 Michetti mandò addirittura un
gruppo in scultura: rappresentava una madre nuda giacente e
accanto a lei il suo bambino che rideva e le strizzava la
mammella; e poichè aveva dipinto il gesso in verde scuro per
farlo sembrare bronzo la folla ammirava esclamando: - Quelle
beautè! C'est une negresse ..... — Ma gliel'esposero
all'aria aperta e ci piovve su e il finto bronzo finì in
pezzi lì a Parigi.
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Intanto una sera, nella primavera del '69 o del '70, in
accademia gli allievi fecero baccano. La mattina dopo quando
Michetti si presentò al portone dell'Istituto, il bidello lo
fermò: - Nun potite trasì...
- E perchè no ?
- Perchè no. Nun v'ho pozzo dì.
Ma Michetti lo scansa con un urtone, vola su per le scale,
entra in direzione, in pieno consiglio accademico. Tutti lo
guardano, chi stupito, chi spaurito. Il segretario lo
affronta: - Che volete ? - Voglio sapere perchè non posso
più entrare nell'accademia. - Allora il segretario gli
mostra il rapporto d'un usciere che accusava proprio lui
Michetti d'aver preparato il tumulto, d'aver detto male di
due professori, Mancinelli e Morelli, addirittura. — Si
chiami l'usciere! — urla Michetti. Devono accontentarlo.
L'usciere viene, trema, si confonde, ma incoraggiato dal
segretario e da qualche professore finisce a confermare a
voce quel che ha scritto. Michetti lo fissa in faccia che
pare debba sbranarselo. Poi, disgustato dalla menzogna, si
contenta di alzar le spalle e di dichiarare al consiglio
accademico :
- Signori, io vi saluto. E per sempre!
- Dove vai ?
- Vado nel bosco di Capodimonte. A dipingere non s'impara
che lassù.
E non lo rividero più. Morelli andò a cercarlo per calmarlo,
fino in un'osteria dove la sera si radunavano a bere molti
pittori, e Morelli già glielo aveva rimproverato "che a bere
— diceva - è come se t'impiccassi con le tue mani". Lo
chiamò da parte :
- Embè, figlio mio, c'hai combinato?
Michetti gli ripetè il suo proposito incrollabile di
lasciare non solo l'accademia ma anche Napoli. E Morelli gli
mise le due mani sulle spalle, lo guardò commosso, poi gli
disse:
- Fa chillo che vuo', ma pitta, — e aveva gli occhi lucidi e
se ne andò.
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Così Michetti ripartì per l'Abruzzo e perdette anche la sua
pensione. Ma a Napoli tornò spesso a rivedere i pochi amici
cui voleva bene. Una volta a studio di Dalbono incontrò il
pittore Carlo Melina che nell'appartamento della principessa
di San Severo, di cui era l'intendente, aveva trovato in un
vecchio mobile una scatoletta di pastelli carnicini
dimenticati lì dal settecento. Il pastello quasi da un
secolo era stato abbandonato in Italia, che classici e
romantici per amore della "grande arte" l'avevano giudicato
frivolo e femminile come tutta la graziosa e leziosa pittura
settecentesca, da Latour a Rosalba.
Dalbono prese su dall'ovatta ingiallita quei pezzi di terra
rossa e rosea e sopra un cartone delineò lì per lì una mano
dello stesso Melina. Michetti lo guardava in silenzio. Alla
fine gli chiese di portarsi via la preziosa scatoletta, e
appena si ritrovò in Abruzzo, col suo solito metodo, prima
si fabbricò degli altri bastoncelli simili d'ogni colore,
poi si mise a dipingere con quelli teste e paesi. E tutti
sanno quel che egli, innamorato fin da allora della pittura
opaca, seppe far col pastello. Da principio l'adoperò solo
per ritoccare le tempere, e nella mostra nazionale di Napoli
del 1877 apparvero dipinti così un suo ritratto dello
scultore abruzzese Costantino Barbella che fu anch'egli con
la terracotta della Canzone d'amore una delle
rivelazioni della mostra, e un autoritratto — quello
spavaldo autoritratto cogli occhi fierissimi e il cappello
sulla nuca e la camicia aperta sul collo che insospettì
Camillo Boito e gli fece scrivere le sagge parole: "Sospetto
forte che non sia poi un tanto gran matto quanto egli vuol
che creda".
Intanto avendo firmato un contratto col Reutlinger
negoziante d'arte a Parigi, Michetti aveva fatto una corsa
fin là. V'era giunto ai primi di giugno del 1871 quando le
rovine delle Tuileries fumavano ancora. In treno a Modane
s'era incontrato col pittore ticinese Luigi Chialiva che non
lo conosceva ma aveva nella sua valigia un quadretto di
pecore dipinto da lui e dal Chialiva comprato in Germania.
Quando il Chialiva seppe che il suo giovane compagno era
pittore e italiano, gli mostrò il quadro chiedendogli chi
fosse questo Michetti:
- A veder com'è dipinto questo quadretto, deve essere avanti
negli anni. Ma io non lo conosco. — Michetti gli si fece
conoscere dicendo i suoi vent'anni. A Parigi vissero
insieme, ma il Chialiva non ne è ancora partito, tanto che
da molti, non dagli amici, è considerato più francese che
italiano.
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Di fatto, solo le Pastorelle abruzzesi che si
tenevano per mano, riprodotte nel 1875 dall'Illustrazione
Italiana
del Treves cui il fratello del Michetti, Quintilio, dava
spesso schizzi e disegni, avevano cominciato a diffondere il
nome del giovane abruzzese fuori del mezzogiorno; e il buon
Netti pittore e scrittore, appena le aveva vedute, aveva
scritto con franchezza di collega: "Finisce a far invidia.
Con che diritto costui fa bene senza stentare e senza aver
sofferto nulla?"
Ma due anni dopo era difficile trovare chi in Italia non
conoscesse Michetti e non ammirasse quella sua arte
vivacissima e spiritata conte il più palese segno della
giovinezza della nazione rinata. L'Esposizione nazionale di
Napoli del 1877, alla quale non partecipavano nè il Morelli
nè il Palizzi nè il Dalbono nè il De Nittis nè il Vertunni,
lasciò nella pittura meridionale libero il trionfo al
Corpus Domini del Michetti. E d'altra parte, le altre
buone pitture come lo
Sposalizio del Chirico da molti opposto per somiglianza di soggetto e per
una più ponderata invenzione al quadro del Michetti, la
Porta Adriana a Ravenna di Telemaco Signorini che pareva
indulgere all'universale adorazione per l'inimitabile
Fortuny, il semplice e commosso Monte di Pietà di
Francesco Gioli, il luminoso Coro pagano di Francesco
Netti, il Palazzo di giustizia a Tangeri del Biseo,
il vasto e fosco Covo dei briganti del Cammarano, l'Eruzione
del Vesuvio del Torna, la Villa d'Orazio del
Miola, la Testa di Ottavia davanti a Nerone del
giovane Muzzioli, il primo Duomo gli Milano di
Filippo Carcano, il San Girolamo di Gérome e, fra le
sculture, i Fratelli Cairoli del Rosa, l'Ortis
di Ettore Ferrari, la Canzone d'amore del Barbella,
tre giovani quasi ignoti, e i brutali Parassiti del
d'Orsi dal cui fosco verismo tanto vigore doveva poi trarre
lo stesso Michetti, e perfino le polemiche e le proteste che
accompagnarono fra gli artisti di tutta Italia la formazione
e i deliberati della giuria, e le ripetute visite del re,
dei principi reali, dell'imperatrice Eugenia, tutto
contribuì ad attirare su quella mostra, cioè sull'improvvisa
fama del Michetti, l'attenzione nazionale. Fu un coup de
foudre o, come dissero i colleghi più maliziosi, lo
scoppio d'un fuoco d'artificio.
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Il quadro fu subito chiesto dal Goupil, ma le lunghe
trattative infastidirono il Michetti che le interruppe in un
modo degno di lui: regalando il quadro alla contessa de la
Field. La contessa de la Field per riconoscenza ordinò al
pittore un quadro simile a quello; e fu la Mattinata.
Alla vendita de la Field Matteo Schilizzi li comprò tutti e
due e poco dopo acconsentì a prestarli a un'esposizione
d'arte italiana in Berlino, dove l'imperatore di Germania
volle ad ogni costo comprare il Corpus Domini. E
naturalmente lo ha ancora.
Il quadro rappresenta, senza cielo, la facciata e, per tutta
la larghezza della tela, la scalinata d'una di quelle cupe
chiese abruzzesi intorno al mille i cui tesori
d'architettura e di decorazione sono stati studiati con
metodo solo in questi ultimi anni dal francese Emile
Berteaux. Dalla porta maggiore spalancata, sotto un ampio
baldacchino di seta a righe bianche e gialle, esce il prete
officiante con la pisside sotto il piviale rutilante.
Proprio dietro a lui, pel vano della porta, splende l'occhio
del fondo dell'abside. I soci delle Confraternite ammantati
di bianco, uno con la cappa turchina, uno con la cappa
viola, cantano a tutta gola e sostengono le aste del
baldacchino o, in cima a pali, fasci d'erbe e di fiori e,
tra il frondame, globi di cristallo bianco, accesi dentro.
Avanti a loro, quattro donne vestite di nero, due per lato:
tra le donne proprio nel mezzo una fila di bambini nudi sani
e paffuti, di ambra e di rosa. I piccoli ventri ancor gonfi,
gli anelli che la pelle arrendevole fa ai malleoli,
all'inguine, al collo, ai polsi, ai gomiti, e le loro
collane d'oro e i diademi d'oro gravi e barbarici e i
calzettini di lana candida con fiocchi e nappe, e più, gli
atteggiamenti dei piccoli trionfatori, uno pauroso, uno
fisso e sorridente, uno maestoso, uno danzante, uno
impettito, uno ritroso: tutto è reso con una mano ferma e
pur carezzevole, d'un brio e d'una astuzia indiavolata. Su
tutti i gradini è una fiorita di mille colori, e a destra di
chi guarda è una calca di donne che lanciano fiori con
impeto, e altre pregano, e altre si stupiscono, e altre
ridono gettandosi indietro in un arco da baccanti; anche
qualche vecchia è fra loro. A sinistra invece alcuni
contadini vestiti di panno turchino, sotto la direzione d'un
capo banda vestito di nero, battono grancasse e tamburi,
soffiano in tutta una batteria di ottoni infiorati di rose,
ornati di penne di pavone e di fiocchi. Dietro di essi di là
dalla chiesa, a sinistra, un po' di paese aperto e chiaro:
un albero verde, casupole lontane, un cielo azzurrino,
nubecole bianche sparse, rondini volanti.
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E nell'orgia dei colori, come si diceva allora, si scorgono
tutti i movimenti che sembrerebbero più difficili a
fissarsi. Pare che soffiando su questa tela, qualcosa debba
volarne via. I fiori scagliati son colti a mezz'aria. Le
donne che discendono hanno un piede sospeso fra due scalini.
La mano che leva la mazza sulla grancassa, resta a mezzo
gesto. Un contadino in primissimo piano (il ritratto,
dissero, dello stesso pittore, e l'allegoria era un po'
arguta e un po' imprudente) dà fuoco a un petardo che
scoppia in quel punto, e se ne ripara con la mano aperta,
facendo una smorfia. E anche una donna lì presso si ritrae
squilibrandosi verso il centro.
Certo non vi furono solo entusiasmi. L'eccesso di grazia, la
volontà di stupefare, quella visione tutta gioconda e un po'
carnevalesca della vita campestre che pittori d'oltralpe, da
Courbet a Millet, già da molti anni rappresentavano invece
con una serietà fatta di malinconia e di pietà, sembrarono a
molti altrettante prove dei rischí che correva quella
meravigliosa natura di pittore. D'altra parte l'evidente
ammirazione del Miehetti per la pittura "tutt'occhio" dello
spagnolo Mariano Fortuny che solo da tre anni era morto a
Roma ed era stato accompagnato al cimitero da tutti gli
artisti nostri fra un compianto solenne come un'apoteosi, se
dava aí fortuniani d'Italia, quasi tutti romani, napoletani
e fiorentini, un nuovo argomento per esaltare il quadro del
Michetti, dispiaceva a coloro che sette anni dopo la presa
di Roma iperavano di veder sorgere una pittura tipicamente
italiana anche nel mezzogiorno, e invece vedevano
fortuneggiare nel Bagno turco o nella Visita ai
sepolcri perfino Domenico Morelli.
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il Fortuny aveva vissuto a Portici nella Villa Arata tutta
l'estate del 1874, cioè fino a pochi giorni prima della sua
morte. Gemito aveva modellato la testa di lui, di sua figlia
e di suo cognato. La casa del Fortuny, ricco, generoso,
ospitale, innamorato dell'Italia, era aperta a tutti gli
artisti napoletani, tanto che una notte capitanati da
Dalbono, da Gemito e da Mancini, essi, armati di mandolini e
di chitarre, andarono da Napoli a Portici a cantargli una
serenata:
P'allicurdà lu tiempo
Che a dacce tanto annore
Fortunno, lu pittore,
A Napoli starrà.
Un mese dopo la morte di lui, pel capodanno del 1875,
Edoardo Dalbono scriveva alla signora Fortuny queste parole
che riassumono l'entusiastico affetto di tutti i suoi
colleghi pel grande spagnolo: "Per noi Fortuny vive sempre.
Egli è con noi sempre che la nostra fantasia si eleva nel
campo della bellezza, egli è con noi quando si spera, egli è
con noi sempre che una carta ed un lapis si presentino ai
nostri occhi, egli è con noi quando, la natura è splendida
di sole ed abbagliante. Ogni discorso d'arte qui finisce con
Mariano Fortuny".
E basta guardare gli acquerelli del Dalbono per riconoscere
la sincerità di quella adorazione. La quale del resto
trovava nelle ordinazioni dei maggiori mercanti parigini
d'arte, del Goupil o del Reutlinger, anche argomenti
persuasivi. Dalbono, Campriani, Tofano, Michetti e proprio
nel l875 lo stesso Morelli poterono firmare con essi
contratti sicuri e fruttuosi come da allora non se ne sono
più veduti fra gli artisti italiani. E data la mania del
mercato francese pel Fortuny, l'imitazione dei Fortuny, era
allora pel Goupil e pel Reutlinger non solo un criterio di
scelta ma anche una garanzia di fortuna.
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