Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - nr 192 - Dicembre 1910)

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Francesco Paolo Michetti

 
A forza di guardarla, era riuscito a ipnotizzare una gallina. Nel retrobottega di un venditore di tele da quadri, Meniello, al Largo Mercatello, Michetti la piantava sopra una tavola e con una bacchetta le voltava la testa a destra e a sinistra secondo il bisogno. Un giorno la principessa di Fondi venne a vedere il prodigio, comprò la pittura, la mostrò al Morelli, il quale volle esporla e le trovò lui stesso la cornice. Fu il primo quadro di Michetti che apparve in pubblico.

Intanto altri collezionisti si disputavano tutto quel ch'egli faceva: più pronti e più fortunati di tutti Edoardo Dalbono e don Paolo Rotondo, un mecenate di cuore e di gusto la cui raccolta è ora pel testamento di Beniamino Rotondo passata al museo di San Martino. Io mi rammento di aver veduto nel 1899 a Berlino, quando in quell'Accademia Reale furono esposte trecentoventicinque opere del Michetti, Willelm Leibl chino sopra una di quelle meraviglie esclamare stupito: - Wie hat er das gemacht? Wie hat er das gemalt? - Finì a scolpire. Dalbono ha una terracotta di lui che pare di Gemito, e a Parigi nel '78 Michetti mandò addirittura un gruppo in scultura: rappresentava una madre nuda giacente e accanto a lei il suo bambino che rideva e le strizzava la mammella; e poichè aveva dipinto il gesso in verde scuro per farlo sembrare bronzo la folla ammirava esclamando: - Quelle beautè! C'est une negresse ..... — Ma gliel'esposero all'aria aperta e ci piovve su e il finto bronzo finì in pezzi lì a Parigi.

Intanto una sera, nella primavera del '69 o del '70, in accademia gli allievi fecero baccano. La mattina dopo quando Michetti si presentò al portone dell'Istituto, il bidello lo fermò: - Nun potite trasì...
- E perchè no ?
- Perchè no. Nun v'ho pozzo dì.
Ma Michetti lo scansa con un urtone, vola su per le scale, entra in direzione, in pieno consiglio accademico. Tutti lo guardano, chi stupito, chi spaurito. Il segretario lo affronta: - Che volete ? - Voglio sapere perchè non posso più entrare nell'accademia. - Allora il segretario gli mostra il rapporto d'un usciere che accusava proprio lui Michetti d'aver preparato il tumulto, d'aver detto male di due professori, Mancinelli e Morelli, addirittura. — Si chiami l'usciere! — urla Michetti. Devono accontentarlo. L'usciere viene, trema, si confonde, ma incoraggiato dal segretario e da qualche professore finisce a confermare a voce quel che ha scritto. Michetti lo fissa in faccia che pare debba sbranarselo. Poi, disgustato dalla menzogna, si contenta di alzar le spalle e di dichiarare al consiglio accademico :
- Signori, io vi saluto. E per sempre!
- Dove vai ?
- Vado nel bosco di Capodimonte. A dipingere non s'impara che lassù.
E non lo rividero più. Morelli andò a cercarlo per calmarlo, fino in un'osteria dove la sera si radunavano a bere molti pittori, e Morelli già glielo aveva rimproverato "che a bere — diceva - è come se t'impiccassi con le tue mani". Lo chiamò da parte :
- Embè, figlio mio, c'hai combinato?
Michetti gli ripetè il suo proposito incrollabile di lasciare non solo l'accademia ma anche Napoli. E Morelli gli mise le due mani sulle spalle, lo guardò commosso, poi gli disse:
- Fa chillo che vuo', ma pitta, — e aveva gli occhi lucidi e se ne andò.

Così Michetti ripartì per l'Abruzzo e perdette anche la sua pensione. Ma a Napoli tornò spesso a rivedere i pochi amici cui voleva bene. Una volta a studio di Dalbono incontrò il pittore Carlo Melina che nell'appartamento della principessa di San Severo, di cui era l'intendente, aveva trovato in un vecchio mobile una scatoletta di pastelli carnicini dimenticati lì dal settecento. Il pastello quasi da un secolo era stato abbandonato in Italia, che classici e romantici per amore della "grande arte" l'avevano giudicato frivolo e femminile come tutta la graziosa e leziosa pittura settecentesca, da Latour a Rosalba.

Dalbono prese su dall'ovatta ingiallita quei pezzi di terra rossa e rosea e sopra un cartone delineò lì per lì una mano dello stesso Melina. Michetti lo guardava in silenzio. Alla fine gli chiese di portarsi via la preziosa scatoletta, e appena si ritrovò in Abruzzo, col suo solito metodo, prima si fabbricò degli altri bastoncelli simili d'ogni colore, poi si mise a dipingere con quelli teste e paesi. E tutti sanno quel che egli, innamorato fin da allora della pittura opaca, seppe far col pastello. Da principio l'adoperò solo per ritoccare le tempere, e nella mostra nazionale di Napoli del 1877 apparvero dipinti così un suo ritratto dello scultore abruzzese Costantino Barbella che fu anch'egli con la terracotta della Canzone d'amore una delle rivelazioni della mostra, e un autoritratto — quello spavaldo autoritratto cogli occhi fierissimi e il cappello sulla nuca e la camicia aperta sul collo che insospettì Camillo Boito e gli fece scrivere le sagge parole: "Sospetto forte che non sia poi un tanto gran matto quanto egli vuol che creda".

Intanto avendo firmato un contratto col Reutlinger negoziante d'arte a Parigi, Michetti aveva fatto una corsa fin là. V'era giunto ai primi di giugno del 1871 quando le rovine delle Tuileries fumavano ancora. In treno a Modane s'era incontrato col pittore ticinese Luigi Chialiva che non lo conosceva ma aveva nella sua valigia un quadretto di pecore dipinto da lui e dal Chialiva comprato in Germania. Quando il Chialiva seppe che il suo giovane compagno era pittore e italiano, gli mostrò il quadro chiedendogli chi fosse questo Michetti:
- A veder com'è dipinto questo quadretto, deve essere avanti negli anni. Ma io non lo conosco. — Michetti gli si fece conoscere dicendo i suoi vent'anni. A Parigi vissero insieme, ma il Chialiva non ne è ancora partito, tanto che da molti, non dagli amici, è considerato più francese che italiano.

Di fatto, solo le Pastorelle abruzzesi che si tenevano per mano, riprodotte nel 1875 dall'Illustrazione Italiana del Treves cui il fratello del Michetti, Quintilio, dava spesso schizzi e disegni, avevano cominciato a diffondere il nome del giovane abruzzese fuori del mezzogiorno; e il buon Netti pittore e scrittore, appena le aveva vedute, aveva scritto con franchezza di collega: "Finisce a far invidia. Con che diritto costui fa bene senza stentare e senza aver sofferto nulla?"

Ma due anni dopo era difficile trovare chi in Italia non conoscesse Michetti e non ammirasse quella sua arte vivacissima e spiritata conte il più palese segno della giovinezza della nazione rinata. L'Esposizione nazionale di Napoli del 1877, alla quale non partecipavano nè il Morelli nè il Palizzi nè il Dalbono nè il De Nittis nè il Vertunni, lasciò nella pittura meridionale libero il trionfo al Corpus Domini del Michetti. E d'altra parte, le altre buone pitture come lo Sposalizio del Chirico da molti opposto per somiglianza di soggetto e per una più ponderata invenzione al quadro del Michetti, la Porta Adriana a Ravenna di Telemaco Signorini che pareva indulgere all'universale adorazione per l'inimitabile Fortuny, il semplice e commosso Monte di Pietà di Francesco Gioli, il luminoso Coro pagano di Francesco Netti, il Palazzo di giustizia a Tangeri del Biseo, il vasto e fosco Covo dei briganti del Cammarano, l'Eruzione del Vesuvio del Torna, la Villa d'Orazio del Miola, la Testa di Ottavia davanti a Nerone del giovane Muzzioli, il primo Duomo gli Milano di Filippo Carcano, il San Girolamo di Gérome e, fra le sculture, i Fratelli Cairoli del Rosa, l'Ortis di Ettore Ferrari, la Canzone d'amore del Barbella, tre giovani quasi ignoti, e i brutali Parassiti del d'Orsi dal cui fosco verismo tanto vigore doveva poi trarre lo stesso Michetti, e perfino le polemiche e le proteste che accompagnarono fra gli artisti di tutta Italia la formazione e i deliberati della giuria, e le ripetute visite del re, dei principi reali, dell'imperatrice Eugenia, tutto contribuì ad attirare su quella mostra, cioè sull'improvvisa fama del Michetti, l'attenzione nazionale. Fu un coup de foudre o, come dissero i colleghi più maliziosi, lo scoppio d'un fuoco d'artificio.

Il quadro fu subito chiesto dal Goupil, ma le lunghe trattative infastidirono il Michetti che le interruppe in un modo degno di lui: regalando il quadro alla contessa de la Field. La contessa de la Field per riconoscenza ordinò al pittore un quadro simile a quello; e fu la Mattinata. Alla vendita de la Field Matteo Schilizzi li comprò tutti e due e poco dopo acconsentì a prestarli a un'esposizione d'arte italiana in Berlino, dove l'imperatore di Germania volle ad ogni costo comprare il Corpus Domini. E naturalmente lo ha ancora.

Il quadro rappresenta, senza cielo, la facciata e, per tutta la larghezza della tela, la scalinata d'una di quelle cupe chiese abruzzesi intorno al mille i cui tesori d'architettura e di decorazione sono stati studiati con metodo solo in questi ultimi anni dal francese Emile Berteaux. Dalla porta maggiore spalancata, sotto un ampio baldacchino di seta a righe bianche e gialle, esce il prete officiante con la pisside sotto il piviale rutilante. Proprio dietro a lui, pel vano della porta, splende l'occhio del fondo dell'abside. I soci delle Confraternite ammantati di bianco, uno con la cappa turchina, uno con la cappa viola, cantano a tutta gola e sostengono le aste del baldacchino o, in cima a pali, fasci d'erbe e di fiori e, tra il frondame, globi di cristallo bianco, accesi dentro. Avanti a loro, quattro donne vestite di nero, due per lato: tra le donne proprio nel mezzo una fila di bambini nudi sani e paffuti, di ambra e di rosa. I piccoli ventri ancor gonfi, gli anelli che la pelle arrendevole fa ai malleoli, all'inguine, al collo, ai polsi, ai gomiti, e le loro collane d'oro e i diademi d'oro gravi e barbarici e i calzettini di lana candida con fiocchi e nappe, e più, gli atteggiamenti dei piccoli trionfatori, uno pauroso, uno fisso e sorridente, uno maestoso, uno danzante, uno impettito, uno ritroso: tutto è reso con una mano ferma e pur carezzevole, d'un brio e d'una astuzia indiavolata. Su tutti i gradini è una fiorita di mille colori, e a destra di chi guarda è una calca di donne che lanciano fiori con impeto, e altre pregano, e altre si stupiscono, e altre ridono gettandosi indietro in un arco da baccanti; anche qualche vecchia è fra loro. A sinistra invece alcuni contadini vestiti di panno turchino, sotto la direzione d'un capo banda vestito di nero, battono grancasse e tamburi, soffiano in tutta una batteria di ottoni infiorati di rose, ornati di penne di pavone e di fiocchi. Dietro di essi di là dalla chiesa, a sinistra, un po' di paese aperto e chiaro: un albero verde, casupole lontane, un cielo azzurrino, nubecole bianche sparse, rondini volanti.

E nell'orgia dei colori, come si diceva allora, si scorgono tutti i movimenti che sembrerebbero più difficili a fissarsi. Pare che soffiando su questa tela, qualcosa debba volarne via. I fiori scagliati son colti a mezz'aria. Le donne che discendono hanno un piede sospeso fra due scalini. La mano che leva la mazza sulla grancassa, resta a mezzo gesto. Un contadino in primissimo piano (il ritratto, dissero, dello stesso pittore, e l'allegoria era un po' arguta e un po' imprudente) dà fuoco a un petardo che scoppia in quel punto, e se ne ripara con la mano aperta, facendo una smorfia. E anche una donna lì presso si ritrae squilibrandosi verso il centro.

Certo non vi furono solo entusiasmi. L'eccesso di grazia, la volontà di stupefare, quella visione tutta gioconda e un po' carnevalesca della vita campestre che pittori d'oltralpe, da Courbet a Millet, già da molti anni rappresentavano invece con una serietà fatta di malinconia e di pietà, sembrarono a molti altrettante prove dei rischí che correva quella meravigliosa natura di pittore. D'altra parte l'evidente ammirazione del Miehetti per la pittura "tutt'occhio" dello spagnolo Mariano Fortuny che solo da tre anni era morto a Roma ed era stato accompagnato al cimitero da tutti gli artisti nostri fra un compianto solenne come un'apoteosi, se dava aí fortuniani d'Italia, quasi tutti romani, napoletani e fiorentini, un nuovo argomento per esaltare il quadro del Michetti, dispiaceva a coloro che sette anni dopo la presa di Roma iperavano di veder sorgere una pittura tipicamente italiana anche nel mezzogiorno, e invece vedevano fortuneggiare nel Bagno turco o nella Visita ai sepolcri perfino Domenico Morelli.

il Fortuny aveva vissuto a Portici nella Villa Arata tutta l'estate del 1874, cioè fino a pochi giorni prima della sua morte. Gemito aveva modellato la testa di lui, di sua figlia e di suo cognato. La casa del Fortuny, ricco, generoso, ospitale, innamorato dell'Italia, era aperta a tutti gli artisti napoletani, tanto che una notte capitanati da Dalbono, da Gemito e da Mancini, essi, armati di mandolini e di chitarre, andarono da Napoli a Portici a cantargli una serenata:

P'allicurdà lu tiempo
Che a dacce tanto annore
Fortunno, lu pittore,
A Napoli starrà.

Un mese dopo la morte di lui, pel capodanno del 1875, Edoardo Dalbono scriveva alla signora Fortuny queste parole che riassumono l'entusiastico affetto di tutti i suoi colleghi pel grande spagnolo: "Per noi Fortuny vive sempre. Egli è con noi sempre che la nostra fantasia si eleva nel campo della bellezza, egli è con noi quando si spera, egli è con noi sempre che una carta ed un lapis si presentino ai nostri occhi, egli è con noi quando, la natura è splendida di sole ed abbagliante. Ogni discorso d'arte qui finisce con Mariano Fortuny".

E basta guardare gli acquerelli del Dalbono per riconoscere la sincerità di quella adorazione. La quale del resto trovava nelle ordinazioni dei maggiori mercanti parigini d'arte, del Goupil o del Reutlinger, anche argomenti persuasivi. Dalbono, Campriani, Tofano, Michetti e proprio nel l875 lo stesso Morelli poterono firmare con essi contratti sicuri e fruttuosi come da allora non se ne sono più veduti fra gli artisti italiani. E data la mania del mercato francese pel Fortuny, l'imitazione dei Fortuny, era allora pel Goupil e pel Reutlinger non solo un criterio di scelta ma anche una garanzia di fortuna.

 

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